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Affrontiamo in questo articolo – sebbene per sommi capi – l’ennesimo intervento del Legislatore in tema di misure cautelari (ed in special modo personali/custodiali) operato con la Legge 47/2015. Il campo non è nuovo all’intervento del Legislatore poiché effettivamente – e senza alcuna vis polemica – è quello nel quale si registrano più di sovente le violazioni dei diritti dell’indagato/imputato. Si tenga ben presente che:

L’applicazione delle misure cautelari è stata pensata dal Legislatore come un vera e propria eccezione alla luce del principio costituzionale dell’intangibilità della libertà individuale del cittadino; – Tra le misure cautelari quella maggiormente afflittiva, ovvero la custodia cautelare in carcere, dovrebbe essere (ed effettivamente questo impone la procedura penale) davvero l’ultima risorsa dopo che ogni altra misura (gli arresti domiciliari, l’obbligo di presentazione alla PG, il divieto o l’obbligo di dimora, il divieto di avvicinamento e da ultimo il quasi mai applicato “braccialetto elettronico”) risulta essere inadeguata per la tutela delle esigenze cautelari (pericolo di reiterazione del reato, inquinamento probatorio e pericolo di fuga).

Le misure cautelari vengono applicate sulla base di indizi giacché le prove (che sono costituite in giudizio in contraddittorio tra le parti e non già in fase di indagini preliminari sede procedimentale ove al 95% sono applicate le misure cautelari di cui qui si tratta) sono ancora al di là dal venire.

La prassi (o, meglio, la MALA/prassi) vede il più delle volte il GIP emettere una ordinanza di custodia cautelare con un semplice richiamo alla argomentazioni della pubblica accusa che l’ha richiesta senza una disamina approfondita e “neutrale” delle motivazioni che la legittimano e – molto spesso se non sempre – con un richiamo di PURO STILE alle motivazioni per le quali una misura cautelare meno afflittiva non risulta idonea al caso di specie (e, guarda caso, la Legge 47/2015 interviene proprio per limitare il “vuoto motivazionale” del GIP che si limita ad assecondare le richieste del PM).

Le nostre carceri – letteralmente – traboccano di persone (il fatto che siano straniere o meno non rileva minimamente poiché la nostra Costituzione non prevede nessuna…deroga….alla tutela della libertà degli individui qualsiasi sia la loro razza, sesso o religione) la cui colpevolezza deve essere ancora provata e, pertanto, per il nostro ordinamento sono ancora innocenti fino a prova contraria.

Ci nasconderemmo dietro un dito se anche qui non accennassimo alla triste circostanza per la quale a volte la custodia cautelare è applicata per “convincere” l’indagato a tornare a più miti consigli e valutare più…diciamo…..realisticamente gli elementi a carico dedotti dagli investigatori (e la memoria va agli anni di tangentopoli ove anche l’allora Presidente della Repubblica parlò del “…tintinnar di manette…” e, infatti, proprio di quegli anni è una delle modifiche alla disciplina delle misure in parola che si è premurata di sottolineare che la mancata volontà di collaborare con gli inquirenti non è motivo legittimante l’applicazione della custodia cautelare).

Spesso a fronte di crimini gravissimi si ritiene che la giustificazione della misura cautelare custodiale sia in re ipsa ovvero che sia proprio la gravità dei fatti contestati all’indagato a legittimare una restrizione della sua libertà sebbene le tre esigenze cautelari (fuga, inquinamento probatorio e reiterazione) non siano poi così chiare e concrete.

Come vedremo, il Legislatore del 2015, al fine di assicurare con il suo intervento (almeno nella teoria) un’effettiva, concreta e verificabile motivazione delle Ordinanze di applicazione della misura cautelare, ha previsto che il provvedimento applicativo esamini attentamente i motivi per i quali altre misure meno afflittive non siano idonee (anche prevedendo una precisa confutazione delle argomentazioni difensive). Tale (opportuna) attenzione del Legislatore è l’ennesima prova che nella prassi applicativa i Giudici diano spesso per “scontate” (alla luce della richiesta del PM) le gravi motivazioni che dovrebbero essere alla base della restrizione della libertà di una persona la cui colpevolezza è ben lungi dall’essere provata.

La Legge 47/2015 ha modificato nel nostro ordinamento, come detto, le norme relative alle misure cautelari e non solo. Tale modifica normativa veniva effettuata a seguito della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo nella famosa controversia Torreggiani/Italia (la nota Sentenza che ha condannato l’Italia per il sovraffollamento cronico delle carceri e le conseguenti inaccettabili condizioni di vita dei reclusi) al fine di arginare il ricorso eccessivo (rectius: l’abuso) in tema di applicazione delle misure cautelari personali custodiali (che alimentano ancora di più il sovraffollamento carcerario).

Ulteriori e radicali modifiche sono, invece, quelle apportate al procedimento incidentale relativo alle impugnazioni in materia cautelare personale, specie con riferimento al riesame ed al giudizio di rinvio conseguente alla decisione di annullamento dell’ordinanza applicativa da parte della Corte di Cassazione.

La nuova normativa ha riscritto gli articoli più importanti del codice di procedura apportando delle modifiche di rilevante importanza anche e soprattutto dal punto di vista strettamente pratico (almeno nell’intenzione del Legislatore; ma è ancora presto per fare un bilancio).

L’articolo che per primo ha ricevuto una riforma radicale del proprio contenuto è l’art. 274 c.p.p. che nella nuova formulazione prevede:

– la limitazione al ricorso alle misure cautelari;

– la restrizione del potere discrezionale del giudice in riferimento al “concreto ed attuale pericolo che l’imputato si dia alla fuga”;

In questo caso il Legislatore ha introdotto il requisito dell’”attualità” dei pericolo di fuga e di reiterazione; dunque, il Giudice dovrà effettuare un giudizio più articolato sull’an valutando attentamente la sussistenza di un pericolo concreto ed attuale (di fuga) per l’applicazione della misura. La decisione del Giudice dovrà contenere inoltre, l’indicazione delle specifiche ragioni per cui ritiene inidonea l’applicazione di altre misure meno afflittive.

In tal modo si esclude non solo la possibilità per il Giudice stesso di richiamare semplicemente le deduzioni del PM e, altresì, dovranno essere illustrati anche i motivi per cui non si ritengano corrette le indicazioni della difesa, posto che la mancata motivazione potrebbe poi essere causa di annullamento della misura cautelare in fase di riesame o avanti alla Corte di Cassazione.

Altre sostanziali modifiche apportate dalla Legge 47/2015 sono:

– la necessaria attualità delle esigenze cautelari “tenendo conto del tempo trascorso dalla commissione del reato” (la misura cautelare non deve avere una funzione retributiva rispetto alla gravità del reato ovvero non deve essere un anticipo di pena, altrimenti ciò comporterebbe una anticipazione dalla fase sanzionatoria stravolgendo la finalità della normativa cautelare. Evenienza che nella prassi trova quasi sempre applicazione anticipando alla fase delle indagini quella sanzionatoria);

la non incidenza esclusiva della gravità del reato in relazione al quale occorrerà tenere in considerazione modalità e circostanze del fatto; il Legislatore ha ionfatti introdotto a conclusione dell’art. 274 c.p.p. che “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede” (nella lettera c, si precisa che tale preclusione valutativa opera “anche in relazione alla personalità dell’imputato”).

– la custodia cautelare in carcere sarà disposta solo per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione nel massimo non inferiore ai cinque anni e per il reato di finanziamento illecito ai partiti.

Anche l’art. 275 c.p.p. – già modificato per effetto del D.L. 92/2014 che estendeva il divieto di applicazione della custodia in carcere alle ipotesi in cui la valutazione prognostica del giudice procedente consenta di quantificare in meno di tre anni la pena detentiva da irrogare all’esito del giudizio – è stato ulteriormente modificato dalla Legge 47/2015. In particolare, il nuovo art. 275 c.p.p. sancendo l’applicazione della custodia cautelare in carcere solo in extrema ratio, al comma 3 recita: ”la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 270, 270 bis e 416 bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 600 bis, primo comma, 600 ter, escluso il quarto comma, 600 quinques e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609 bis, 609 quater del codice penale è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

Da una attenta lettura della nuova disposizione normativa si evince che l’applicazione della custodia cautelare in carcere è residuale rispetto alle altre misure, tanto che il nuovo comma 3 bis recita che “nel disporre la custodia cautelare in carcere il Giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 – bis, comma 1 (ovvero il “braccialetto elettronico) Nd.r.”.

Di fatti, l’introduzione del citato comma è volta ad incentivare il ricorso alla misura degli arresti domiciliari con l’applicazione del braccialetto elettronico spingendo il giudice a motivare l’inadeguatezza della predetta misura rispetto ad altri sistemi di controllo e, soprattutto, alla custodia cautelare in carcere.

Ancora, con la Legge 47/2015 il Legislatore ha modificato l’art. 275, comma 3, c.p.p. per effetto del quale la custodia cautelare in carcere potrà essere disposta solo laddove risultino inadeguate altre misure interdittive o coercitive: il carcere, quindi, diviene ESPLICITAMENTE l’ extrema ratio e le misure cautelari meno afflittive (gli arresti domiciliari, l’obbligo di presentazione alla PG, il divieto o l’obbligo di dimora, il divieto di avvicinamento e da ultimo il quasi mai applicato “braccialetto elettronico”), a differenza del passato, potranno essere applicate cumulativamente con l’effetto di aumentarne l’efficacia e, quindi, l’applicabilità.

Dal punto di vista pratico la riformulazione di alcuni e l’introduzione di ulteriori commi nei suddetti articoli dovrebbe contribuire soprattutto alla formulazione da parte dei magistrati di giudizi cautelari non standardizzati e con motivazioni di puro stile (quando non di vera e propria superficialità), ma modellati sul singolo caso concreto sia in ordine alla valutazione degli elementi a carico sia in ordine alla misura da applicare evitando così deprecabili e pericolosi automatismi che non dovrebbero trovare albergo nel nostro ordinamento costituzionalmente orientato.

(articolo redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla e dall’Avv. Elvira La Ferrera. Ogni diritto riservato).

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