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Pubblichiamo in questa categoria la delicatissima quanto incisiva e lodevole prefazione del libro “Il processo come arte” dell’Avv. D. Carponi Schittar (edito da Giuffrè) che chi scrive ha avuto l’onore di conoscere quale Docente in occasione di diversi corsi di aggiornamento.

Si tratta di un intervento che solo ad una prima lettura può apparire di colore ma che, invece, con l’abile accostamento del processo penale alla recitazione di una pièce teatrale ed alla celebrazione di una messa, comunica al lettore quale dovrebbe essere il ruolo, il contegno e la condotta umana e professionale dell’avvocato penalista nel processo penale.

Processo penale quale specchio della nostra società e – purtroppo – assai spesso rappresentazione di routine dove i protagonisti principali (il Giudice, il Pubblico Ministero e, appunto, l’avvocato penalista) perdono di vista il ruolo istituzionale che rivestono “in nome del popolo italiano”.

L’Autore tratteggia efficacemente lo squallido spettacolo delle udienze rumorose, spesso disorganizzate, ove i partecipanti (…anche l’avvocato…) non rispettano quelle che dovrebbe essere le norme (di educazione, rispetto, preparazione e decoro) proprie della “rappresentazione” del processo penale che altro non è se non la ricostruzione di un fatto umano spesso drammatico e sempre doloroso per chi lo subisce.

La prefazione è, quindi, non solo un’interessante riflessione; bensì una vera e propria guida del migliore approccio dell’avvocato penalista al processo penale  (magari impegnato in un Tribunale impegnativo come quello di Milano).

L’avvocato penalista, invero, ha il compito costituzionalmente sancito e protetto di difendere i diritti dell’imputato (e tanto è maggiore la gravità e la sociale riprovazione per l’accusa mossa tanto maggiore sarà il pericolo della lesione dei diritti inviolabili dell’essere umano/accusato e più gravoso sarà il compito del difensore) e tale specialissimo dovere passa necessariamente – anche ma non solo – per il rispetto della forma del processo penale poiché solo con un’irreprensibile condotta in aula l’avvocato penalista getterà le basi per un’efficace difesa.

Lo Studio legale e l’avvocato devono necessariamente informare e supportare il cliente fin dal momento dell’inizio del processo rendendo edotto l’assistito (anche) degli aspetti formali del processo e delle regole che lo disciplinano.

Un avvocato che si presenta senza il rispetto della dovuta e necessaria “etichetta” nel processo penale e – evenienza ancora più censurabile e dannosa – preparato solo superficialmente o addirittura impreparato (sia a livello teorico che in relazione al processo in cui sta patrocinando l’imputato), non solo farà una pessima figura e nuocerà al proprio Cliente, ma “processo dopo processo” nel medesimo Tribunale (anche di dimensioni ragguardevoli come quello di Milano) acquisirà una pessima fama che lo precederà.

Certo, come detto, l’etichetta non potrà sopperire al difetto di argomentazioni tecniche; ma sicuramente l’avvocato che ben riveste (o interpreta che dir si voglia) le proprie funzioni nel processo penale potrà giovarsi di un quid pluris in termini di credibilità che, sicuramente, avvantaggerà l’assistito.

IL PROCESSO COME ARTE
LINEE GUIDA PER UN’EFFICACE ATTIVITÀ FORENSE
di Domenico Carponi Schittar

Allo stesso modo della messa cristiana e, ma solo in parte, allo stesso modo della rappresentazione di un’opera teatrale, anche il processo si fonda su una finzione condivisa (il neretto è del Redattore Ndr).
Si tratta, nei tre casi, con riguardo a diversi valori, ad effetti differenti e avendo come obiettivo risultati da collocarsi su piani del tutto autonomi tra loro, di aspetti diversificati di un unico fenomeno di cui, nella diversità, ricorrono sia tratti comuni che, ove se ne elabori una visione schematica, un unico percorso attuativo.
Tratti e percorso quanto ai quali mi sembra non si rifletta sufficientemente sul fatto che alla fine di essi è riscontrabile un elemento unificatore costituito dal fatto che l’apprezzamento del risultato va commisurato al livello raggiunto dalla concorrente soddisfazione dei concelebranti e del pubblico. Soddisfazione che, in diverso grado e avendo considerazione per l’avvenuto raggiungimento di finalità non omogenee nei tre casi, costituisce uno degli scopi – non il minore – di tutte tre le manifestazioni.
Un pubblico che deve uscire da una messa esaudito nelle proprie intime aspettative di purificazione ed elevazione; dal teatro appagato nel proprio bisogno di emozioni e commozione; dal processo soddisfatto non soltanto quanto alla propria esigenza di credere che effettivamente il colpevole sia riconosciuto tale e l’innocente sia proclamato tale ed esca a testa alta dal superamento della sua amara, sempre lunga e per lo più costosa prova, ma anche quanto alla speranza che il sistema non sia incorso in errore quanto ai ruoli o alle qualità dell’uno o dell’altro soggetto, “innocentando” un reo o punendo un galantuomo.
In tutti e tre i casi può accadere che il risultato voluto dalla “istituzione” e attesi dai concelebranti e dal pubblico sia ottenuto. In tutti tre i casi può anche accadere che le rappresentazioni non colgano l’obiettivo.
Questo può essere dovuto a una condizione connaturata alla celebrazione: la commemorazione di un santo di poco conto sul quale c’è poco da dire e che lascia indifferenti i fedeli; una pièce povera nella sceneggiatura o nella musica; un processo attorno a una vicenda di nessun interesse condiviso.
Tuttavia se questa situazione può essere frutto di delusione per il pubblico, non deve verificarsi la conseguenza di veder rotto il fronte comune che lo stesso compone con i concelebranti. Infatti, se questo accadesse e si ripetesse per un certo numero di volte, ne riceverebbe scapito – difficilmente rimediabile; comunque sempre in tempi lunghi – la credibilità della rappresentazione e, con essa, il senso di continuare a produrne contando, erroneamente, di assolvere a una funzione socialmente utile.
Il che significa che i fedeli devono uscire dalla messa senza averne ricavato particolare conforto, ma quanto meno compiaciuti per l’addobbo della chiesa, per i cori ben intonati, per lo sforzo messo dal sacerdote nell’impartire una bella predica. Gli spettatori dovranno uscire dal teatro lodando l’impegno degli attori ben diretto pur criticando il copione. Quanto al pubblico del processo, lo stesso dovrà lasciare l’aula giudiziaria incredulo sul risultato quanto a una vicenda non ben compresa, e tuttavia consapevole che è stato fatto tutto quanto era possibile ed era dovuto per chiarirla.
Se questo non avverrà, e tanto più se questo non avvenisse quando ce ne fosse materia (la celebrazione del Natale; un Amleto o una Bohème; un processo a un “mostro di Firenze”), non vi saranno concorrenti nel fallimento del rito: la responsabilità del fiasco sarà da ascrivere meritatamente ed esclusivamente – e, visto l’ambito in cui scrivo, senza attenuanti – ai concelebranti.
Concelebranti quanto al cui apporto individuale al risultato della loro rappresentazione va tratta qui una distinzione fondamentale.
Nella messa la regia è prefissata e, data la natura conservatrice del rito, quanto più ne vengono ripetitivamente e meticolosamente osservate le regole tanto più viene assicurata la probabilità di positività del risultato.
Nella rappresentazione teatrale pesa il ruolo del regista che è normalmente distinto da quello degli attori e può essere svolto sia determinando il contesto in cui essi si muovono sia influenzandone la recitazione.
Nel processo la situazione è radicalmente diversa in quanto il prodotto deve fare i conti con una contenuta anarchia che gli è strumentale. Infatti ogni concelebrante è al tempo stesso attore e regista di se stesso. Ogni attore determina, guida e realizza la propria parte. Ossia nel processo ciascun attore si trova posto di fronte alla concorrente ma anche contrastante esigenza di auto dirigersi e di esprimersi acquistando una visibilità che gli consenta di imporsi sugli altri comprimari e tuttavia conservando una misura che favorisca l’armonico concorso del contributo celebrativo offerto a tutti costoro unitamente.
Non è facile e le regole di procedura non sono da sole atte ad assicurare che quell’armonioso concorso avvii alla produzione del miglior processo. Esse vanno integrate da un ingrediente fatto di sensibilità individuale e di sentimento sociale: l’educazione al rito e per il rito.
Facile non è perché questo lavorio, fatto anche di (apparente) improvvisazione (ma direi piuttosto: di rapida elasticità di adattamento a evoluzioni del momento), è calcolato in un contesto di regole dal carattere, invece, anelastico.
Non lo è perché non siamo sufficientemente consci di questo peculiare e recondito aspetto del processo.
Non lo è anche perché non entriamo nell’ordine di idee di disciplinarci ed accettare, preferiamo continuare a ignorare o comunque trascuriamo il fatto che il processo è anche e non in piccola parte, un momento importante di ammaestramento sociale…anche soltanto attraverso la esternazione delle sue forme.
Non lo è perché trascuriamo di renderci conto del fatto che se da una sala di teatro nella quale si è assistito a una tragedia mal recitata si esce delusi per la serata insoddisfacente il cui biglietto è stato pagato a caro prezzo, da un processo celebrato male si esce portandosi dentro un deposito di diseducazione e di disistima per le istituzioni. Una diseducazione diffusiva perché coinvolge che ne ascolterà il resoconto e farà da passaparola, chi ne leggerà le cronache spesso invitate a nozze nel far risaltare perplessità e critiche, chi avrà occasione di passare la serata vedendo trasmettere dalla televisione ampi brani del processo atti sovente a evidenziare squallore dei luoghi, banalità di battibecchi, inadeguatezza della recitazione, concelebranti che non danno la sensazione di essere all’altezza della gravità dei lori compiti e delle loro funzioni e addirittura delle prerogative che circondano queste e quelli.
I media educano, diseducano, influenzano. Pensando al processo dovremmo riflettere attentamente, per trarne appropriate conclusioni sul da farsi e sul modo di farlo, che quel che di esso conosce il cittadino laico – ossia l’extraneus al mondo giudiziario, che costituisce forse il 90% degli spettatori – è soprattutto quanto costui ha visto al cinema o alla televisione (e forse più di una volta) in film quali “Presunto Innocente”, “Codice d’Onore”, “Philadelphia”, “Il Verdetto”, “Testimone d’Accusa” (film dei quali in talune scuole di diritto non si disdegna di fare oggetto di studio): ossia nel meglio del meglio: – in fatto di spettacoli aventi per punto focale il processo – quanto a copione, scenografia, regia e recitazione.
Nel confronto con essi tutto quanto egli vede “in diretta” non può che essere di qualità inevitabilmente inferiore e dobbiamo ammettere con noi stessi che quella diretta riporta una realtà che è sovente molto prossima al deprimente umorismo del “Un Giorno in Pretura” di Peppino De Filippo. Anche perché esso si cala su un deposto esperienziale già negativo costituito dal desolante, quanto incivile, spettacolo di “rissa meta giudiziaria” di tipo calcistico offerto dai media che hanno trovato un incontrastato terreno fecondo di ore di programmazione nella precelebrazione dei processi in prima o seconda serata.
Di qui l’enfatizzazione dell’effetto diseducativo di un processo reale che, non potendo comunque aspirare ad avere i numeri per essere uno spettacolo d’eccezione, non lasci trapelare neppure l’impegno per fornire una decorosa rappresentazione adeguata a realizzare una dignitosa celebrazione.
È quel che accade troppo sovente.
Prima di licenziare questo capitolo, mi reco appositamente in un qualsiasi giorno di udienza in un’aula di uno dei nostri tribunali per trovare la prova della eccessività della mia critica (ma soprattutto della mia delusione comparando quello cui assisto troppo spesso a quello che ho potuto osservare senza eccezioni in Paesi vicini) e ravvedermi e mitigarla, e mi accade – pur nella casualità della scelta – di assistere ad un processo di non secondaria importanza visto che si occupa di fatti che parevano superati col passare della stagione delle tangenti.
Qui colgo invece solo una occasione per frustranti conferme: quella di osservare tutto quello che non si dovrebbe fare e vedere in un’aula di udienza nella quale si operi credendo che il processo sia davvero un “rito” e, conseguentemente, si ritenga che la “forma” non si esaurisca in austeri motti quali quello portato nella scritta “la legge è uguale per tutti” e nella formula conclusiva del processo “in nome del popolo italiano”.
Il processo cui assisto non è a porte chiuse. Il che viene interpretato non nel senso che chiunque sia legittimato ad accedere all’aula, bensì in quello che la porta dell’aula debba restare spalancata. Ma poiché, peraltro, nessuno si occupa di quanto avviene all’esterno, il vociare maleducato di quanti sono nell’androne penetra nell’aula violandone la tranquillità.
Ordine e tranquillità che sono altresì violati dall’andirivieni di soggetti – in maggioranza, ma non esclusivamente, avvocati – interessati ad altri processi o sfaccendati o intenzionati a parlare con chi si trova già nell’aula.
Il pavimento è in legno. L’andirivieni non è discreto. Soprattutto i tacchi delle calzature femminili si fanno sentire senza reticenze.
Chi entra o esce scambia saluti con i presenti, come farebbe in un salotto, ma come non farebbe a teatro nel corso della recitazione. Se il quisque deve definire alcunché, al saluto segue una conversazione; per lo più sottovoce, ma tre o quattro o cinque conversazioni a bassa voce fanno un brusio che, quando è continuo, diventa il ronzio di un alveare.
Come avrò occasione di stigmatizzare ripetutamente (visto che per me sono ormai più di quarant’anni che vedo ripetersi il fenomeno), segretari e cancellieri sono colti non occasionalmente da irresistibili impulsi di conferire col giudice proprio durante il dibattimento per informarlo di fatti estranei al processo o fargli sottoscrivere qualcosa. Solo talora si assiste alla lodevole reazione di un giudice che allontana gli importuni sottraendosi alle loro interferenze; generalmente, invece, il giudice si distrae per occuparsi del disturbatore e tuttavia, nel contempo, spesso invita le parti a continuare negli esami o controesami, nelle requisitorie o arringhe.
Mi guardo attorno e nel caso concreto, procedendo “gerarchicamente” rilevo:
– che il presidente del collegio è munito di una bottiglia di acqua minerale dalla quale attingerà, di tanto in tanto, per dissetarsi,…ma non da un bicchiere;
che nessuno dei componenti il collegio indossa la facciola;
– che un giudice a latere non reca la cravatta e tiene il colletto della camicia generosamente sbottonato;
che la toga del pubblico ministero e quella di uno dei difensori hanno i cordoni slabbrati e senza fiocchi che ciondolano dalla manica; una ha il bavero scucito.
Tutto questo riguarda aspetti se vogliamo puramente scenografici dell’udienza. Meno scenografico è il fatto che l’inizio della stessa fosse fissato per le ore 9.30 – pur essendovi in ruolo nove processi – e tuttavia essa venisse “aperta” alle 10.15. Meno scenografici ancora sono il susseguirsi di incertezze e l’impressione di confusione che caratterizzano la distribuzione dell’ordine nel quale saranno celebrati i processi.
In ogni caso – si tratti del bere dalla bottiglia, dei cordoni sfilacciati, del cadere dal mondo delle nuvole nell’affrontare le semplici problematiche dell’organizzazione dell’udienza – la “severa maestà della legge” va a farsi benedire.
E questo soltanto grazie alla corale insensibilità dei concelebranti.
Ha senso, in tale degradata situazione, parlare del processo come arte e avere la presunzione di indicare come si potrebbe realizzarne uno avente l’ambizione di toccare quella vetta?
Sostengo che ha senso e che l’impegno consapevole di ognuno di noi potrebbe contribuire fortemente a renderlo tale. Anche a mezzo dell’esempio.
Ma farlo comporta prima una presa di coscienza del problema e delle sue implicazioni, quindi un mea culpa, poi un elevato senso di responsabilità verso la collettività e verso il valore “Giustizia”, infine un grande impegno anche in direzione della coerenza.
Affrontare tale problema è degno della elevatezza della professione dell’avvocato cui, calato come massicciamente è in ogni aspetto della vita sociale, non possono essere estranee e indifferenti funzioni educative della stessa. Avvocato che, se il risultato della rappresentazione è squallido o anche solo insoddisfacente, deve, in qualità di concelebrante, assumersi la propria porzione di responsabilità per il fallimento…
Salvo che dalla stessa il pubblico esca, come da teatro, quanto meno commentando che la “pièce” è stata un fiasco tranne per la condotta di colui che ricopriva il ruolo del difensore.
Per poca che sia la soddisfazione, almeno non ci sarà nulla, da avvocati, di cui doversi rimproverare.

***

Lo Studio Legale dell’Avvocato Giuseppe de Lalla di Milano offre all’assistito la migliore informazione circa le regole dello svolgimento del processo penale affinché l’assistito (imputato o persona offesa) ed il testimone possano partecipare (ed affrontare) il processo conoscendone le formalità ed i tempi. L’attenta informazione è necessaria per una cosciente partecipazione di ogni soggetto interessato al processo penale.

Lo Studio dell’Avv. de Lalla assicura una difesa attenta e preparata nei minimi dettagli finalizzata ad assicurare la migliore tutela dei diritti dell’assistito nel processo penale.

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