Skip to content

Capitolo 1

Diritto alla salute e sistema sanitario.

Capitolo 1

Diritto alla salute e sistema sanitario

 

1.1         Il diritto alla salute: profili internazionali e comunitari

 

Il concetto di ‘salute’ può apparire di immediata percezione e di larga diffusione nel lessico comune, ma dare una definizione precisa ed univoca non è così semplice come si potrebbe pensare. Alcuni tentativi muovono da considerazioni di tipo naturalistico, per cui alla definizione di salute si accompagna l’immagine della normalità, intesa come “normalità strutturale e funzionalità fisiologica di ogni apparato e organo, con equilibrio globale dell’organismo sotto il profilo anatomico, biochimico, biofisico e neuropsichico”[1]. L’uomo in salute è colui i cui parametri biologici risultano ‘normali’ rispetto ad un prototipo ideale di tipo statistico. In questa prospettiva, la definizione di salute potrebbe essere formulata in senso meramente negativo, e consisterebbe nell’assenza di malattie. Si tratta, però, di una definizione incompleta, in quanto tiene conto solo della dimensione fisica della persona, non considerando altri aspetti più globali della vita di ciascun individuo.

Un punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo del moderno concetto di salute è rappresentato dalla definizione elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) all’atto della sua costituzione. Nel preambolo della Costituzione dell’OMS, firmata il 22 luglio 1946 a New York ed entrata in vigore il 7 aprile 1948, si legge: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solo in un’assenza di malattia o d’infermità”[2].

Questa definizione è in contrasto con quella puramente negativa di assenza di malattia, da cui prende esplicitamente le distanze. Essa rappresenta un tentativo di considerare la salute in positivo, riconoscendole un’identità definibile in sé, e non semplicemente in contrapposizione  ad una situazione di sofferenza e disagio.

L’OMS si fa, dunque, assertrice di un concetto ampio di salute, che non si riferisce solamente all’integrità fisica e all’assenza di malattia, ma coinvolge differenti aspetti della vita dell’individuo, quali gli aspetti psicologici, le condizioni naturali, ambientali, climatiche, la vita lavorativa, economica, sociale e culturale; tutto ciò che in qualche modo interagisce in senso positivo o negativo con l’esistenza dell’essere umano.

Oltre a dare una definizione di salute, l’OMS dichiara espressamente che “il godimento del livello di salute più elevato possibile è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, senza distinzione di razza, religione, credo politico, condizioni economiche e sociali”. Essa, dunque, riconosce un vero e proprio diritto alla salute che spetta ad ogni individuo. L’importanza di tale diritto richiede, sempre secondo l’OMS, che gli Stati si adoperino responsabilmente affinché esso venga salvaguardato, anche attraverso l’azione dei pubblici poteri.

Il diritto alla salute è riconosciuto in numerosi strumenti internazionali. In particolare, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, all’art. 25 afferma che: “Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha il diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”[3].

Più ampiamente, si occupa del diritto alla salute, il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, firmato a New York il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore in Italia il 23 marzo 1976. L’articolo 12 di tale Patto, al punto 1, afferma che gli Stati parti riconoscono “il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale”, mentre, al punto 2, individua, a titolo d’esempio, alcune misure che devono essere adottate dai singoli Stati affinché tale diritto venga salvaguardato[4].

In epoca recente, il Comitato per i Diritti Economici e Sociali delle Nazioni Unite, che monitora il relativo Patto del 1966, ha adottato un Commento generale riguardo il diritto alla salute[5]. In tale Commento viene specificato che il diritto alla salute, inteso dall’art. 12 del Patto come “il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale”, non si traduce semplicemente nel diritto ad una tempestiva ed appropriata assistenza sanitaria. Il diritto alla salute, infatti, “comprende un’ampia gamma di fattori sociali ed economici che promuovono le condizioni in cui le persone possono condurre una vita sana”, e si estende ad importanti determinanti della salute, quali l’accesso all’acqua potabile e a misure igieniche adeguate, ad un approvvigionamento sufficiente di cibo, alla possibilità di nutrirsi e di avere una alloggio, a condizioni di lavoro sicure e ad un ambiente salubre, l’accesso all’educazione e all’informazione sanitaria, anche nell’ambito sessuale e riproduttivo.

Il diritto alla salute non deve essere inteso semplicemente come diritto ad essere sani. Il diritto alla salute è strettamente legato e dipendente dall’effettiva realizzazione di altri diritti umani, quali il diritto al cibo, alla casa, al lavoro, all’educazione, alla dignità umana e, ancora, il diritto alla vita, alla non discriminazione, all’eguaglianza, alla proibizione della tortura, alla privacy, all’accesso all’informazione e alla libertà di associazione e di movimento. Tutti questi diritti e queste libertà sono componenti integranti del diritto alla salute[6].

Appaiono, quindi, forti i nessi di interdipendenza fra la salute ed altri valori fondamentali della persona, al punto che il concetto stesso di salute finisce così con il comprendere non soltanto funzioni biologiche in senso stretto, ma anche altri aspetti più globali della vita dell’uomo, necessari alla realizzazione delle migliori condizioni di salute, intesa quale completo benessere[7].

La tutela della salute non poteva non avere una sua rilevanza anche a livello comunitario. Essa trova riscontro, innanzitutto, nell’art. 152 del Trattato istitutivo della Comunità europea, il quale statuisce che: “Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività della Comunità è garantito un elevato livello di protezione della salute umana. L’azione della Comunità, che completa le politiche nazionali, si indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute umana. Tale azione comprende la lotta contro i grandi flagelli, favorendo la ricerca sulle loro cause, la loro propagazione e la loro prevenzione, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria. La Comunità completa l’azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti, comprese l’informazione e la prevenzione” (1° paragrafo)[8].

La tutela della salute umana costituisce, dunque, uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione europea. A tal fine, essa incoraggia la cooperazione degli Stati membri, anche a livello internazionale, e appoggia la loro azione in materia sanitaria.

Non meno rilevanti sono le disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che, da un lato, riconosce il diritto alla tutela della salute, affermando che “ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali” e ribadendo che “nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana” (art.35); dall’altro, tutela l’inviolabilità del diritto individuale alla salute in termini di garanzia del “diritto alla vita” (art. 2) e del “diritto all’integrità fisica e psichica” (art. 3, comma 1), ulteriormente specificato “nell’ambito della medicina e della biologia, dove devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone, c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, d) il divieto di clonazione riproduttiva degli essere umani” (art. 3, comma 2)[9].

 

 

 

1.2          Il diritto alla tutela della salute nella Costituzione

 

Nello Stato italiano il fondamento del diritto alla tutela della salute è, in primo luogo, rinvenibile nella Carta Costituzionale, entrata in vigore il 1 gennaio 1948. L’art. 32 Cost. prevede infatti: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La Costituzione italiana, anche in considerazione del momento storico in cui fu elaborata, rappresenta l’esempio più concreto e dettagliato di disciplina del principio di tutela della salute dell’individuo, in quanto con il disposto dell’art. 32 la salute cessa di essere di esclusiva pertinenza privatistica ed assume una rilevanza pubblicistica[10]. In epoca precedente all’emanazione della Costituzione repubblicana, la salute era considerata come una condizione strettamente personale, affidata all’autonomia privata di ciascuno, a cui spettava, appunto, averne cura. Lo Stato se ne occupava unicamente in vista del raggiungimento di finalità di interesse collettivo, per evitare la diffusione di malattie epidemiche e contagiose, o che comunque presentassero una particolare pericolosità. L’intervento pubblico, dunque, non aveva carattere generalizzato, ma era limitato alla prevenzione e alla cura di malattie infettive, con forme di assistenza gratuita, previste per gli indigenti e per certe categorie di soggetti minorati (ciechi, sordomuti, etc.)[11].

Il riconoscimento del diritto alla salute come diritto fondamentale di ciascun individuo ha portato ad una profonda trasformazione dell’intera materia dell’assistenza sanitaria, che, in passato, era garantita soprattutto da istituzioni di beneficenza, in gran parte gestite da associazioni religiose. In questo senso, la Costituzione segna il passaggio dalla concezione ‘caritatevole’, alla concezione di salute come diritto, e quindi come pretesa dell’individuo all’assistenza sanitaria.

La struttura dell’art. 32 induce a ritenere che in essa possono dirsi racchiusi una molteplicità di significati e contenuti: il diritto all’integrità psicofisica, a vivere in un ambiente salubre, alle prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti, perfino a non ricevere trattamenti sanitari se non quelli di carattere obbligatorio volti a tutelare non solo il destinatario, ma soprattutto la collettività, come avviene nel caso delle vaccinazioni o degli interventi effettuati per la salute mentale.

In una prima fondamentale accezione, la norma contenuta nell’art. 32 Cost. è volta a tutelare, in via immediata, il diritto all’integrità psico-fisica di ogni individuo[12]. Si tratta di un diritto inviolabile ed assoluto, che comprende un bene primario oggetto di un diritto fondamentale della persona, processualmente tutelabile ed azionabile sia nell’ambito dei rapporti con i poteri pubblici che nei confronti dei privati[13].

Il diritto individuale alla salute, in questo senso, si presenta dunque come diritto direttamente non degradabile ed assoluto, tutelato dalla Costituzione in modo pieno ed incondizionato nei confronti di tutti.

Così come costituzionalmente disciplinato, diritto alla salute significa anche diritto ad essere curati, qualora tale bene primario venga compromesso. Accanto al diritto all’integrità fisica e psichica, che si configura come diritto della personalità, e che ha un contenuto negativo, in quanto rivolto ad evitare lesioni che possono essere arrecate dai terzi, si configura il diritto ad ottenere prestazioni sanitarie, sia preventive che curative.

Il riconoscimento del diritto alle prestazioni sanitarie impone, di conseguenza, il dovere per tutti i livelli istituzionali della Repubblica di porre in essere le condizioni strutturali attraverso le quali assicurare un’effettiva tutela della salute nei confronti degli individui. Sotto quest’ultimo aspetto, la tutela della salute implica per la Pubblica Amministrazione l’obbligo di acquisire le risorse, predisporre i mezzi, reclutare il personale, costruire strutture logistiche, e rendere effettivo il servizio di assistenza e prevenzione sanitaria, intervenendo anche nella sua regolazione e programmazione.

Come diritto sociale, ossia come pretesa positiva nei confronti del potere pubblico ad ottenere prestazioni sanitarie, il diritto fondamentale e l’interesse della collettività alla tutela della salute prefigura dunque un servizio pubblico obbligatorio, in grado di garantire l’erogazione verso tutta la collettività di un nucleo minimo ed essenziale di prestazioni imprescindibili per l’effettiva tutela del bene salute[14].

La vera svolta in questa direzione coincide con un importante intervento legislativo, la legge 23 dicembre 1978, n. 833, con cui viene sancito che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale”[15]. Tale disposto normativo, oltre a ribadire l’importanza primaria del diritto alla salute, riprendendo quasi letteralmente la portata dell’art. 32 Cost., attribuisce al Servizio sanitario nazionale (SSN) un ruolo di vero e proprio servizio pubblico, potenzialmente gratuito, attraverso cui lo Stato assicura l’assistenza sanitaria a tutti i consociati, in maniera omogenea ed uniforme, a prescindere dalle condizioni economiche e sociali  di chi ne usufruisce[16].

Il potere interventistico dello Stato in materia di tutela della salute incontra, però, dei limiti proprio nello stesso dettato costituzionale. Se da un lato, infatti può essere ipotizzato un diritto-dovere al trattamento sanitario, dall’altro viene espressamente statuito che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; in tal caso, comunque, deve essere assicurato il rispetto della persona umana (art. 32 Cost., 2°comma). Questa riserva di legge è chiaramente diretta alla tutela dell’uomo e della sua dignità e si pone a salvaguardia del diritto di scelta di potersi curare o meno, nonché di quale cura preferire[17].

La salute individuale è, prima di tutto, un fatto personale e come tale è rimessa alla volontà del singolo interessato; è la persona interessata che richiede la prestazione sanitaria, e solo ad essa spetta la decisione di farsi curare, e di come farsi curare, e da chi[18]. In ciò trova espressione la libertà di autodeterminarsi, in ordine ad atti che coinvolgono il proprio corpo, garantita anch’essa a livello costituzionale, in base al più generale principio della libertà personale. Nel diritto di ciascuna persona di disporre della propria salute e dell’integrità personale è, dunque, compreso, prima di tutto, il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso, anche fino alle estreme conseguenze.

A tal proposito, risulta strettamente connesso il problema del c.d. consenso informato[19], quale manifestazione di volontà volta ad evitare un trattamento sanitario inconsapevolmente subito. È ormai radicata, infatti, la convinzione che il trattamento sanitario sia legittimo se ed in quanto il paziente abbia consentito al trattamento medesimo[20]. Nella struttura standard del consenso informato il sanitario spiega al paziente la sua condizione clinica, le varie possibilità di diagnosi o di terapia e i possibili benefici e rischi del trattamento per consentirgli di valutare l’informazione ricevuta nel contesto della propria attitudine psicologica e morale e, quindi, di scegliere l’iter terapeutico che ritiene adatto ed accettabile. Il fine della richiesta del consenso informato è, dunque, quello di promuovere l’autonomia dell’individuo nell’ambito delle decisioni sanitarie[21].

Il consenso informato “rappresenta, dunque, il presupposto di fatto affinché possa estrinsecarsi la libertà di autodeterminazione terapeutica del paziente, che trova fondamento (seppur indiretto) a livello costituzionale. Tale libertà ha un contenuto che va oltre il significato minimo, rappresentato dal diritto del paziente di rifiutare il trattamento terapeutico (principio di incoercibilità del trattamento medico). Essa implica il diritto (ben più pregnante) di decidere consapevolmente, entro dati limiti, la terapia cui sottoporsi, senza subire in modo acritico l’iniziativa del sanitario: il quale anzi è gravato dal corrispondente dovere di informazione, funzionale a che il malato possa validamente autodeterminarsi”[22].

Al principio sull’autodeterminazione riguardo alla salute individuale è possibile derogare, innanzitutto, per ragioni di necessità, quando la persona è in pericolo e si trovi nell’impossibilità di decidere circa le cure che gli sono necessarie, perché in stato di incoscienza o di incapacità psichica. Chi si trova in stato di infermità mentale, oppure chi si trova in stato di incoscienza per un malore, o perché ha subito un incidente stradale, non può provvedere a sé stesso, allora a prendere le decisioni occorrenti dovranno essere i suoi familiari, se è possibile interpellarli, altrimenti, il medico che presta i necessari soccorsi. Si tratta di situazioni di emergenza, in cui sussiste un effettivo pericolo di vita per il paziente.

Diverso è quando, anche se la persona sia in grado di provvedere a se stessa, vi sia un interesse alla garanzia della salute che riguarda tutta la collettività. Allora il trattamento sanitario può essere imposto (trattamento sanitario obbligatorio o TSO). Questa imposizione è giustificata in quanto il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute del destinatario, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri consociati, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione che inerisce al diritto di ciascuno alla salute[23].

Il trattamento sanitario obbligatorio, inoltre, non deve incidere negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, e deve avvenire nel rispetto della persona umana. Nell’ipotesi in cui il soggetto sottoposto al trattamento abbia ricevuto un danno è prevista, comunque, la corresponsione di un’equa indennità[24].

I trattamenti sanitari obbligatori sono ammessi solo se necessari per la tutela della salute della collettività e, perciò, possono essere disposti solo dalle leggi dello Stato. Tali trattamenti si riferiscono ad ogni intervento diagnostico o terapeutico di prevenzione o cura, tra i quali vanno compresi tanto le prescrizioni di vaccinazioni obbligatorie per prevenire malattie infettive e diffusive, quanto i provvedimenti di cura e di isolamento nei confronti di soggetti affetti da malattie contagiose.

Trattamenti sanitari obbligatori, inoltre, possono essere disposti in ambito psichiatrico per consentire l’effettuazione di determinati accertamenti e terapie nei confronti di soggetti affetti da malattie mentali che, in presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, rifiutino le cure.

In particolare, il TSO nei confronti dei malati di mente, che prevede il ricovero coattivo in una struttura psichiatrica ospedaliera, rappresenta, oggi, una condizione di eccezionalità. In passato, prima della riforma psichiatrica, avvenuta con la legge 13 maggio 1978, n. 180 (c.d. ‘riforma Basaglia’), “il malato di mente era visto come un soggetto da curare, ma anche, al tempo stesso, come un soggetto socialmente pericoloso (quantomeno in presenza di certe patologie): di qui la duplice funzione della struttura del manicomio, per certi versi ospedale e per altri carcere. Il pazzo doveva infatti essere curato (funzione terapeutica), ma anche ristretto (funzione custodiale), proprio per arginare la ritenuta pericolosità”[25].

Radicale è stato il mutamento segnato dall’entrata in vigore della legge 180/1978. Essa ha segnato, innanzitutto, il superamento della concezione del malato di mente come soggetto pericoloso che occorre tenere ristretto e ha esteso anche a costui il dettato dell’art. 32 Cost. relativo alla generale volontarietà del trattamento sanitario (salvo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge). Si è in tal modo deciso di rinunciare, almeno in parte, alla finalità di pura difesa sociale, a favore di un recupero del paziente psichiatrico, che ha il diritto di poter essere curato, come per qualsiasi altra malattia, nell’ambito del contesto sociale di origine o appartenenza[26].

La riforma suddetta ha portato, quindi, alla chiusura di tutti i manicomi e all’istituzione di un sistema sanitario e assistenziale psichiatrico con servizi territoriali e domiciliari, con la possibilità del ricovero in specifici servizi psichiatrici all’interno di strutture ospedaliere pubbliche, ma solo in via del tutto eccezionale e temporanea, e con procedure di assoluta garanzia per l’individuo, sotto il profilo della tutela della dignità e della libertà della persona affetta da malattia mentale[27].

In particolare, quanto ai trattamenti sanitari obbligatori, la legge 833/1978 che ha recepito la legge 180/1978, ha provveduto a dare precise indicazioni circa i criteri e le modalità di esecuzione dei ricoveri forzati[28].

I criteri che fondano il TSO sono, oggi, i seguenti:

–          il sussistere di alterazioni psichiche di gravità tale da rendere necessari interventi terapeutici urgenti;

–          il rifiuto di tali interventi da parte del malato;

–          l’assenza di condizioni e circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere (art. 34, comma 4).

La legge ha poi previsto alcune disposizioni di ordine procedurale. Il TSO è, infatti, disposto con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico. Il medico propone il TSO solo nei casi in cui, visitando il paziente, rilevi il sussistere dei presupposti espressamente previsti dalla legge. La proposta del medico deve essere prima convalidata da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica in merito alla patologia psichiatrica del paziente e alla sussistenza dei presupposti perché si disponga per un TSO (art. 34, comma 4).

Il provvedimento sindacale con il quale si autorizza il TSO deve essere emanato entro 48 ore dalla suddetta convalida e deve, poi, essere notificato, entro 48 dal ricovero, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune. Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, effettuati i necessari accertamenti, provvede, con decreto motivato, a convalidare o non convalidare il TSO, dandone comunicazione al sindaco, il quale, nel caso di mancata convalida, dispone la cessazione del ricovero forzato (art. 35, commi 1 e 2).

La legge ha posto limiti temporali molto ristretti alla misura del TSO (sette giorni), allo scopo di contenere il più possibile la limitazione della libertà personale del malato. Qualora il ricovero in regime di TSO si debba protrarre oltre sette giorni, il responsabile del servizio di psichiatria deve darne comunicazione al sindaco, il quale, a sua volta, riferisce al giudice tutelare, indicando l’ulteriore durata del trattamento (art. 35, comma 5).

Inoltre, sempre al medesimo fine di scongiurare il pericolo che la limitazione della libertà del paziente possa eccedere anche di poco il sussistere delle condizioni che l’hanno resa necessaria, la legge ha previsto la revocabilità del TSO, in qualsiasi momento del suddetto periodo (art. 35, comma 6).

In ogni caso, è previsto che chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre ricorso al tribunale competente contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare (art. 35, comma 8).

In base alla normativa esaminata, in sostanza, risulta evidente che il legislatore si è preoccupato di tutelare, nella massima misura, la persona e la dignità del malato di mente, prevedendo il ricovero ospedaliero soltanto come ultima ratio[29].

 

 

1.3          L’evoluzione normativa in materia sanitaria

 

L’attuale sistema sanitario è il frutto di un lungo percorso legislativo iniziato con la legge del 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale (SSN). A questa legge, meglio nota come ‘Riforma sanitaria’, è riconosciuto il grande merito di aver  introdotto un nuovo e importante modello di gestione della salute, che ha rappresentato la base sulla quale si è poi prodotto l’attuale sistema sanitario. Alla Riforma sanitaria è seguita la c.d. ‘riforma bis’, introdotta dal decreto legislativo 30 dicembre 1995, n. 502, modificato e integrato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, e finalizzata al riordino dell’intera materia sanitaria e alla trasformazione delle unità sanitarie locali in aziende sanitarie. Alla riforma bis è succeduta la c.d. ‘riforma ter’, introdotta dal decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, che ha razionalizzato il Servizio sanitario nazionale, portando alcune importanti modifiche al modello originariamente ipotizzato dal decreto legislativo n. 502/92.

 

 

1.3.1         Dal sistema mutualistico alla legge 23 dicembre 1978, n. 833

 

Il sistema mutualistico aveva caratterizzato l’assistenza sanitaria per tutto il periodo del dopoguerra italiano[30]. Si trattava di una forma di assistenza obbligatoria, diretta alle varie categorie di lavoratori, e gestita da enti pubblici. Questi enti, a fronte del pagamento di contributi, che in parte erano a carico dei datori di lavoro nel caso dei dipendenti, garantivano agli assicurati e ai loro familiari l’assistenza medica domiciliare, pediatrica e specialistica, attraverso professionisti convenzionati e ambulatori a gestione diretta; garantivano, inoltre,  il pagamento diretto e il rimborso delle spese per i ricoveri e l’assistenza farmaceutica tramite rimborso.

Il funzionamento del sistema mutualistico può essere paragonato ad una assicurazione obbligatoria a copertura di rischi e malattie: chi svolgeva un’attività lavorativa pagava necessariamente certi contributi, che gli davano diritto all’assistenza sanitaria.  Quindi chi era privo di un lavoro non ne aveva alcun diritto; e perciò, in mancanza di un’assistenza, o pagava per conto suo, oppure se era povero e non poteva permetterselo, si rivolgeva alle Istituzioni di beneficenza, qualora fosse iscritto nel c.d. elenco dei poveri, in caso di certificata povertà[31].

Ne è conseguito che la problematica della necessità di garantire la salute a tutti e non solo ai lavoratori e la necessità di superare il modello volontaristico-caritatevole di erogazione dell’assistenza sanitaria per inserirlo negli obblighi dell’apparato pubblico, avevano spinto ad una ristrutturazione funzionale ed organizzativa del settore, che, dopo diversi tentativi, sfociava nell’approvazione della ‘riforma Mariotti’ (legge 12 febbraio 1968, n. 132), istitutiva degli enti ospedalieri.

Tale riforma pose fine al residuo carattere volontaristico-caritatevole che caratterizzava l’assistenza ospedaliera giungendo alla configurazione di un vero servizio pubblico rivolto alla collettività. Essa ha così aperto la strada alla dilatazione dell’intervento pubblico, ed alla trasformazione del sistema mutualistico nel Servizio sanitario nazionale, destinato ad erogare le proprie prestazioni a favore, indistintamente, di tutti i cittadini[32].

 

 

1.3.2         La Riforma sanitaria: l’istituzione del Servizio sanitario nazionale

 

Il Servizio sanitario nazionale ha la sua fonte normativa istitutiva nella legge 23 dicembre 1978, n. 833. Tale legge denominata ‘Riforma sanitaria’, giunta all’approvazione dopo un travagliato scontro politico, ha segnato il primo traguardo verso un nuovo modello di sanità, superando in maniera definitiva il precedente sistema mutualistico[33].

Con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale si intese, infatti, abbandonare la disparità di trattamento e la limitatezza degli interventi che avevano contraddistinto il sistema delle mutue, per definire un vero e proprio servizio sanitario pubblico, esteso su tutto il territorio nazionale. Esso si ispira ai principi contenuti nella Costituzione (artt. 3, 32 e 38) che pongono le basi per l’universalità, l’unicità, l’uguaglianza, l’uniformità e la globalità  delle prestazioni indipendentemente dallo status sociale. Una universalità realizzata attraverso la garanzia delle varie prestazioni sanitarie a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno, indipendentemente dal loro status giuridico e sociale. Una unicità fondata sulla previsione normativa di riassumere, in capo ad un unico soggetto istituzionale, il Servizio sanitario nazionale con le sue unità sanitarie locali (UU.SS.LL.), la gestione del servizio salutare. Un’uguaglianza sostanziale, intesa nel senso di attribuire ad ogni individuo il diritto pubblico soggettivo di poter godere dell’azione salutare pubblica, senza distinzione alcuna e limiti di sorta. Una uniformità mirata a rendere omogenei i livelli di qualità dei vari servizi e delle prestazioni su tutto il territorio, attraverso la realizzazione di uno stretto collegamento di tutti gli organismi che esercitano la loro attività nella tutela della salute, sia individuale che collettiva. Una globalità reale delle prestazioni, realizzata attraverso l’erogazione da parte del Servizio sanitario nazionale non solo di attività diagnostiche e curative, ma anche preventive, riabilitative e medico legali.[34]

In linea con il dettato costituzionale appare, infatti, la stessa formulazione dell’art. 1 della Riforma, che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il Servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il Servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’uguaglianza dei cittadini nei confronti del Servizio. L’attuazione del Servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini[35].

L’art. 2 della Riforma, invece, individua in modo puntuale e dettagliato gli obiettivi del Servizio sanitario nazionale, tra cui la formazione di una coscienza sanitaria moderna attraverso una educazione sanitaria adeguata del singolo e della comunità, la prevenzione di malattie e infortuni, la diagnosi e cura degli eventi morbosi, la riabilitazione degli stati di invalidità o di inabilità fisica e psichica, la tutela della salubrità degli ambienti naturali, di vita e di lavoro, l’igiene degli alimenti e delle bevande, il controllo sulla sperimentazione e l’impiego di farmaci, la formazione professionale e l’aggiornamento scientifico e culturale del personale sanitario, la sicurezza sul lavoro, la creazione delle condizioni per una procreazione responsabile e consapevole, la promozione della salute nell’età evolutiva, l’integrazione delle persone con handicap, la tutela sanitaria delle attività sportive, la tutela della salute degli anziani, la tutela della salute mentale, ecc.

In sostanza, per la prima volta in Italia, viene concepito il servizio sanitario come tutela globale della salute, in conformità all’art. 32 Cost., prevedendone non solo i principi e gli obiettivi ma anche disciplinando i livelli di competenza statale e regionale (e in via residuale anche comunale e provinciale) e l’organizzazione funzionale attraverso le unità sanitarie locali.

Le unità sanitarie locali (USL), in particolare, rappresentavano i centri operativi di tutto il sistema; esse furono create a livello territoriale come enti strumentali dei comuni, allo scopo di garantire tutte le prestazioni afferenti la salute (di prevenzione, di cura e di riabilitazione) previste dalla legge. Alle USL fu affidato, infatti, il complesso dei presidi, degli uffici e dei servizi dei comuni destinati ad assolvere compiti in materia sanitaria ivi compresi gli ospedali. Le USL, che nascono prive di personalità giuridica, formavano così un sistema a rete avente il compito di assicurare su tutto il territorio nazionale la gestione unitaria della tutela della salute. Gli organi di gestione dell’unità sanitaria locale erano l’Assemblea generale (di regola composta dal consiglio comunale) e il Comitato di gestione che, eletto dall’assemblea generale, aveva compiti di amministrazione[36].

Tuttavia, il sistema, così come programmato e realizzato dalla Riforma sanitaria del 1978, entrò in crisi. Infatti, in poco più di un decennio, si ebbe modo di sperimentare che le risorse sanitarie risultavano assolutamente insufficienti per garantire l’affermata equità di assistenza sanitaria, nonché la gratuità delle cure e delle garanzie concernenti l’intero universo dei bisogni di salute.

L’impostazione del Servizio sanitario nazionale nella sua concezione del dare ‘tutto a tutti’, aveva strutturato un modello di concreta garanzia della ‘salute della gente’, ma non aveva individuato le effettive possibilità finanziarie e gestionali per attuarla. Il risultato è stato un livello di assistenza sanitaria qualitativamente e quantitativamente insoddisfacente con mancati rendimenti, sprechi ed inefficienze generali. Tali furono le premesse per cui si iniziò, a partire dagli anni ’90, ad intervenire sull’assetto del Servizio sanitario, al fine di razionalizzare tutto il sistema.

 

 

1.3.3         La razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale: dalla riforma bis alla riforma ter

 

L’impianto normativo della prima riforma si era dimostrato di fatto eccessivamente ambizioso, con intenzioni sproporzionate rispetto alle risorse all’uopo destinabili. Il sistema così come progettato non era sostenibile, soprattutto dal punto di vista finanziario e aveva finito per produrre enormi costi di gestione, a discapito della qualità delle prestazioni e dei servizi. All’inefficienza del sistema avevano contribuito anche il debole ruolo di controllo effettuato dai comuni e l’estrema politicizzazione degli organi di gestione.

L’incapacità di attuare i principi contenuti nella prima riforma e la necessità di ridare efficienza al sistema e di contenere la spesa sanitaria portarono alla maturazione dell’idea di dover rifondare l’organizzazione sanitaria secondo canoni ispirati più a criteri di natura privatistica e aziendalistica. Queste furono le premesse della seconda riforma sanitaria, la c.d. ‘riforma bis’, che venne realizzata con l’approvazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, integrato successivamente con il decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517[37].

Gli elementi di maggiore novità introdotti dal decreto legislativo n. 502/92, tenendo conto anche delle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 517/93, furono:

–          l’introduzione di un diverso rapporto istituzionale/collaborativo tra lo Stato, quale garante dell’uniformità ed omogeneità delle prestazioni su tutto il territorio, e le Regioni, alle quali veniva riconosciuta una maggiore autonomia. A tal riguardo, per meglio realizzare una interazione tra le dette  istituzioni, fu creata una Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome come strumento di raccordo e moderazione tra le esigenze da soddisfare ai diversi livelli legislativi e regolamentari;

–          la configurazione di azienda, dotata di personalità giuridica pubblica, in capo all’unità sanitaria locale che, in quanto tale, si vedeva attribuita la reale autonomia operativa (organizzativa, amministrativa, contabile, gestionale e tecnica);

–          l’individuazione del direttore generale e del collegio dei revisori rispettivamente quale organo di gestione e rappresentanza, e quale organo di vigilanza e controllo interno delle aziende-unità sanitarie locali e delle aziende-ospedaliere, con il riconoscimento anche in favore di queste ultime della personalità giuridica pubblica e della necessaria autonomia. Venivano introdotti, inoltre, alcuni organi interni, collaborativi del management: il direttore sanitario, il direttore amministrativo, il consiglio dei sanitari e, se previsto dalla normativa regionale, il coordinatore dei servizi sociali. Quanto al rapporto di lavoro intrattenuto dal direttore generale e dai suoi collaboratori (direttore amministrativo e direttore sanitario) veniva disciplinato richiamando le norme di diritto privato, attribuendo allo stesso una durata quinquennale, seppur rinnovabile;

–          il riordino dell’assetto delle unità sanitarie locali, secondo il modello dipartimentale, e delle aziende ospedaliere, che dovevano improntare la loro attività gestionale ai criteri dell’efficacia, dell’efficienza e della economicità, con il divieto per entrambe di ricorrere a forme di indebitamento, ad esclusione dei casi specifici previsti dalla normativa;

–          l’introduzione di modifiche importanti ai rapporti regolati dalle convenzioni e l’individuazione di nuove forme contrattuali da convenire con i privati erogatori delle prestazioni sanitarie (soprattutto di medicina generale di base, di pediatria di libera scelta, di specialistica ambulatoriale, ecc.)

–          l’individuazione del protocollo di intesa quale strumento idoneo a disciplinare i rapporti tra le aziende sanitarie e le Università, chiamate a contribuire all’elaborazione dei piani sanitari regionali e a svolgere un ruolo importante nella formazione professionale sanitaria;

–          la previsione per il cittadino di poter usufruire, mediante forme integrative di assistenza, di prestazioni aggiuntive rispetto agli standard assicurati dal Servizio sanitario nazionale[38].

Il processo di razionalizzazione del sistema sanitario è stato successivamente completato con il decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (altrimenti conosciuto come decreto Bindi). Infatti, la necessità di superare gli ostacoli che avevano ritardato il completamento del percorso di regionalizzazione del sistema sanitario e, con esso, impedito la realizzazione del processo di aziendalizzazione della Salute, aveva portato ad un nuovo intervento di riforma, la c.d. ‘riforma ter[39].

Gli obiettivi della terza riforma erano essenzialmente:

–          la completa realizzazione del processo di aziendalizzazione;

–          la reintroduzione dei Comuni nelle funzioni di verifica e programmazione dei servizi, nel rispetto delle funzioni ed autonomie regionali;

–          il riequilibrio tra le modalità di competizione tra strutture pubbliche e private;

–          la previsione di nuove norme sul rapporto di lavoro del personale dirigente, per il quale si introduce definitivamente il regime dell’esclusività dell’impiego sorto presso le istituzioni del Servizio sanitario nazionale.

Con questo nuovo intervento legislativo si è tentato di dar vita ad un modello unico nazionale dell’erogazione dei servizi sanitari, attraverso l’autonomia regionale e l’uniformità organizzativa delle Usl e delle prestazioni sanitarie[40].

 

 

1.4         Il ruolo dello Stato, delle Regioni e dei Comuni: funzioni legislative e amministrative in materia sanitaria

 

Con la riforma del titolo V, parte II della Costituzione, attuata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ha modificato l’impianto originario dell’art. 117 Cost., si sono create le fondamenta per una distribuzione di competenze legislative tra Stato e Regioni che ha interessato molti settori dell’ordinamento, incluso quello sanitario. In particolare, sono state attribuite alle Regioni competenze a legiferare in materie un tempo di preminenza statale.

Per quel che qui interessa, ossia la sanità, lo Stato ha conservato una potestà legislativa esclusiva solo in materia di determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117 Cost., 2° comma, lett. m).  Ai sensi di questa disposizione, lo Stato deve garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria[41], dovendo assicurare l’uniformità e la qualità del Servizio sanitario per tutti i cittadini del territorio della Repubblica, nei suoi contenuti minimi, a tutela del diritto alla salute. Si tratta di una disposizione di cosiddetta ‘salvaguardia’ molto importante, in quanto consentire una devoluzione selvaggia in una materia così delicata potrebbe comportare differenziazioni evidenti nel trattamento dei cittadini nelle varie parti del territorio nazionale[42].

Al di fuori di tale portata generale, la tutela della salute è divenuta materia di legislazione concorrente. Con tale espressione si vuole intendere che sia lo Stato sia le Regioni possono intervenire a disciplinare una stessa materia; in particolare, lo Stato stabilisce i principi fondamentali, la Regione emana la normativa di dettaglio.

Quindi, allo stato attuale, la tutela della salute è rimessa all’autodeterminazione  legislativa delle Regioni, le quali la esercitano nell’ambito dei principi fondamentali enunciati attraverso la legislazione statale[43].

I settori di intervento del legislatore regionale più cospicui sono: la regolamentazione delle unità sanitarie locali, sia sul piano organizzativo che funzionale, con riferimento in modo particolare al collegio di direzione e all’organizzazione dei dipartimenti delle USL, la regolamentazione della Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale, secondo modalità che la legge prevede. La legge regionale disciplina altresì il rapporto tra programmazione regionale e programmazione attuativa locale, la costituzione e la conferma in aziende ospedaliere dei presidi ospedalieri in possesso dei requisiti che vengono prescritti dalla legge statale, la regolamentazione del sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie, e quindi in primo luogo della procedura e dei requisiti per ottenere l’autorizzazione e l’accreditamento richiesto per le strutture pubbliche e private che operano nel settore delle prestazioni specialistiche e ospedaliere. Una maggiore discrezionalità, sempre nell’ambito della disciplina di erogazione delle prestazioni sanitarie, ha il potere legislativo regionale di regolamentazione degli accordi contrattuali che vengono stipulati con strutture pubbliche o private o con professionisti accreditati, allo scopo di configurare adeguati modelli di assistenza e di tutelare la libertà di scelta dell’utente[44].

Per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni amministrative nel settore sanitario, allo Stato spettano compiti di direzione, di indirizzo, di coordinamento e di controllo che vengono esercitati dal Ministero della Salute.

Il Ministero della Salute svolge le competenze di spettanza statale nelle seguenti aree:

a)      ordinamento sanitario, con compiti di indirizzo generale e coordinamento in materia di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie umane, prevenzione, diagnosi e cura delle affezioni animali; programmazione sanitaria di rilevanza nazionale, coordinamento ed indirizzo delle attività sanitarie regionali, rapporti con organizzazioni internazionali ed Unione Europea, ricerca scientifica in ambito sanitario;

b)      tutela della salute umana e sanità veterinaria, con compiti di tutela della salute umana, anche in connessione al profilo ambientale, controllo e vigilanza sulle sostanze farmaceutiche e sull’adozione di biotecnologie, adozione di prescrizioni e linee guida di natura igienico-sanitaria anche sotto il profilo alimentare, polizia veterinaria, tutela della salute negli ambienti lavorativi, disciplina delle professioni sanitarie e dello stato giuridico del personale sanitario[45].

Tale Ministero è articolato in quattro dipartimenti: qualità, innovazione, prevenzione e comunicazione, sanità pubblica veterinaria, nutrizione e sicurezza sugli alimenti.

Nell’esercizio delle sue funzioni il Ministero si avvale di un organo consultivo, il Consiglio superiore di sanità, e di un organo tecnico-scientifico, l’Istituto superiore di sanità, il quale ha prevalentemente compiti di ricerca scientifica.

Allo Stato, dunque, spetta garantire il funzionamento del Servizio sanitario globalmente inteso; esso esercita tutte quelle funzioni che si rendano necessarie per assicurarne l’esercizio unitario, all’interno di un sistema che è organizzato fondamentalmente su base regionale.

Alle Regioni sono state conferite tutte le funzioni e i compiti amministrativi in tema di salute, salvo quelle espressamente riservate allo Stato (art. 114, decreto legislativo 7 dicembre 1998, n. 112). Come ha statuito l’art. 2 del decreto legislativo 502/1992, e successive modificazione e integrazioni, “Spettano alle regioni e alle province autonome, nel rispetto dei principi stabiliti dalle leggi nazionali, le funzioni legislative ed amministrative in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera”; “Spettano in particolare alle regioni la determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, le attività di indirizzo tecnico, promozione e supporto nei confronti delle predette unità sanitarie locali ed aziende, anche in relazione al controllo di gestione e alla valutazione della qualità delle prestazioni sanitarie”[46].

Dalle Regioni dipende il complesso di enti pubblici a carattere locale a cui compete l’erogazione delle prestazioni sanitarie in senso stretto, ovvero le USL. Dispone, infatti,  l’art. 3 del  citato decreto legislativo che “Le regioni, attraverso le unità sanitarie locali, assicurano i livelli essenziali di assistenza… avvalendosi anche delle aziende di cui all’art. 4 (ovvero le aziende ospedaliere)”. Le unità sanitarie locali, dunque, costituiscono gli strumenti operativi dei quali le Regioni si avvalgono per erogare concretamente le prestazioni nel settore  della sanità. Le USL da enti strumentali dei Comuni si sono trasformate, con le riforme intervenute negli anni Novanta, in aziende con personalità giuridica di diritto pubblico, gestite a livello imprenditoriale, e in rapporto di stretta dipendenza dalle Regioni[47].

Oltre alle funzioni statali e a quelle regionali sopra richiamate, per definire il quadro di insieme, occorre fare riferimento anche alle funzioni comunali. Queste ultime, per effetto della riforma del 1992, hanno acquisito un carattere solo residuale. Al precedente accentramento nei Comuni di tutte le funzioni sanitarie, secondo la precedente configurazione delle USL, quale era stata definita dalla legge 833/1978, si è sostituito il conferimento di funzioni specifiche. Si tratta di funzioni propositive o consultive, che riguardano in modo particolare la programmazione regionale, il controllo delle USL e delle Aziende ospedaliere, e la valutazione dei direttori generali.

 

 

 

 

 

1.5         Le prestazioni sanitarie: i livelli essenziali di assistenza

 

Le funzioni amministrative proprie del Servizio sanitario nazionale hanno come scopo quello di mettere a disposizione del cittadino ‘l’offerta salutare’; essa si traduce fondamentalmente in un complesso di prestazioni che vengono erogate ai singoli pazienti.

Per garantire l’offerta salutare il Servizio sanitario deve assicurare i livelli essenziali di assistenza[48]. I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) sono definiti dall’art. 1, comma 5° del decreto legislativo 502/1992 come “l’insieme delle prestazioni che vengono garantite dal Servizio sanitario nazionale, a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa, perché presentano, per specifiche condizioni cliniche, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, individuale o collettiva, a fronte delle risorse impiegate”.

In linea di principio i livelli essenziali, anche svincolati dalla materia strettamente sanitaria e collegati al godimento dei diritti civili e politici in genere, rappresentano quelle prestazioni che devono essere garantite quale contenuto necessario dei diritti riconosciuti dalla Costituzione; in contrapposizione a quelle prestazioni che, pur afferendo agli stessi diritti, devono essere considerate accessorie[49].

I LEA rappresentano quindi le prestazioni e i servizi essenziali, in quanto necessari per rispondere ai bisogni fondamentali di promozione, mantenimento e recupero della salute, che il sistema pubblico deve garantire a tutti i cittadini in maniera uniforme, grazie alle risorse raccolte attraverso il sistema fiscale[50].

Un disciplina organica dei livelli essenziali di assistenza è contenuta nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001. Tale decreto individua voce per voce, le prestazioni incluse e quelle escluse dall’assistenza sanitaria che devono essere garantite indistintamente a tutti i cittadini. Le attività e i servizi che il Servizio sanitario è tenuto a realizzare sono distinte in tre macro aree:

1)       assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro;

2)      assistenza distrettuale;

3)       assistenza ospedaliera[51].

Con l’assistenza sanitaria in ambiente di vita e di lavoro viene svolta un’attività definita di prevenzione e igiene pubblica. Lo scopo perseguito è, infatti, quello di promuovere la salute della popolazione nel suo complesso, tramite il controllo dei fattori fisici, chimici, biologici dell’ambiente di vita e di lavoro che esercitano (o potrebbero esercitare) un effetto sulla salute o sul benessere del singolo o della comunità stessa.

L’attività di prevenzione, sia che essa abbia come destinatari la collettività, o singoli cittadini, si realizza tramite la profilassi delle malattie infettive e parassitarie, con il controllo dei fattori di rischio presenti nel territorio; nonché con il controllo dei fattori di rischio collettivi ed individuali presenti nell’ambiente di vita e di lavoro, anche considerando gli effetti sanitari degli inquinamenti ambientali; si realizza quindi con la sanità pubblica veterinaria, con la tutela igienica degli alimenti e tramite la sorveglianza e prevenzione nutrizionale.

Accanto all’assistenza sanitaria in ambiente di vita e di lavoro, fra le prestazioni erogate dal SSN, si colloca l’assistenza distrettuale. Il distretto si identifica con la struttura organizzativa in grado di assicurare l’assistenza primaria alla popolazione di riferimento attraverso le strutture e i servizi presenti sul territorio (assistenza sanitaria di base e assistenza socio-sanitaria).

In base alla classificazione contenuta nei LEA, nell’area in esame, vengono ricompresi alcuni dei più delicati interventi del servizio pubblico; trattasi della:

a)      assistenza sanitaria di base articolata nelle sue forme tradizionali quali l’assistenza di medicina generale erogata dai medici di medicina generale o medici di fiducia dell’utente, l’assistenza pediatrica di libera scelta e la guardia medica;

b)      assistenza specialistica diretta ad accertare e trattare in sede domiciliare, ambulatoriale e semiresidenziale le condizioni morbose e l’inabilità, mediante interventi specialistici di tipo diagnostico, terapeutico e riabilitativo in favore dell’utenza;

c)      assistenza farmaceutica, consistente nell’erogazione di farmaci contemplati dal Prontuario terapeutico nazionale attraverso farmacie pubbliche e private convenzionate con il SSN;

d)     attività di emergenza sanitaria territoriale;

e)      assistenza integrativa;

f)       assistenza protesica;

g)      assistenza ambulatoriale e territoriale;

h)      assistenza territoriale residenziale e semi-residenziale.

La terza ed ultima macroarea di assistenza erogata dal Servizio sanitario è rappresentata dall’assistenza ospedaliera. Con essa viene garantito a tutti i cittadini utenti del SSN, l’accesso ai ricoveri ospedalieri per trattare condizioni patologiche che necessitino di interventi diagnostico-terapeutici di emergenza oppure ordinari, nonché condizioni patologiche di lunga durata, che richiedano un trattamento non erogabile in forma extraospedaliera. A tali interventi si accede mediante prescrizione del medico curante o dello specialista, oppure attraverso il sistema del pronto soccorso.

L’attività di assistenza ospedaliera si realizza mediante un complesso di particolari forme di prestazioni sanitarie: le visite mediche, l’assistenza infermieristica, il ricovero in ospedale ed ogni altro atto e processo diagnostico, terapeutico e riabilitativo necessario per risolvere i problemi di salute del paziente degente.

Le prestazioni ospedaliere si concretizzano sostanzialmente in prestazioni assistenziali che vengono erogate:

–          in regime di ricovero ospedaliero d’urgenza ed emergenza;

–          in forma di ricovero ospedaliero ordinario;

–          in forma di ricovero ospedaliero programmato;

–          in forma di ricovero ospedaliero a ciclo diurno (day hospital);

–          in trattamento sanitario obbligatorio.

I soggetti che erogano assistenza ospedaliera possono essere suddivisi, in relazione alla loro natura giuridica, in soggetti pubblici, quali aziende ospedaliere, presidi ospedalieri gestiti dalle ASL, aziende ospedaliere universitarie, Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e ospedali militari; e soggetti privati, quali case di cura, ospedali religiosi e Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico privati[52].

 

 

1.6          I modelli gestionali per l’erogazione delle prestazioni sanitarie

 

Per la concreta erogazione delle prestazioni sanitarie da parte del Servizio sanitario nazionale esistono diversi modelli di gestione, essendo il servizio predetto fondato esplicitamente sul pluralismo organizzativo e funzionale, volto a ricomprendere nella propria realtà istituzionale non solo le unità sanitarie locali, ma anche altri soggetti pubblici e privati, cui vengono imputati compiti di servizio pubblico[53].

Esiste, infatti, la possibilità, per l’amministrazione pubblica, di decidere in quale modo espletare i propri compiti e servizi, scegliendo tra la gestione diretta e la gestione indiretta mediante l’affidamento del servizio ad altri soggetti nelle diverse forme previste dalla legge[54].

Oltre alla gestione diretta, dunque, vi sono le seguenti gestioni indirette:

–          il modulo convenzionale;

–          il modulo dell’accreditamento delle strutture sanitarie;

–          il modulo delle sperimentazioni gestionali;

–          il modulo dell’assistenza indiretta[55].

 

 

1.6.1         Gestione diretta

 

L’erogazione diretta si ha quando il Servizio sanitario opera attraverso il proprio personale e l’organizzazione dei propri presidi pubblici, sostanzialmente identificati nelle aziende unità sanitarie locali, nelle aziende ospedaliere, nelle aziende ospedaliere universitarie e negli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici[56].

 

 

1.6.2        Gestione indiretta: il modulo convenzionale

 

La natura pubblicistica del Servizio sanitario nazionale non esclude che possano essere utilizzate, al suo interno, strutture private.

Una prima forma di integrazione tra pubblico e privato può essere rivenuta nella legge 833/1978 all’art. 44, che espressamente prevede il sistema della convenzione.

Il modulo convenzionale è quel modulo attraverso il quale soggetti privati, estranei al Servizio sanitario, sono chiamati ad erogare prestazioni a favore degli utenti per conto del servizio stesso, sulla base di criteri e condizioni stabiliti in una convenzione stipulata tra le unità sanitarie locali ed i soggetti privati[57].

Con tale sistema, a seguito di una valutazione discrezionale del fabbisogno effettivo del servizio sanitario e accertata l’insufficienza delle strutture pubbliche, la pubblica amministrazione può provvedere all’integrazione del servizio pubblico mediante l’inserimento di soggetti privati convenzionati, ai quali viene corrisposta una somma in denaro per ogni prestazione.

Attualmente, a seguito delle riforme degli anni Novanta (decreto legislativo n. 502/1992 e decreto legislativo n. 229/1999), il sistema della convenzione è stato mantenuto solo per l’assistenza farmaceutica e per i medici di base, nonché per i pediatri di libera scelta. Per quel che riguarda le strutture private che erogano assistenza sanitaria, il sistema della convenzione è stato sostituito da quello dell’accreditamento istituzionale. Lo scopo di tale innovazione è stato quello di porre sullo stesso piano le strutture pubbliche e le strutture private operanti nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, al fine di garantire la libera concorrenza e, di conseguenza, la libera scelta dell’utente tra le une e le altre[58].

 

 

1.6.3        Gestione indiretta: l’accreditamento

 

L’accreditamento è un istituto attraverso il quale viene riconosciuta alle strutture sia pubbliche che private, in possesso di determinati requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi, l’idoneità a poter erogare le prestazioni sanitarie per conto e a carico del Servizio sanitario nazionale.

Occorre precisare che il rilascio dell’accreditamento istituzionale presuppone un’apposita autorizzazione. La realizzazione di strutture e l’esercizio di attività sanitarie sono, innanzitutto, subordinate ad autorizzazione (art. 8-ter del decreto legislativo n. 502/1992, e successive modificazioni e integrazioni). La domanda di autorizzazione va inoltrata al Comune territorialmente competente, ovvero quello nel quale si intende svolgere l’attività sanitaria oggetto della richiesta. Ai fini del rilascio dell’autorizzazione, in primo luogo, deve essere accertata l’esistenza, in capo al richiedente, dei requisiti minimi, strutturali, tecnologici e organizzativi stabiliti a livello nazionale. In secondo luogo, deve essere verificata la compatibilità della struttura con il fabbisogno complessivo e la localizzazione territoriale delle strutture sanitarie presenti nel territorio, quale effettuata dalla Regione[59].

L’autorizzazione ha lo scopo, dunque, di consentire l’esercizio delle attività sanitarie: nessun soggetto, che intenda svolgere tali attività, ne può prescindere.

Le strutture autorizzate, pubbliche e private, e i professionisti, qualora intendano erogare prestazioni per conto del Servizio sanitario nazionale e riceverne, nell’ambito di prestabilite tariffe, il corrispettivo, dovranno fare richiesta ed ottenere, da parte della Regione, l’accreditamento e, successivamente, stipulare un accordo contrattuale.

L’accreditamento è, quindi, un provvedimento attraverso il quale viene riconosciuta alle strutture autorizzate l’idoneità a poter erogare le prestazioni sanitarie per conto e a carico del Servizio sanitario nazionale[60]. Dispone al riguardo l’art 8-quater del decreto legislativo n. 502/1992, e successive modificazioni e integrazioni: “L’accreditamento istituzionale è rilasciato dalla Regione alle strutture autorizzate, pubbliche e private, ed ai professionisti che ne facciano richiesta, subordinatamente alla loro rispondenza ai requisiti ulteriori di qualificazione, alla loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione regionale e alla verifica positiva dell’attività svolta e dei risultati raggiunti”. La Regione dovrà verificare, prima di tutto, che la struttura risponda ai requisiti di qualificazione ulteriori previsti dalla normativa regionale, ovvero ai requisiti ulteriori rispetto a quelli prescritti per l’autorizzazione; e risponda al fabbisogno e alla funzionalità rispetto alle scelte della programmazione sanitaria regionale. La Regione dovrà, poi, valutare, con esito positivo, le attività e i risultati raggiunti dalla struttura.

Dopo aver ottenuto l’accreditamento, e quindi la qualifica potenziale di gestore del servizio pubblico, il soggetto accreditato, perché possa concretamente erogare le prestazioni, deve stipulare appositi accordi contrattuali con le Regioni e le unità sanitarie locali[61].

 

 

1.6.4         Gestione indiretta: le sperimentazioni gestionali

 

Oltre che attraverso istituzioni appositamente accreditate, gli interventi sanitari non effettuati direttamente dagli organi pubblici possono avvenire anche nella forma delle sperimentazioni gestionali[62].

Le sperimentazioni gestionali sono forme alternative e differenziate di erogazione dei servizi, poste in essere da soggetti costituiti ad hoc, nelle quali si realizza una compartecipazione pubblico-privato. La sperimentazione si presenta quale nuovo modello gestionale della sanità pubblica, basato sulla collaborazione tra Servizio sanitario nazionale e soggetti privati, che può tradursi nella costituzione di società miste a capitale pubblico e privato, o in altre forme giuridiche, come consorzi o associazioni volontarie di mutua assistenza[63]. A tal proposito è disposto dall’art. 9 bis del decreto legislativo n. 502/1992 e successive modificazioni e integrazioni: “La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, autorizza i programmi di sperimentazione aventi ad oggetto nuovi modelli gestionali che prevedano forme di collaborazione tra strutture del Servizio sanitario nazionale e soggetti privati,…”; “Il programma di sperimentazione è proposto dalla regione interessata motivando le ragioni di convenienza economica del progetto gestionale, di miglioramento della qualità dell’assistenza e di coerenza con le previsioni del piano sanitario regionale,…”; “La Conferenza permanente (…) verifica annualmente i risultati conseguiti sia sul piano economico sia su quello della qualità dei servizi,…”[64].

 

 

1.6.5         Gestione indiretta: l’assistenza indiretta

 

L’assistenza indiretta è quella che si effettua presso strutture private non convenzionate né accreditate, ovvero al di fuori del Servizio sanitario nazionale, e di cui poi è possibile chiedere il rimborso. Tale assistenza è ammessa solo in casi eccezionali, e cioè quando le strutture del Servizio sanitario non siano in grado di erogare tempestivamente la prestazione richiesta, oppure nel caso di cure all’estero che si rendano necessarie per interventi di altissima specializzazione non ottenibili in maniera adeguata in Italia. In questi casi l’utente, che ha ottenuto le prestazioni occorrenti in forma indiretta, ha diritto ad un rimborso, almeno parziale, delle spese sostenute[65].

1.7         Le aziende sanitarie

 

Nell’ambito degli enti pubblici erogatori delle prestazioni sanitarie, alle unità sanitarie locali spetta una posizione preminente e centrale. A seguito delle riforme degli anni Novanta, il sistema organizzativo e gestionale di tali enti è profondamente mutato. Con il riordino della materia sanitaria, le unità sanitarie locali sono state trasformate in aziende e, da enti strumentali dei Comuni, sono passate alle dipendenze delle Regioni, in quanto titolari del Servizio sanitario[66].

Il processo di aziendalizzazione, come si evince dal complesso normativo che ha segnato il percorso della riforma sanitaria, è iniziato con l’adozione del decreto legislativo n. 502/1992, subito restaurato con il successivo decreto legislativo n. 517/1993, e si è concluso con l’approvazione del decreto legislativo n. 229/1999, relativamente alla riconosciuta caratterizzazione imprenditoriale dell’unità sanitaria locale. Vengono, così, definiti la configurazione giuridica dell’azienda, sia unità sanitaria locale che ospedaliera, e il più attuale assetto organizzativo del Servizio sanitario nazionale[67].

Il decreto legislativo n. 502/1992, così come modificato dal decreto legislativo n. 517/1993, definì l’unità sanitaria locale come azienda di diritto pubblico, conferendo alla stessa il riconoscimento della personalità giuridica pubblica e, quindi, l’autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica. Autonomia organizzativa consistente nel potere di scegliere, a proprio piacimento, la struttura organizzativa dell’apparato burocratico; così come quello di individuare i meccanismi e i livelli di decentramento dei poteri di gestione, tecnica e amministrativa. Autonomia amministrativa consistente nella facoltà di adottare, autonomamente, ogni provvedimento amministrativo utile al perseguimento del proprio scopo istituzionale. Autonomia patrimoniale identificabile nella capacità giuridica di poter disporre del patrimonio aziendale mediante atti di acquisizione, amministrazione e cessione. Autonomia contabile rinvenibile nella libertà di organizzare la propria contabilità, purché improntata a corretti criteri economico-finanziari. Autonomia gestionale consistente nel potere di individuare i propri obiettivi, di programmare le attività aziendali, di allocare le risorse umane in relazione alle attività programmate, di controllare la gestione e verificarne i risultati, di organizzare il lavoro e di procedere al conferimento degli incarichi e all’attribuzione delle relative responsabilità. Autonomia tecnica, infine, intesa come capacità giuridica di poter liberamente determinare il profilo tecnico dell’attività da svolgere, individuando le procedure e le modalità di impiego delle risorse disponibili[68].

Successivamente, il decreto legislativo n. 229/1999 completò il processo di aziendalizzazione, riconoscendo all’azienda unità sanitaria locale l’autonomia imprenditoriale, che riassumeva le diverse tipologie di autonomia elencate dalla vecchia lettera normativa. Statuisce al riguardo l’art. 3 del decreto legislativo n. 502/1992, così come modificato dal suddetto decreto legislativo n. 229/1999, che: “In funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le unità sanitarie locali si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; la loro organizzazione e funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei principi e criteri previsti da disposizioni regionali. L’atto aziendale individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnico professionale soggette a rendicontazione analitica”; “Le aziende (…) informano la propria attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità e sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio, attraverso l’equilibrio di costi e ricavi, compresi i trasferimenti di risorse finanziarie. Agiscono mediante atti di diritto privato (…)”[69].

Con l’attribuzione dell’autonomia imprenditoriale il legislatore ha inteso estendere alle aziende sanitarie la disciplina civilistica, secondo la quale l’interesse aziendale viene perseguito con gli strumenti e l’organizzazione, rispettivamente offerti e individuati liberamente dall’imprenditore (rectius: dal direttore generale), organizzazione che lo stesso avrà cura di disciplinare con l’adozione dell’atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei criteri fissati dalla Regione. Di conseguenza, l’azienda sanitaria, pur godendo della personalità giuridica pubblica, che la vede costretta ad esercitare un ruolo strumentale ed organico, subordinato rispetto alla Regione, nell’assicurare all’utenza i livelli essenziali di assistenza, è da ritenersi assimilata ad un’impresa privata nel realizzare il proprio scopo istituzionale/aziendale[70].

Il processo di aziendalizzazione delle unità sanitarie locali ha riguardato, dunque, non solo la progressiva autonomia del soggetto erogatore dei servizi sanitari rispetto all’ente territoriale di riferimento, ma ha comportato anche l’introduzione di strumenti privatistici nella gestione aziendale. Ne consegue che le unità sanitarie locali, costituite in aziende, pur avendo la natura di enti strumentali delle Regioni, nel perseguire i propri fini agiscono  in concreto utilizzando gli strumenti di un imprenditore privato[71].

L’aziendalizzazione ha interessato anche gli altri soggetti erogatori di prestazioni sanitarie. Infatti, in virtù dell’art. 4 del decreto legislativo n. 502 del 1992 e successive modificazioni e integrazioni, per  specifiche esigenze assistenziali, di ricerca scientifica, nonché di  didattica del servizio sanitario nazionale, possono essere costituiti o confermati in aziende, secondo il modello fissato per le aziende sanitarie locali, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici, le aziende ospedaliere universitarie, le aziende ospedaliere di rilievo nazionale o interregionale.

Le aziende ospedaliere sono costituite dagli ospedali scorporati dall’azienda sanitaria locale e costituiti in aziende autonome, dotate di personalità giuridica e autonomia imprenditoriale. La natura di azienda ospedaliera può essere riconosciuta solo ai presidi ospedalieri che siano in possesso di particolari e significativi requisiti tecnico-scientifici e organizzativi, tra cui, per esempio, il rilievo nazionale e interregionale, l’organizzazione dipartimentale, il sistema di contabilità, la presenza di unità operative di alta specialità[72].

 

 

1.8          Articolazione organizzativa delle aziende sanitarie

 

L’organizzazione delle aziende sanitarie locali si articola su tre livelli: il distretto sanitario, il sistema dipartimentale, la rete dei presidi ospedalieri[73].

 

 

1.8.1         Il distretto

 

Il distretto è configurato quale articolazione territoriale dell’azienda sanitaria locale, a cui vengono rinviate alcune delle più importanti funzioni assistenziali, necessarie a soddisfare i bisogni primari e, dunque, a garantire all’utenza i livelli essenziali di assistenza[74].

Il distretto sanitario trova la sua attuale disciplina nel decreto legislativo n. 502/1992 e successive modificazioni e integrazioni, in particolare agli artt. 3 quater, quinquies e sexies, nei quali vengono previste: le procedure e le modalità utili per la sua individuazione fisica, da parte del Direttore generale; l’attività e le funzioni assistenziali caratteristiche; le risorse complessivamente disponibili e le norme relative alla sua direzione. Quanto alla identificazione del suo ambito territoriale, esso è generalmente individuato tramite un criterio demografico: ciascun distretto serve una popolazione  minima di 60.000 abitanti, salvo una diversa previsione normativa da parte delle singole Regioni, sulla base delle caratteristiche geomorfologiche del territorio o della bassa densità di popolazione residente. Competente all’individuazione del distretto è il Direttore generale che vi provvede con l’atto aziendale. Il distretto assicura i servizi di assistenza primaria  relativi  alle  attività  sanitarie e sociosanitarie, nonché il coordinamento delle proprie attività con quella dei dipartimenti e dei servizi aziendali, inclusi i presidi ospedalieri, inserendole organicamente nel programma delle attività territoriali. Al distretto sono attribuite risorse definite in  rapporto  agli  obiettivi  di  salute della popolazione di riferimento. Nell’ambito delle risorse assegnate, il  distretto è dotato di autonomia tecnico-gestionale ed economico-finanziaria, con contabilità separata all’interno del bilancio della unità sanitaria locale. Tra i compiti propri del distretto sono inclusi: l’assistenza primaria, per mezzo del coordinamento dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta; le attività specialistiche ambulatoriali; le attività per la prevenzione e la cura delle patologie da HIV, delle tossicodipendenze e delle patologie in fase terminale; le attività consultoriali per la tutela della salute dell’infanzia, della donna e della famiglia. Trovano, infine, collocazione funzionale nel distretto le articolazioni territoriali del dipartimento di salute mentale e del dipartimento di prevenzione, con particolare riguardo ai servizi alla persona[75].

A capo di ogni distretto è posto un direttore, designato dal Direttore generale, che lo seleziona tra quei dirigenti dell’azienda che abbiano maturato significative esperienze nei servizi territoriali, oppure tra i medici convenzionati con almeno dieci anni di esperienza.

 

 

1.8.2         I dipartimenti

 

L’organizzazione dipartimentale rappresenta il modello ordinario di gestione operativa delle attività delle aziende sanitarie (art. 17 bis, comma 1, decreto legislativo n. 502/1992) con la finalità di assicurare la buona gestione amministrativa e finanziaria e dare concreta attuazione alle politiche di governo clinico. Essa è prevista sia per le strutture territoriali che per le strutture ospedaliere[76].

Il dipartimento può essere definito come un’organizzazione integrata di unità operative omogenee, affini o complementari, che perseguono comuni finalità e sono tra loro interdipendenti, pur mantenendo la propria autonomia e responsabilità professionale. In altre parole, il dipartimento è un’aggregazione di strutture organizzative complesse e semplici[77] con una propria autonomia operativa, che condividono obiettivi comuni e richiedono, perciò, un coordinamento univoco, anche allo scopo di un più razionale e integrato utilizzo delle risorse. In tale ambito, il Dipartimento, in particolare, assume compiti di programmazione, orientamento, consulenza e supervisione.

I dipartimenti vengono suddivisi in amministrativi e clinici. In ambito ospedaliero, per esempio, dipartimenti dell’area clinica sono il dipartimento di medicina, il dipartimento di chirurgia, il dipartimento di anestesia e rianimazione, il dipartimento materno-infantile, etc., ognuno dei quali, al suo interno, raggruppa, più strutture complesse e semplici.

In particolare, sono funzioni e obiettivi del dipartimento:

–          l’assistenza sanitaria, garantita attraverso l’individuazione e il coordinamento delle prestazioni che si rendono necessarie;

–          la gestione e l’utilizzo in comune di spazi, attrezzature, tecnologie e personale, anche al fine di razionalizzare i costi;

–          l’erogazione delle prestazioni sanitarie, adottando anche criteri e modalità che favoriscano un rapporto di umanizzazione con il paziente;

–          l’utilizzazione corretta e razionale delle risorse attribuite, umane, finanziarie e tecnologiche, che contribuisca, attraverso un uso condiviso, ad assicurare efficienza ed efficacia;

–          la realizzazione di strategie dirette al perseguimento degli obiettivi aziendali.

Per quanto riguarda le tipologie organizzative, le più frequenti sono:

–          strutturale, caratterizzata dall’omogeneità, sotto il  profilo delle attività o delle risorse umane e tecnologiche impiegate, delle unità organizzative di appartenenza (criterio centrato sulla produzione sanitaria); il termine  strutturale viene inteso come aggregazione funzionale e fisica coinvolgendo unità collocate nella stessa area ospedaliera; ciò favorisce la gestione comune delle risorse umane, degli spazi, delle risorse tecnico-strumentali ed economiche assegnate;

–          funzionale, aggrega unità operative non omogenee, interdisciplinari semplici e/o complesse, appartenenti contemporaneamente anche a dipartimenti diversi al fine di  realizzare obiettivi interdipartimentali e/o programmi di rilevanza strategica (criterio centrato su obiettivi comuni da realizzare);

–          verticale, intesa come organizzazione con gerarchie e responsabilità ben definite rispetto alle unità che le compongono;

–          orizzontale, costituita da unità operative appartenenti a diversi dipartimenti verticali, anche appartenenti ad aziende diverse, con la funzione di coordinare unità  di uno stesso livello gerarchico.

I dipartimenti inoltre possono essere:

–          aziendali, costituiti da unità operative della stessa azienda;

–          interaziendali, derivati dall’aggregazione di unità appartenenti ad aziende sanitarie diverse.

Il dipartimento aziendale può essere:

–          ospedaliero, costituito esclusivamente da unità operative appartenenti all’ospedale;

–          transmurale, costituito da unità intra ed extra ospedaliere facenti parte della stessa azienda;

–          ad attività integrata o mista, costituito da unità ospedaliere ed universitarie.

Il dipartimento interaziendale può essere:

–          gestionale, dove si realizza la gestione integrata di attività assistenziali appartenenti ad aziende sanitarie diverse;

–          tecnico-scientifico, con scarsa integrazione operativa  e gestionale, ma con un ruolo di indirizzo e di governo culturale e tecnico di alcuni settori sanitari[78].

A capo del dipartimento è posto il direttore di dipartimento, nominato dal direttore generale fra i  dirigenti con incarico di direzione delle strutture complesse aggregate nel dipartimento stesso. Rispetto alle funzioni, il direttore del dipartimento ha responsabilità professionali in materia clinico-organizzativa e della prevenzione nonché responsabilità gestionale in ordine alla programmazione e gestione delle risorse assegnate per la realizzazione degli obiettivi attribuiti. A tal fine, egli ha il compito di predisporre, con cadenza annuale, il piano delle attività e delle risorse disponibili, che deve essere negoziato con la direzione generale. La programmazione delle attività dipartimentali, la loro realizzazione e le funzioni di monitoraggio e verifica sono assicurate con la partecipazione attiva degli altri dirigenti e degli operatori assegnati al dipartimento (art. 17 bis, comma 2, decreto legislativo n. 502/1992).

Nell’esercizio delle proprie funzioni, il direttore di dipartimento è coadiuvato dal comitato di dipartimento, un organo collegiale composto dai direttori delle unità operative complesse e da altri rappresentanti del personale secondo le indicazioni regionali[79].

 

 

1.8.2.1        Il dipartimento di prevenzione

 

A livello territoriale, un ruolo di primo piano è riconosciuto ai dipartimenti di prevenzione, ai quali sono assegnate alcune importanti funzioni che hanno ad oggetto la tutela della salute collettiva (art. 7, decreto legislativo n. 502/1992). Più precisamente, vengono attribuiti ai predetti dipartimenti, tenuto conto della determinazione dei livelli essenziali di assistenza, specifiche funzioni in materia di prevenzione collettiva e di sanità pubblica, tra cui: la profilassi delle malattie infettive e parassitarie; la tutela della collettività dai rischi sanitari degli ambienti di vita e dai rischi sanitari e infortunistici degli ambienti di lavoro; la sanità pubblica veterinaria; la tutela igienico-sanitaria degli alimenti; la sorveglianza e la prevenzione nutrizionale; la tutela della salute nelle attività sportive.

Il dipartimento di prevenzione ha autonomia organizzativa e contabile, strutturato per centri di costo e di responsabilità. Ad esso è preposto un direttore, designato dal Direttore generale tra i dirigenti che abbiano una anzianità di funzione di almeno 5 anni.

La competenza ad articolare le aree dipartimentali, tra le quali anche quella del dipartimento di prevenzione, è attribuita dalla legge alle Regioni[80].

 

 

1.8.3         I presidi ospedalieri

 

Un’altra articolazione di carattere generale, interna all’Azienda sanitaria locale è costituita dai presidi ospedalieri. Al riguardo, l’art. 4 del decreto legislativo n. 502/1992 al comma 9 stabilisce che “gli ospedali che non siano costituiti in azienda ospedaliera conservano la natura di presidi dell’unità sanitaria locale”. I presidi ospedalieri sono, in sostanza, gli ospedali che non sono costituiti in aziende ospedaliere e che continuano ad essere gestiti dalle aziende sanitarie locali. Essi continuano, dunque, “ad operare inseriti nel contesto gestionale, tecnico, e amministrativo dell’azienda sanitaria locale di riferimento, all’interno della quale rappresentano il livello di erogazione delle prestazioni sanitarie in regime di ricovero a ciclo continuativo e/o diurno per acuti”[81].

Il presidio ospedaliero, in quanto struttura complessa, è dotato di autonomia direzionale e  di autonomia gestionale, di tipo economico-finanziaria. Esso, infatti, ha una contabilità separata all’interno del bilancio dell’ASL.

Quanto alla struttura direttiva, il presidio ospedaliero, pur essendo direttamente dipendente dalle scelte del Direttore generale dell’azienda sanitaria locale, si avvale di un suo management interno, composto dai responsabili della direzione sanitaria e di quella amministrativa, i quali concorrono al perseguimento degli obiettivi complessivi dell’azienda. Alla direzione sanitaria è preposto un dirigente medico di livello apicale, responsabile delle funzioni igienico-organizzative. Alla direzione amministrativa è preposto un dirigente amministrativo, competente ad esercitare le funzioni necessarie al coordinamento delle attività burocratiche[82].

 

 

1.9         Gli organi di gestione

 

La riforma bis, introdotta con il decreto legislativo n. 502/1992 e successive integrazioni e modificazioni, ha prodotto, come si è avuto modo di sottolineare nel paragrafo precedente, l’aziendalizzazione del sistema sanitario. Tale scelta ha avuto grandi ripercussioni sulla individuazione degli organi istituzionali, attraverso i quali articolare l’organizzazione e regolamentare il funzionamento del Servizio sanitario nazionale e, quindi, il management della Salute[83].

L’amministrazione dell’unità sanitaria locale, prima affidata dalla legge n. 833/1978 a tre organi di chiara derivazione politica comunale (assemblea generale, comitato di gestione e presidente), coerentemente con la definizione stessa di USL, quale struttura operativa dei Comuni, dal 1992 è stata affidata ad un organo monocratico di natura tecnica, il direttore generale, passando così da un modello rappresentativo-collegiale di tipo politico ad un sistema di tipo aziendalistico-imprenditoriale[84].

L’odierna organizzazione delle aziende sanitarie è caratterizzata da una struttura manageriale di tipo gerarchico-piramidale, in cima alla quale è collocato il direttore generale, coadiuvato dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario.

1.9.1         Il direttore generale

 

Il direttore generale è l’organo di vertice a cui è affidata la rappresentanza e la gestione dell’azienda, sia unità sanitaria locale che ospedaliera (art. 3, comma 1 quater, decreto legislativo n. 502/1992)[85].

La nomina del direttore generale è effettuata dalla giunta regionale tra coloro che ne abbiano fatto domanda direttamente alla Regione interessata. Tale nomina, che deve avvenire entro sessanta giorni dalla data di vacanza dell’ufficio, è effettuata mediante l’emanazione di un provvedimento amministrativo, a contenuto discrezionale, che tenga conto, però, dei requisiti professionali e delle esperienze di direzione posseduti dagli aspiranti.

Circa i requisiti che debbono essere posseduti dai candidati sono previsti il possesso del diploma di laurea e l’esperienza almeno quinquennale di direzione tecnica o amministrativa in enti, aziende, strutture pubbliche o private, in posizione dirigenziale con autonomia gestionale e diretta responsabilità delle risorse umane, tecniche o finanziarie, svolta per dieci anni (art. 3 bis, comma 3, decreto legislativo n. 502/1992). Inoltre è previsto che, entro diciotto mesi dalla nomina, i direttori debbano esibire il certificato di frequenza del corso di formazione in materia di sanità pubblica e di organizzazione e gestione sanitaria organizzato e attivato dalle Regioni, che dovrà essere svolto con periodicità almeno biennale.

Per quanto ampia sia la discrezionalità della Regione nella scelta del direttore generale, in forza della natura fiduciaria dell’incarico, la legge ha previsto la necessità che quest’ultimo possieda competenze di natura manageriale comprovate da un dettagliato ed esauriente curriculum professionale[86].

Oltre ai requisiti professionali la legge prevede rigorose cause di ineleggibilità e incompatibilità[87] con la carica di direttore generale, così come il divieto di accesso a tale carica per i cittadini con precedenti penali e carichi pendenti.

Quanto alle funzioni, il citato articolo 3, comma 1 quater prevede che spetti al direttore generale: 1) l’adozione dell’atto aziendale[88]; 2) la responsabilità per la gestione complessiva dell’azienda; 3) la nomina del direttore amministrativo e del direttore sanitario, nonché dei responsabili delle strutture operative dell’azienda.

Al direttore generale sono riservati tutti i poteri di gestione e la rappresentanza dell’azienda sanitaria; ad egli spetta, in particolare, verificare, mediante valutazioni comparative dei costi, dei rendimenti e dei risultati, la corretta ed economica gestione delle risorse attribuite ed introitate nonché l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa (art. 3 comma 6, decreto legislativo n. 502/1992).

Occorre precisare che tali elementi propri dell’imprenditorialità che caratterizzano le funzioni dirigenziali sono strumentali rispetto a finalità di pubblico interesse, e non destinati a fini di lucro, come accade in una struttura veramente privata. In tale ottica, il riconoscimento dell’autonomia imprenditoriale e il carattere monocratico dell’organo dirigenziale hanno lo scopo di garantire l’efficienza e la funzionalità della gestione, e di responsabilizzarla per i risultati conseguiti[89].

Il direttore generale risponde del suo operato esclusivamente nei confronti della Regione che lo ha designato, proprio in ragione del carattere fiduciario che lega il primo al suo riferimento istituzionale. Il rapporto di lavoro che ne discende, pertanto, viene disciplinato da un contratto di diritto privato a tempo determinato, rinnovabile, la cui durata varia da un minimo di tre ad un massimo di cinque anni (art. 3 bis, comma 8, decreto legislativo 502/1992). In tale contratto la Regione definisce gli obiettivi di salute e di funzionamento dei servizi, in coerenza con le relative risorse e con le finalità individuate nel quadro della programmazione regionale (art. 3 bis, comma 5). Spetta, altresì, alla Regione verificare i risultati aziendali conseguiti e il raggiungimento degli obiettivi di cui si è detto da parte del direttore generale (art 3 bis, comma 6). A tale verifica segue la decisione di confermare o meno la nomina del direttore generale esaminato.

Oltre all’ipotesi di rimozione straordinaria o al decorso del termine di durata, il rapporto di lavoro si può interrompere quando ricorrano gravi motivi o la gestione presenti una situazione di grave disavanzo o in caso di violazione di leggi o del principio del buon andamento e imparzialità dell’amministrazione (art. 3 bis, comma 7)[90].

 

 

1.9.2        Il direttore amministrativo e il direttore sanitario

 

Il direttore generale, nell’esercizio delle sue funzioni di gestione complessiva dell’azienda, è coadiuvato dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario[91]. Entrambi sono nominati dal direttore generale e sono legati a lui da un rapporto di natura fiduciaria. A prova di ciò è sufficiente ricordare che la loro sorte dipende da quella del direttore generale e, quindi, dalla sua conferma o meno al vertice dell’azienda: in caso di decadenza di quest’ultimo, il loro incarico, infatti, cessa entro tre mesi dalla nomina del nuovo direttore generale.

Come per il direttore generale, il rapporto di lavoro del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ed è regolato da un contratto di diritto privato, rinnovabile, di durata non inferiore a tre e non superiore a cinque anni.

Il direttore amministrativo e il direttore sanitario sono direttamente responsabili per le funzioni di loro competenza e, in quanto titolari del potere di proposta e di formulazione di pareri, questi ultimi obbligatori quanto alla legittimità amministrativa e alla regolarità tecnico-sanitaria, concorrono alla formazione delle decisioni della direzione generale (art. 3, comma 1 quinquies, decreto legislativo n. 502/1992). Proprio per l’obbligatorietà di tali pareri, il direttore generale che ritenga di adottare un provvedimento in difformità dei suddetti pareri ha l’obbligo di motivare tale decisione[92].

Il direttore amministrativo rappresenta la figura di supporto tecnico-amministrativo del direttore generale. Egli dirige i servizi amministrativi e risponde di tutta l’attività svolta dagli uffici, dell’esito delle procedure, dei programmi e dei progetti di sua competenza, nonché della gestione del personale e di tutte le risorse affidategli. Inoltre, è chiamato ad esprimere il proprio parere obbligatorio nel caso venga adottato un provvedimento che investa le materie di sua competenza.

I requisiti soggettivi che devono essere posseduti dal candidato perché possa essere nominato direttore amministrativo sono: 1) un diploma di laurea (specialistica) in discipline giuridiche o economiche; 2) un’età non superiore ai sessantacinque anni; 3) una comprovata esperienza, almeno quinquennale, di attività di direzione tecnica o amministrativa in enti o strutture pubbliche o private sanitarie (art. 3, comma 7, decreto legislativo n. 502/1992)[93].

Il direttore sanitario è  l’altra figura di più alto livello dirigenziale che collabora con il direttore generale, sovrintendendo al buon funzionamento di tutto l’apparato organizzativo tecnico-sanitario. Egli dirige i servizi sanitari, sia ai fini organizzativi sia sotto i profili igienico-sanitari, svolge attività consultiva riguardo alle materie che rientrano nella sua competenza, esprimendo in tal caso il proprio parere obbligatorio. In particolare, il direttore sanitario presiede il consiglio dei sanitari; svolge compiti diretti al coordinamento generale di tutta l’attività tecnica e sanitaria; costituisce l’elemento professionale di raccordo tra il direttore generale e le direzioni delle strutture operative a contenuto tecnico (dipartimenti, distretti e presidi); sovrintende alle procedure necessarie al perseguimento degli obiettivi definiti nella programmazione sanitaria locale; emana direttive in materia igienico-sanitaria.

I requisiti soggettivi che devono essere posseduti per accedere alla direzione sanitaria sono: 1) il diploma di laurea in medicina; 2) un’età non superiore ai sessantacinque anni; 3) la qualifica dirigenziale e una esperienza almeno quinquennale, maturata in una attività di direzione tecnico-sanitaria in enti o strutture sanitarie, pubbliche o private (art. 3, comma 7, decreto legislativo n. 502/1992)[94].

La legge prevede, sia per il direttore amministrativo che per quello sanitario, le stesse cause di ineleggibilità e di incompatibilità individuate per il direttore generale.

 

 

1.9.3         Il collegio sindacale

 

Il collegio sindacale rappresenta, insieme al direttore generale, l’altro organo istituzionale della direzione delle aziende sanitarie, deputato al controllo sulla gestione contabile e finanziaria delle aziende stesse, attraverso una verifica della loro rispondenza ai principi di legalità ed economicità[95].

Il collegio sindacale dura in carica tre anni ed è composto da cinque membri, scelti fra i soggetti iscritti nel registro dei revisori contabili, di cui due sono designati dalla Regione, uno dal Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, uno dal Ministro della Salute e, infine, l’ultimo dalla conferenza dei sindaci (nelle aziende ospedaliere è invece designato dall’organismo di rappresentanza dei Comuni) (art. 3 ter, comma 3, decreto legislativo n. 502/1992).

Quanto al novero esaustivo delle funzioni, il collegio sindacale:

–          verifica l’amministrazione dell’azienda sotto il profilo economico;

–          vigila sull’osservanza della legge;

–          accerta la regolare tenuta della contabilità e la conformità del bilancio alle risultanze dei libri e delle scritture contabili, ed effettua periodicamente verifiche di cassa;

–          riferisce almeno trimestralmente alla Regione sui risultati del riscontro eseguito, denunciando immediatamente i fatti se vi è fondato sospetto di gravi irregolarità;

–          trasmette, almeno due volte l’anno, una propria relazione sull’andamento dell’attività dell’azienda sanitaria, sia essa territoriale che ospedaliera, rispettivamente alla conferenza dei sindaci o al sindaco del Comune capoluogo della Provincia dove è situata l’azienda ospedaliera (art. 3 ter, comma 1, decreto legislativo n. 502/1992 )[96].

 

 

1.9.4        Il collegio di direzione

 

Con la riforma ter, attuata dal decreto legislativo n. 229/1999, è stata prevista l’istituzione in ogni azienda sanitaria, sia essa territoriale che ospedaliera, del collegio di direzione, quale organo tecnico di supporto e consulenza alla direzione generale. Esso trova la sua disciplina specifica, inerente all’attività e alla composizione, nelle apposite norme regionali, che devono prevedere comunque la partecipazione di tutto il management sanitario; quindi, oltre al direttore sanitario e al direttore amministrativo, fanno parte del suddetto organo i direttori di distretto, di dipartimento e di presidio (art. 17, comma 2, decreto legislativo n. 502/1992).

In particolare, le competenze del collegio di direzione sono individuate nel citato art. 17, il quale al comma 1 prevede che il direttore generale si avvalga del collegio di direzione per il governo delle attività cliniche, la programmazione e valutazione delle attività tecnico-sanitarie e di quelle ad alta integrazione sanitaria. Si avvale, inoltre, di tale organo per l’elaborazione del programma di attività dell’azienda, nonché per l’organizzazione e lo sviluppo dei servizi, anche in attuazione del modello dipartimentale e per l’utilizzazione delle risorse umane.

La normativa prevede, poi, che il collegio di direzione concorra alla formulazione dei programmi di formazione, delle soluzioni organizzative per l’attuazione della attività libero-professionale intramuraria e alla valutazione dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi clinici[97].

 

 

1.9.5        Il consiglio dei sanitari

 

Nelle aziende sanitarie è presente un altro organo collegiale, il consiglio dei sanitari, un organo elettivo con funzioni di consulenza tecnico-sanitaria. Esso è presieduto dal direttore sanitario ed è composto in maggioranza da medici, fra i quali anche i veterinari, nonché da rappresentanti del personale infermieristico e del personale tecnico sanitario. Le modalità di elezione, la composizione e il funzionamento del consiglio trovano una disciplina specifica nelle apposite norme regionali.

In particolare, il consiglio dei sanitari fornisce pareri obbligatori al direttore generale per le attività tecnico-sanitarie, anche sotto il profilo organizzativo, e per gli investimenti ad esse attinenti, nonché per le attività di assistenza sanitaria (art. 3, comma 12, decreto legislativo n. 502/1992)[98].

 

 

 

 

 

 

 

 



[1]BOROLI A. – BOROLI A. (a cura di), Grande Enciclopedia, Vol. XVII, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1987, voce salute.

[2] Constitution of the World Health Organization, in www.who.int

[3] Universal Declaration of Human Rights, in www.ohchr.org

[4] All’art. 12, al punto 2, di tale Patto si legge:

“2. Le misure che gli Stati parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini:

a) la diminuzione del numero dei nati-morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli;

b) il miglioramento di tutti gli aspetti dell’igiene ambientale e industriale;

c) la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, professionali e di altro genere;

d) la creazione di condizioni che assicurino a tutti servizi medici e assistenza medica in caso di malattia”.

[5] Committee on Economic, Social and Cultural Rights, General Comment No. 14, in www2.ohchr.org

[6] Committee on Economic, Social and Cultural Rights, General Comment No. 14, in www2.ohchr.org

[7] Cfr. CILIONE G., Diritto sanitario, Maggioli, Rimini, 2005: “La tutela della salute è un armonico equilibrio funzionale, fisico e psichico dell’organismo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale”, pag. 29.

[8] Trattato istitutivo della Comunità europea, in www.eur-lex.europa.eu

[9] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, in www.europarl.europa.eu

[10] Cfr. BALDUZZI R., Sistemi costituzionali, diritto alla salute e organizzazione sanitaria, Il Mulino,  Bologna, 2009; BOTTARI C., Tutela della salute ed organizzazione sanitaria, Giappichelli,  Torino, 2009; CARAVITA B., La disciplina costituzionale del diritto alla salute, in Dir. e soc. 1984; COCCONI M., Il diritto alla tutela della salute, Cedam, Padova, 1998; FERRARA R. – VIPIANA P. M., Principi di diritto sanitario, Giappichelli, Torino, 1999; GALLO C. E. – PEZZINI B., Profili attuali del diritto alla salute, Giuffrè, Milano, 1998; MORANA D., La salute nella Costituzione italiana, Giuffrè, Milano, 2002.

[11] CATELANI A., La sanità pubblica, in Trattato di diritto amministrativo (a cura di G. SANTANIELLO), Vol. XL, Cedam, Padova, 2010. Cfr. anche AICARDI N., La Sanità, in Trattato di diritto amministrativo, tomo I, a cura di CASSESE S., Giuffrè, Milano, 2003; FERRARA R., L’ordinamento della sanità,  Giappichelli,  Torino, 2007; JORIO E., Diritto sanitario, Giuffrè, Milano, 2006.

[12] CATELANI A., op. cit., 2010: “Niente è più inerente alla persona umana, nella sua corporeità, nella sua fisicità, della sua salute. Attraverso la tutela della salute si salvaguarda la personalità del singolo nella sua più intima essenza, nella sua fisica consistenza di essere umano”.

[13] In proposito la Corte Costituzionale fonda proprio sull’art. 32 il diritto al risarcimento del singolo che abbia subito lesioni e/o menomazioni della propria integrità psico-fisica personale (Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 184, in Giur. Cost.).

[14] MIRIELLO C., Le aziende sanitarie pubbliche, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia (diretto da GALGANO F.), Cedam, Padova, 2009. Cfr. anche AA. VV., Sanità ed assistenza dopo la riforma del Titolo V, a cura di BALDUZZI R. e DI GASPARE G., Giuffrè, Milano, 2002; CHIEFFI L., Il diritto alla salute alle soglie del terzo Millennio. Profili di ordine etico, giuridico ed economico, Giappichelli, Torino, 2003; CUOCOLO L., voce Salute (diritto alla), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 2007; GASPARRO N., Diritto sanitario. Legislazione, organizzazione, amministrazione, economia, etica e lavoro, Il Sole 24 Ore, Milano, 2009; MOLASCHI V., voce Sanità, in Enciclopedia giuridica Treccani., Roma, 2007.

[15] Legge 23 dicembre 1978, n. 833 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, in MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[16] CATELANI A., op. cit., 2010:“Il principio della gratuità, data l’elevatezza dei costi sanitari, non può essere inteso nella sua assolutezza, per cui è temperato dalla valutazione del reddito dei pazienti, oltre che da quello della maggiore o minore indispensabilità delle cure. In questa materia c’è una riserva di legge nella Costituzione, che rinvia al legislatore statale la determinazione concreta della gratuità o dell’onerosità, parziale o totale, delle prestazioni”.

[17] FERRARA R., op. cit., 2007.

[18] CATELANI A, op. cit., 2010.

[19] Sul consenso informato del paziente cfr. GIUNTA F, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001; IADECOLA G., Consenso del paziente e trattamento medico-chirurgico, Liviana Editrice, Padova, 1989; IADECOLA G., Potestà di curare e consenso del paziente, Cedam, Padova, 1998; MANNA A., voce Trattamento medico-chirurgico in Enciclopedia del diritto., vol. XLIV, Giuffrè, Milano, 1992.

[20] F. GIUNTA, op. cit., 2001.

[21] Sul consenso informato cfr. anche LA MONACA G. – TAMBONE V. – ZINGARO N. – POLACCO M., L’informazione nel rapporto medico-paziente, Giuffrè, Milano, 2005; NASO M., Consenso informato e danno esistenziale, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2009, n. 1; PETRAGLIA L., Libertà di rifiutare le cure e responsabilità penale del medico: quando la natura deve fare il suo corso?, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2008, n. 1; PETRI M., Il consenso informato all’atto medico, in Il Corriere del merito, Ipsoa, 2005, n. 2; RESCIGNO G.U., Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, 2° comma della Costituzione al principio di autodeterminazione della propria vita, in Dir. Pubbl., 2009.

[22] GIUNTA F., op. cit., 2001, p. 379.

[23] Per la normativa sui trattamenti sanitari obbligatori cfr. l. 13 maggio 1978 n.180; l. 23 dicembre 1978 n. 833 (artt. 33-35). In dottrina cfr. PANUNZIO S.P., Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione, in Dir. e soc., 1979; SILVESTRI L., Trattamenti sanitari obbligatori e tutela della salute, in Riv. infortuni, 2006, n. 1; STRIPPOLI V., Trattamenti e accertamenti sanitari obbligatori, Maggioli, Rimini, 2005; VALENTINI D., I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, Piccin, Padova, 1996.

[24] Cfr. FEDERICI A., Le patologie silenti nel sistema di indennizzo in favore di soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, in Riv. Giur. lav., 2007, n. 2.

[25] ROMANO M. – STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973.

[26] Cfr. CASTRONOVO C., La legge 180, la Costituzione e il dopo, in Un altro diritto per il malato di mente, a cura di CENDON P., Edizioni Scientifiche Italiane, Padova, 1988; CAZZULLO C. L., Storia breve della psichiatria italiana, Masson, Milano, 2000; PONTI G. – MERZAGORA I., Psichiatria e giustizia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993.

[27] Cfr. PITRELLI N., L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia. La comunicazione e la fine dei manicomi, Editori Riuniti, Roma, 2004; VINCENZI AMATO D., Il modello dei trattamenti sanitari nella legge 180, in Un altro diritto per il malato di mente, a cura di CENDON P., Edizioni Scientifiche Italiane, Padova, 1988.

[28] Cfr. la legge 13 maggio 1978, n. 180 e la legge 23 dicembre 1978, n. 833, in www.salute.gov.it

[29] CAZZULLO C. L., op. cit., 2000. Cfr. anche LUCIANI M., Le infermità mentali nella giurisprudenza costituzionale, in Pol. del dir., 1986; PIZZI A., Malattie mentali e trattamenti sanitari, Giuffrè, Milano, 1978; ZATTI P., Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in Pol. del dir., 1986.

[30] Sulla sanità sino all’istituzione del Servizio sanitario nazionale cfr. ALESSI R., L’amministrazione sanitaria, in Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, 1967; ALESSI R., Le funzioni sanitarie e le sue caratteristiche, in L’amministrazione sanitaria, Neri Pozza, Vicenza, 1967; ANGELICI M., Principi di diritto sanitario, Vol. I, Parte generale, Giuffrè, Milano, 1974; LESSONA S., La tutela della salute pubblica, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana diretto da LEVI P. – CALAMANDREI F., Barbera, Firenze, 1950; MERUSI F., Momenti transitori della riforma sanitaria, Giuffrè, Milano, 1976; PAPALDO N., Il Codice delle leggi sanitarie, Giuffrè, Milano, 1971; PRIMICERIO B., Lineamenti di diritto sanitario, Edizioni Luigi Pozzi, Roma, 1974.

[31] CATELANI A., op. cit., 2010.

[32] CATELANI A., op. cit., 2010; MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[33] Sul Servizio sanitario nazionale cfr. AICARDI N., op. cit., 2003; BOTTARI C., op. cit., 2009; CILIONE G., op. cit., 2005; FERRARA R., op. cit., 2007;. GALLO C. E. – PEZZINI B., op. cit., 1998; GASPARRO N., op. cit., 2009; GUIDUCCI P.L., Manuale di Diritto sanitario, Franco Angeli, Milano, 1999; JORIO E., op. cit., 2006; MAINO F., La politica sanitaria, Il Mulino, Bologna, 2001; MAPELLI P., Il sistema sanitario italiano, Il Mulino, Bologna, 1999; MOR G., Il nuovo assetto del servizio sanitario nazionale, in Sanità pubblica, 1997; MORANA D., op. cit., 2002; PRIMICERIO B., Il servizio sanitario nazionale: struttura, organizzazione e modelli gestionali, Edizioni Luigi Pozzi, Roma, 2004; ROVERSI MONACO F. A., Il nuovo servizio sanitario nazionale, Maggioli, Rimini, 2000; SANGIULIANO R., Diritto sanitario e servizio sanitario nazionale, Edizioni giuridiche Simone, Napoli, 2008; TRABUCCHI M., I cittadini e il sistema sanitario nazionale, Il Mulino, Bologna, 1996; ZUCCHETTI A., I servizi sanitari, Giuffrè, Milano, 1995.

 

[34] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche FERRARA R., op. cit., 2007; CILIONE G., op. cit., 2005.

[35] JORIO E., op. cit., 2006, pp. 27-28.: “L’art. 1 ha riconosciuto alla tutela della salute, in linea con il dettato costituzionale, il ruolo di diritto soggettivo perfetto da esercitare in forma immediata, quale posizione giuridica incondizionata, direttamente riconosciuta e tutelata dall’ordinamento, in favore della persona, in quanto tale. Con ciò ha avuto modo di riaffermare che i cittadini (e non solo!) vengono individuati quali soggetti attivi, in capo ai quali insiste  il concreto diritto di pretendere dallo Stato le necessarie garanzie sanitarie e, quindi, il libero e indisturbato godimento di quel complesso di strutture e servizi che compongono nel loro insieme il Servizio sanitario nazionale”.

[36] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche AICARDI N., op. cit., 2003; BALDUZZI R., op. cit., 2009; GASPARRO N., op. cit., 2009; CARNEVALI G., Prospettive di innovazione e sviluppo del sistema sanitario, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2008, n. 291; FORTUNATO A., Le istituzioni sanitarie e i sistemi locali: riflessioni e spunti per un nuovo rapporto con il territorio, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 2006, n.1; FERRARA R., op. cit., 2007; IANNOTTA R., Unità sanitarie locali (organizzazione), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1994.

[37] Cfr. ALEMANNO G. S., Il nuovo servizio sanitario nazionale, La tribuna, Piacenza, 1993;  ANSELMI L., Il modello aziendale del nuovo SSN, in Mecosan, Sipis, Roma, 1995, n. 16; ANNESI PESSINA E. – CANTU’ E., L’aziendalizzazione della sanità in Italia. Rapporto OASI 2003, Egea, Milano, 2003; BORGONOVI E., Aziendalizzazione e governo clinico, in Mecosan, Sipis, Roma, 2004, n. 46; CILIONE G., op. cit., 2005; FERRARA R., op. cit., 2007; FERRARA R. – VIPIANA P. M., op. cit., 1999; RAFTI V., Il processo di aziendalizzazione attraverso le riforme, in Sanità pubblica, 1999, n. 2; ROVERSI MONACO F. A., La nuova sanità, Maggioli, Rimini, 2005; ZANETTA G. P. – CASALEGNO C., Le leggi della nuova sanità, Il Sole 24 Ore, Milano, 1998.

[38] C. MIRIELLO, op. cit. 2009; E. JORIO, op. cit. 2006.

[39] Cfr. ANNESI PESSINA E. – CANTU’ E., op. cit., 2003; BALDUZZI R., La l. n. 419 del 1998 recante delega per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale: prime considerazioni d’insieme, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 1999, n. 2.; BALDUZZI R. – DI GASPARE G., L’aziendalizzazione nel d.lgs. 229/99, Giuffrè, Milano, 2001; CILIONE G., op. cit., 2005; FERRARA R., op. cit., 2007; SANGIULIANO R., La riforma sanitaria ter, Edizioni giuridiche Simone, Napoli, 1999.

[40] MIRIELLO C., op. cit. 2009; E. JORIO, op. cit., 2006.

[41] Sui livelli essenziali di assistenza v. par. 5.

[42] Cfr. BENCI L., Elementi di legislazione sanitaria e di biodiritto, McGraw Hill, Milano, 2009.

[43] Sulle competenze regionali in materia sanitaria cfr. BALDUZZI R. – DI GASPARE G., Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, Giuffrè, Milano, 2005; CHIEFFI L. – CLEMENTE DI SAN LUCA G., Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Giappichelli, Torino, 2004; GASPARRO N., op. cit., 2009; JORIO E. – JORIO F., Riforma del Welfare, devoluzione e federalismo della salute, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 2002, n. 5; PRIMICERIO B., op. cit., 2004.

[44] CATELANI A., op. cit., 2010. Cfr. anche CATELANI A., L’ordinamento regionale, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da SANTANIELLO G., Vol. XXXVIII, Cedam, Padova, 2006; BALDUZZI R., I servizi sanitari regionali tra autonomia e coerenza di sistema, Giuffrè, Milano, 2005; DIRINDIN N. – PAGANO E., Governare il federalismo. Le sfide per la sanità, Il Pensiero Scientifico, Roma, 2001; MANCUSO C., Quale potestà legislativa per la tutela del diritto alla salute?, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2003, n. 2; ZANGRANDI A., I cittadini e i servizi sanitari. Regioni a confronto, Guerini, Milano, 2009.

[45] Il Ministero della Salute, in www.salute.gov.it

[46] Sulle funzioni amministrative in materia sanitaria cfr. BOTTARI C., op. cit., 2009; BALDUZZI R., op. cit., 2005; CATELANI A., op. cit., 2006; GASPARRO N., op. cit., 2009; JORIO E., op. cit., 2006; JORIO E., La Consulta e la salute tra Stato e Regioni: una recente lettura del giudice delle leggi, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2002, n. 3; JORIO E. – JORIO F., op. cit., 2002; STAIANO S., Le funzioni amministrative nel sistema delle autonomie locali, Jovene, Napoli, 2006; ZANGRANDI A., op. cit., 2009.

[47] CATELANI A., op. cit., 2010.

[48] Sui livelli essenziali di assistenza cfr. in dottrina BALDUZZI R., La sanità italiana tra livelli di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, Giuffrè, Milano, 2004; BOTTARI C., op. cit., 2009; JORIO F., Il fondo perequativo ed i livelli essenziali di assistenza, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini 2004, n.4; MOLASCHI V., Sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni: riflessioni sulla vis espansiva di una materia, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2003, n. 5; PELLEGRINI L., I livelli essenziali di assistenza: uno strumento di governo nel federalismo sanitario, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2002, nn. 213-214.

[49] MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[50] Occorre precisare che le Regioni hanno la possibilità di garantire, utilizzando risorse proprie, servizi e prestazioni ulteriori rispetto a quelle incluse nei LEA, fissati dalla programmazione nazionale.

[51] MIRIELLO C., op. cit., 2009. In merito alla struttura e al contenuto del D.p.c.m. 29 novembre 2001 cfr. anche CUOCOLO L., La tutela della salute tra neoregionalismo e federalismo, Giuffrè, Milano, 2005; DEIAS F., I livelli essenziali di assistenza. Concetti generali, normativa di riferimento, esperienze comparate, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2007, n. 1; JORIO E., op. cit., 2006; MARZOT S., Le prestazioni sanitarie: analisi dei livelli essenziali assistenziali e dei modelli gestionali, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2008, n. 4.

[52] MIRIELLO C., op. cit., 2009;  Cfr. anche BOTTARI C., op. cit., 2009; JORIO E., op. cit. 2006.

[53] Per una visione d’insieme  cfr. ALBANESE A. – MARZUOLI C., Servizi di assistenza e sussidiarietà, Il Mulino, Bologna, 2003; FERRARI E., I servizi sociali, in Trattato di diritto amministrativo. Parte speciale, tomo I, a cura di CASSESE S., Giuffrè, Milano, 2003.

[54] Per una rassegna completa cfr. CORBETTA C., La sanità privata nell’organizzazione amministrativa dei servizi sanitari – Contributo alla nozione di pubblico servizio, Maggioli, Rimini, 2004.

[55] MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[56] MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[57] MIRIELLO C., op. cit., 2009. Cfr. anche BARRESI G., Dalla competizione alla collaborazione. Nuovi modelli per la gestione dei servizi sanitari, Giappichelli, Torino, 2005.

[58] CATELANI A., op. cit., 2010.

[59] JORIO E., op. cit., 2006. Sull’autorizzazione allo svolgimento di attività sanitarie cfr. anche BOTTARI C., op. cit., 2009; CILIONE G., op. cit., 2005; CILIONE G., Pubblico e privato nel nuovo sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie assistenziali (in particolare specialistiche ospedaliere), in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 2000, n. 1; FERRARA R., op. cit., 2007; GASPARRO N., op. cit., 2009; STICCHI DAMIANI E., La concorrenza nell’erogazione dei servizi sanitari e la posizione delle imprese private, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2003, n. 9.

[60] Sull’accreditamento cfr. BARCELLONA P., L’evoluzione dell’assetto organizzativo per l’erogazione delle prestazioni assistenziali sanitarie: dal sistema della convenzione a quello dell’accreditamento, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 1998, n. 2; BOTTARI C., op. cit., 2009; CILIONE G., op. cit., 2005; CORBETTA C., L’accreditamento nel SSN, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2005, n. 225; JORIO E., L’accreditamento istituzionale e il ruolo del privato nell’organizzazione della salute, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2004, n. 2; FERRARA R., op. cit., 2007; SANGIULIANO R., op. cit., 2008.

[61] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche CILIONE G., op. cit., 2005; CORBETTA C., op. cit., 2005;  FERRARA R., op. cit., 2007.

[62] Sulle sperimentazioni gestionali cfr. CILIONE G., Indirizzo e controllo politico nelle sperimentazioni gestionali, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2008, n.1; JORIO E. – MAIDA R. – MONTILLA E., Le sperimentazioni gestionali e la finanza di progetto, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2004, n. 9; GASPARRO N., op. cit., 2009; PASTORI G., Pubblico e privato nella sanità e nell’assistenza, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2002, nn. 11/12; STICCHI DAMIANI E., op. cit., 2003; TOTH F., Politiche sanitarie. Modelli a confronto, Laterza, Roma-Bari, 2009; ZANGRANDI A., op. cit., 2009.

[63] CATELANI A., op. cit., 2010.

[64] CATELANI A., op. cit., 2010.

[65] MIRIELLO C., op. cit., 2009. In particolare cfr. CORBETTA C. op. cit., 2004.

[66] La legge 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, aveva introdotto le USL precisando, quanto alla loro struttura, che esse avrebbero costituito il complesso dei  presidi,  degli  uffici  e  dei  servizi dei comuni, singoli o associati, e delle comunità montane preposti all’assolvimento dei compiti del servizio sanitario nazionale, in un ambito territorialmente determinato (art. 10). Nel quadro delineato dalla citata legge, le USL si presentavano, quindi, quali strutture operative dei Comuni singoli o associati e delle Comunità montane.

[67] Sulle aziende sanitarie cfr. AICARDI N., op. cit., 2003; CARNEVALI G., Prospettive di innovazione e sviluppo del sistema sanitario, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2008, n. 291; CAPPUCCCI A., La configurazione giuridica delle aziende sanitarie locali e loro profili autonomistici, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 2001, n. 11/12; CILIONE G., op. cit., 2005; FERRARA R., op. cit., 2007; FIORONI G.  – A. L. DEL FAVERO, Aziendalizzazione e sanità, Società editrice romana, Roma, 2003; FRE’ F., L’autonomia delle aziende sanitarie, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2001, n. 201; GARRI F. – CHIAPPINELLI C., La gestione delle aziende sanitarie, Maggioli, Rimini, 2001;  GASPARRO N., op. cit., 2009; JORIO E., op. cit., 2006; JORIO E. – JORIO F., Il processo di aziendalizzazione del sistema sanitario nazionale, Giuffrè, Milano, 2000; LONGOBARDI N., La nuova organizzazione delle unità sanitarie locali, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 1994, n. 12.

[68] JORIO E., op. cit., 2006.

[69]Cfr. BALDUZZI R. – DI GASPARE G., op. cit., 2001.

[70] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche BALMA R., Il governo dei servizi sanitari regionali, attori, regole e strumenti, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2003, nn. 227/228; BERGAMASCHI M., L’organizzazione nelle aziende sanitarie, McGraw Hill, Milano, 2000; BOTTARI C., Nuovi modelli organizzativi per la tutela della Salute, Giappichelli, Torino, 1999; BOTTI A., Governo e gestione dell’azienda sanitaria locale, Cedam, Padova, 2003; CARNEVALI G., op. cit., 2008; RAFTI V., op. cit., 1999; ROVERSI MONACO F., op. cit., 2000; SANGIULIANO R., op. cit., 2008.

[71] GARRI F. – CHIAPPINELLI C., op. cit., 2001; BOTTARI C., op. cit., 1999.

[72] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche CAPPUCCI A., Il processo evolutivo della sanità italiana: dagli ospedali alle aziende sanitarie, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2002, nn. 215/216; ROVERSI MONACO F. A., op. cit., 2000.

[73] Sull’organizzazione delle aziende sanitarie cfr. le note 67 e 70 di questo capitolo, e gli autori ivi citati.

[74] In particolare sul distretto cfr. CILIONE G., op. cit., 2005; CONTATO E. – GIULIANI A. – FABBRI A., Il distretto: articolazione territoriale fondamentale del governo aziendale, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2006, n. 267; FERRARA R., op. cit., 2007; GASPARRO N., op. cit., 2009; JORIO E., op. cit., 2006; SANGIULIANO R., op. cit., 2008.

[75] JORIO E., op. cit., 2006; CILIONE G., op. cit., 2005.

[76] In particolare sull’organizzazione dipartimentale cfr. CILIONE G., op. cit., 2005; GASPARRO N., op. cit., 2009; JORIO E., op. cit., 2006; ROVERSI MONACO F. A., op. cit., 2000.

[77] Le unità operative sono organizzate in strutture complesse e in strutture semplici di dipartimento o di struttura complessa. Per “struttura” si intende l’articolazione interna dell’azienda, alla quale è attribuita con l’atto aziendale la responsabilità di gestione di risorse umane, tecniche o finanziarie (CCNL 1998_2001, art. 27, comma 3).
Le strutture complesse erogano prestazioni o esercitano funzioni rilevanti per qualità e quantità, che richiedono un elevato grado di autonomia decisionale e che comportano la gestione di risorse umane, tecnologiche o finanziarie rilevanti per entità o diversità. Le strutture complesse ospedaliere, in particolare, hanno i seguenti requisiti: locali dedicati; personale medico, infermieristico o tecnico ed amministrativo dedicato; un proprio centro di responsabilità; obiettivi specifici; completa autonomia sanitaria o amministrativa o di ricerca; un proprio budget.

Per  strutture semplici di struttura complessa e di dipartimento s’intendono quelle strutture individuate in base a criteri di efficacia ed economicità e di organizzazione dei processi di lavoro, che costituiscono articolazioni di strutture complesse oppure di un dipartimento, alle quali viene assegnata la gestione di risorse umane e/o tecnologiche. Alle strutture semplici possono essere delegate, con atto scritto e motivato, funzioni e responsabilità specifiche da parte dei livelli sovraordinati, con particolare riferimento alla gestione clinico assistenziale dei pazienti e con l’attribuzione dei relativi ambiti di autonomia, ferme restando le responsabilità gerarchicamente individuate.  Mentre la struttura semplice, articolazione della struttura complessa, dipende gerarchicamente dal direttore della struttura complessa, la struttura semplice a valenza dipartimentale, invece, dipende gerarchicamente dal direttore del dipartimento.

A capo di ogni struttura è designato un dirigente, che in relazione all’incarico svolto, ovvero di direzione di struttura complessa o di direzione di struttura semplice, assume la denominazione, rispettivamente, di direttore o di responsabile.

 

[78] Il dipartimento delle aziende sanitarie in www.salute.gov.it

[79] JORIO E., op. cit., 2006; CILIONE G , op. cit., 2005.

[80] JORIO E.,  op. cit. 2006; CILIONE G., op. cit., 2005.

[81] JORIO E., op. cit., pag. 151. Cfr. anche BOTTARI C., op. cit., 1999; FERRARA R., op. cit., 2007; ROVERSI MONACO F., op. cit., 2000.

[82] JORIO E., op. cit., 2006; MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[83] JORIO E., op. cit., 2006.

[84] CILIONE G., op. cit., 2005. Cfr. anche BOTTI B., op. cit., 2003; COSTELLA V., Degli organi delle aziende sanitarie: evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2007, nn. 283/284.

[85] Sui direttori generali cfr. BOTTARI C., op. cit., 2009; BOTTI A., op. cit., 2003; CAPPUCCI A., Il top manager della sanità: il direttore generale, in Ragiusan, Sipis, Roma, 1996, nn. 150/151; CARNEVALI G., Considerazioni sulla figura del direttore generale di azienda sanitaria, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2002, nn. 223/224; CILIONE G., op. cit., 2005; FERRARA R., op. cit., 2007; FRE’ F., Sul potere monocratico del Direttore generale delle Asl, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2004, nn. 241/242; JORIO E., op. cit., 2006; MELE E., Rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e direttore sanitario della Usl. La disciplina della dirigenza e il rapporto di lavoro del personale dipendente, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 1993, nn. 8/9; RUSSO VALENTINI R., La responsabilità manageriale dei direttori generali, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2003, nn. 233/234; SCOCA F. G., La singolarità di un burocrate manager, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2003, nn. 229/230; SCOCA F. G., I direttori generali delle aziende sanitarie e l’autonomia imprenditoriale, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2002, n. 222; SPERANZA N. – RICCIARDI M., Il rapporto di lavoro del direttore generale e dei direttori sanitario ed amministrativo, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2003, nn. 229/230; VAGNONI E., La direzione della Azienda sanitaria, FrancoAngeli, Milano, 2010.

 

[86] MIRIELLO C., op. cit., 2009.

[87] Le cause di ineleggibilità riguardano l’impossibilità per il direttore generale in carica ad essere eletto alla carica di consigliere comunale, provinciale, regionale e di parlamentare. Le cause di incompatibilità non consentono, invece, la coesistenza in capo al soggetto, nominato Direttore generale, della carica di sindaco o assessore comunale, di assessore o presidente di Comunità montane, di conigliere provinciale, regionale e di membro del Parlamento, nonché di quella di dirigente o consulente in strutture che siano in concorrenza con la stessa azienda sanitaria in cui svolge le funzioni. È prevista, inoltre, l’incompatibilità con la sussistenza di un altro rapporto di lavoro autonomo o dipendente (art. 3 comma 9 e art. 3 bis comma 10, decreto legislativo n. 502/1992).

[88] L’atto aziendale è da intendersi un atto di natura privata, contenente le norme fondamentali sull’organizzazione e il funzionamento dell’azienda sanitaria. Esso è adottato dal Direttore generale, tenuto conto delle linee di indirizzo generali indicate dalle Regioni. Sull’atto aziendale delle Aziende sanitarie locali cfr. JORIO E., op. cit., 2006; JORIO E., L’atto aziendale e i suoi contenuti, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2006, n. 2; COSTELLA V., Dell’atto aziendale: natura giuridica, funzioni e contenuti, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2007, n. 279; CILIONE G., op. cit., 2005; RAMPULLA F.C. – TRONCONI R., L’atto aziendale di organizzazione delle aziende sanitarie, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 2002, n.3.

[89] JORIO E., op. cit., 2006; CATELANI A., op. cit., 2010.

[90]JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche JORIO E. – JORIO F., Il direttore generale delle aziende della Salute, in Rassegna di diritto farmaceutico, Milano, 2000;  OLLA G. – PAVAN P. – NARDI M. G. – GUGLIOTTA A. – LALLAI M., Il management nell’azienda sanitaria, Giuffrè, Milano, 2000; REBORA G., Profili dei direttori generali nelle aziende sanitarie, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2005, n. 1.

[91] Sulla dirigenza sanitaria e sulla dirigenza amministrativa cfr. BOTTARI C., op. cit., 2009; CILIONE G., op. cit., 2005; FERRARA R.,op. cit., 2007; GASPARRO N., op. cit., 2009; JORIO E., op. cit., 2006; LAMBERTUCCI P., Dirigenza sanitaria, responsabilità dirigenziale e gestione delle risorse umane: brevi appunti, in Lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2006; SANGIULIANO R., op. cit., 2008; SPERANZA N., Il principio della distinzione tra compiti dell’organo di vertice e compiti della dirigenza nelle aziende sanitarie, in Sanità pubblica, Maggioli, Rimini, 2002 n. 2; VAGNONI E., op. cit., 2010.

[92] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche CORBETTA C., SSN. Dirigenti medici, in Sanità pubblica e privata, Maggioli, Rimini, 2007, n. 3; CORONATO S. – TANTURLI M., Il nuovo assetto del SSN: le figure del direttore sanitario e del direttore amministrativo, in Diritto sanitario moderno, Roma, 1994, n. 3.

[93] JORIO E., op. cit., 2006.

[94] JORIO E., op. cit., 2006.

[95] Sul collegio sindacale, così come sul collegio di direzione e sul consiglio dei sanitari, cfr. le note 85 e 91  di questo capitolo, e gli autori ivi citati.

[96] JORIO E., op. cit., 2006. Cfr. anche CASELLI R., Sul ruolo del collegio sindacale delle aziende sanitarie, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2004, nn. 245/246; CILIONE G., op. cit., 2005.

[97] Cfr. SIMONETTI S. – BRANCA M., Uno strumento per il governo delle aziende sanitarie: il collegio di direzione, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2002, nn. 223/224.

[98] CONTATO E. – GIULIANI A. – FABBRI A., Il consiglio dei sanitari delle aziende Usl: ruolo, funzioni e parallelismi, in Ragiusan, Sipis, Roma, 2005, n. 259.

 

Redatto dalla Dott.ssa Silvia Meda – ne è vietata la riproduzione.

 

Questo articolo ha 0 commenti

Lascia un commento

Torna su
Cerca