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L’art. 192 c.p.p. comma 2 prevede che ….l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti…..


Il codice di procedura penale non dà una definizione né del concetto giuridico di prova né di quello altrettanto fondamentale di indizio sebbene i due termini – come è di intuitiva evidenza – siano di fondamentale importanza in tutta l’architettura del codice e, soprattutto, nel momento pratico dell’attuazione del diritto.
L’indizio – come si ricava dalla teoria del diritto applicato ovvero la Dottrina e la Giurisprudenza – è definibile come quel ragionamento logico deduttivo che nasce ed ha per oggetto un fatto storico diverso da quello che deve essere provato nel procedimento penale (ovvero la fattispecie di reato contestata) ma dal quale è possibile dedurre l’esistenza del reato vero e proprio (del quale il processo penale deve accertare l’esistenza e la paternità).


La prova, diversamente, è un ragionamento che da un fatto noto permette di risalire direttamente ad un altro fatto avvenuto nel passato.
Il citato art. 192 c.p.p. indica i tre criteri guida alla luce dei quali è legittimo dedurre dagli indizi l’esistenza di un fatto (reato, ma non solo).
Occorre, invero che gli indizi siano:
Gravi: ovvero abbiano pregnante capacità dimostrativa;
Precisi: non possano essere oggetto di numerose diverse interpretazioni;
Concordanti: ovvero non contrastanti tra di loro né con altri elementi di certi (ovvero di prova).
La criticità della prova indiziaria è tutta nella sua potenziale interpretabilità poiché – diversamente dalla prova diretta che offre un collegamento fattuale tra due evenienze certe – consta di un processo mentale (del Giudicante) costituito da inferenze e deduzioni che, come tali, sono caratterizzate da un imprescindibile grado di soggettività e, quindi, di effettiva incertezza.
Si tratta, invero, di un percorso logico (o, meglio, che dovrebbe essere sempre tale) che permette la ricostruzione di un avvenimento passato partendo da un accadimento conosciuto che, tuttavia, non può essere considerato univocamente il diretto correlato del fatto storico da ricostruire.

La particolarità e la difficoltà dell’indizio è proprio questa: può essere la traccia di qualcosa ma anche di qualche cosa d’altro.

Il Legislatore dimostra di essere del tutto consapevole della criticità (e, direi, anche della pericolosità) insita nell’indizio quale strumento per la ricostruzione di un fatto-reato passato; tanto è vero che, indicando le linee guida dell’interpretazione della prova indiziaria (o indiretta), specifica nella prima parte del già citato comma 2 dell’art. 192 c.p.p. che la responsabilità penale basata sugli indizi è l’eccezione e non già la regola (….l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi….).
Del resto, la lettura dell’indizio a carico dell’accusato è un effettivo vulnus che contraddistingue il procedimento penale tutto e non già solo la fase processuale dell’accertamento del merito; del resto – come cercherò di illustrare oltre – la parità tra accusa e difesa di fronte ad un Giudice terzo (parità che è il presupposto di una corretta interpretazione ed applicazione pratica del procedimento mentale tipico dell’indizio) è, per certi aspetti, fisiologicamente irraggiungibile nel nostro ordinamento.

In relazione alla fase procedurale anteriore a quella dell’accertamento del merito (ovvero quella delle investigazioni) bisogna sottolineare che gli investigatori (coordinati dal Pubblico Ministero) sono sempre esposti a quella che viene chiamata “visione a tunnel” ovvero una interpretazione dei dati raccolti durante le indagini (e, quindi, massimamente degli indizi) di stampo marcatamente verificazionista ovvero tesa a supportare una tesi investigativa loro rappresentatasi come la più plausibile di tal che le forze e le menti di coloro che sono deputati a indagare si concentrano a individuare, raccogliere e valorizzare soprattutto quegli elementi (gli indizi) che rafforzano la tesi di partenza non coltivando altre ipotesi (si tratta delle tanto vituperate e note nei dibattiti massmediologici “indagini a senso unico”).
E’ ovvio che tale approccio può essere un grave ostacolo – fin dalle prime battute del procedimento penale – alla effettiva corretta ricostruzione dei fatti accaduti (e, ovviamente, prologo di un errore giudiziario e, spesso, di una illegittima applicazione di una misura cautelare coercitiva).
Mi preme altrettanto sottolineare che tale pericolo non è frutto di una diffusa incapacità o – men che meno – di mala fede delle Forze dell’Ordine (che hanno un compito sempre obbiettivamente difficile non foss’altro per le condizioni in cui operano e che annoverano nelle loro fila menti tra le più fulgide e preparate nel campo della criminalistica e delle scienze forensi); bensì un bias del tutto naturale ed umano per il quale siamo tutti più propensi ad adottare una condotta non falsificazionista rispetto alle nostre convinzioni.
Un buon investigatore sa che la “visione a tunnel” non è mai eliminabile del tutto ed occorre saperla gestire sebbene sia quasi impossibile dominarla del tutto (e sicuramente la collegialità dell’organo investigativo può essere un buon modo per contenerne gli effetti maggiormente deleteri).

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Ugualmente la fase processuale dell’accertamento del merito può ed è spesso lo sfondo per una lettura a senso unico degli indizi apparentemente a carico dell’imputato.
Lettura patologica che, come sopra accennato, trova il suo presupposto in una solo apparente parità delle parti (accusa e difesa) al cospetto del Giudice.
Anche in questo caso – quando il Giudice è vittima della visione a tunnel – le ragioni vanno individuate in un approccio psicologico a cui non sfugge nemmeno il giudicante uomo tra gli uomini.
Si pensi, infatti, all’apertura di un dibattimento (sede di accertamento del merito di quasi tutti i processi indiziari per i quali è spesso controproducente scegliere un rito alternativo come l’abbreviato ove gli spazi per la difesa risultano assai contratti potendosi basare solo sui documenti del fascicolo dell’accusa) all’inizio del quale il Giudice non è a conoscenza degli atti delle indagini preliminari (custoditi nel fascicolo del Pubblico Ministero).
Ebbene, la terzietà del Giudice che dovrebbe essere garantita dalla mancata conoscenza degli atti di indagine e che dovrebbe essere il logico presupposto di una corretta ed equilibrata lettura degli indizi, in realtà è minata dalla stessa architettura del processo penale.

Il Giudice, infatti, è chiamato a giudicare dopo che:
– Si è verificato un accadimento storico che, quantomeno, appare avere glie stremi del fatto reato;
– Quel fatto ambiguo ha dato il via alle indagini sulle quali hanno lavorato gli inquirenti che, evidentemente, ritengono di aver sufficienti elementi a carico dell’accusato;
– Il PM (un collega del Giudice) ha promosso l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio;
– Il GUP (il Giudice dell’udienza preliminare, un altro collega del Giudice) a seguito dell’udienza preliminare ha deciso che vi sono sufficienti elementi per rinviare a Giudizio l’imputato;
– Magari l’imputato è anche stato sottoposto ed è sottoposto ad una misura cautelare ritenuta legittima da un altro suo Collega (il GIP che ha deciso durante la fase delle indagini preliminari);
– E, dulcis in fundo, dopo che l’imputato (magari con qualche precedente) gli viene presentato in aula incatenato e accompagnato due guardie penitenziarie.
Certamente, non paiono del tutto realizzatisi i presupposti per un giudizio davvero super partes e di una lettura a tutto tondo degli indizi che, peraltro, sono individuati, raccolti e dedotti dall’accusa pubblica (spesso affiancata da quella privata).

La difesa dell’imputato, quindi, si trova immediatamente in una situazione particolarmente svantaggiosa con una chiara disparità “situazionale” oltre che di mezzi, risorse (rispetto agli investigatori) e, addirittura, di tempo (infatti, il processo ha le sue rigide tempistiche scandite dal Giudice e dalla procedura mentre, al contrario, i tempi delle indagini preliminari – segrete e dominate al 100% dal pubblico Ministero e dai suoi investigatori – posso essere tutto sommato gestite con relativa libertà dall’organo dell’accusa).

Mi piace riportare qui sotto la massima di una recente Sentenza della Sezione VI^ della Corte di Cassazione (6 novembre – 6 dicembre 2013 n. 49135, Pubblicata su “Guida al diritto n. 12 del 15 marzo 2014) in tema di lettura ed interpretazione degli indizi.
I Giudici di legittimità pongono in primo piano la necessaria duplicità del ragionamento indiziario: una valutazione singola di ogni indizio ed un giudizio globale dei rapporti degli stessi tra di loro ponendo l’accento anche sull’opportunità di un percorso logico privo della rigidità matematica.
Si tratta, quindi, anche a parere del Corte, di un adempimento particolarmente complesso che, per certi aspetti, sfugge allo stretto rigore che dovrebbe garantire il pieno rispetto dei diritti dell’accusato ma che appare, obbiettivamente, più opportuno (sebbene più rischioso) nello specialissimo compito di giudicare altri esseri umani:

“…..Il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno isolatamente considerato, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare, ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale ed unitario, tendente a dissolvere la relativa ambiguità, posto che nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice (cfr Cassazione Sezioni Unite, 4 febbraio 1992, Musumeci ed altri), A tal riguardo, dovendosi però precisare che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sezioni Unite, 12 luglio 2005, Mannino)…..”.

(articolo redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla. Ne è vietata la duplicazione).

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