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Il tema della responsabilità medica è divenuto con il tempo attualissimo (praticamente di pari passo con l’innovazione tecnologia del settore sanitario e le sempre maggiori aspettative di vita – anche in termini di qualità della stessa – degli utenti/pazienti), ed è oggi materia di specializzazioni ad hoc oltre che di seminari di approfondimento, incontri di aggiornamento (spesso tra medici legali e operatori del diritto) il tutto con grande interesse anche da parte di esperti non giuristi.

Esiste ed è quanto mai attuale anche un profilo pubblicistico che riguarda le conseguenze penali che l’attività medico-sanitaria può produrre.

È a questo profilo che dedicheremo alcune osservazioni focalizzando l’attenzione sul soggetto – ovvero l’accusato – a cui l’ordinamento contesta la commissione del reato (come detto, in campo sanitario).

Gli illeciti strettamente connessi con la professione medica sono principalmente quelli di lesioni (gravi e gravissime) e omicidio colposo (ma non sono gli unici).

Vi sono casi di esercizio abusivo della professione medico-sanitaria, falso ideologico, abuso d’ufficio, rifiuto di atti di ufficio e sequestro di persona (in alcuni rari casi).

Un breve cenno meritano i reati “classici”  della resposnabilità medica ovvero le lesioni personali l’omicidio colposo che, di solito, sono contestati con l’imputazione soggettiva della colpa, ovvero per negligenza, imprudenza, imperizia (colpa generica) oppure per violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica) e (assai) più raramente per dolo.

Sostanzialmente, l’accertamento della colpa in campo penale si sostanzia nella ricerca e nell’individuazione di una connessione qualificata (ovvero di un nesso causale) tra la condotta colposa e l’evento danno (lesione o morte) che si verifica.

La condotta contestata al sanitario (sia che si tratti di condotta commissiva ovvero un comportamento tenuto, che omissiva ovvero una condotta che non è stata adottata) deve essere accertata quale causa dell’evento infausto occorso al paziente.

Devono cogliersi, quindi, le interazioni tra quanto si verifica (evento dannoso) e le regole di comportamento che il sanitario doveva osservare, nonché l’evitabilità dell’evento, l’attitudine della prescrizione non osservata a proteggere in concreto il paziente dal rischio.

Fondamentale non è solo l’uso della logica (ovviamente, tanto più trattandosi di un campo – quello sanitario – ad altissima specializzazione) ma anche l’ausilio di informazioni scientifiche che possano far comprendere agli operatori del diritto che svolgono ruoli diversi e antagonisti (pubblico ministero, giudice, avvocato difensore) e che sono digiuni da nozioni scientifiche, quanto gli eventi siano – realmente – addebitabili al sanitario accusato.

E’ di intuitiva evidenza quanto nel campo della resposnabilità medica (sia nell’ottica della difesa che dell’accusa privata o pubblica) sia fondamentale l’apporto di periti e consulenti tecnici che possano illusutrare (a Giudici e avvocati) i termini scientifici della fattispecie oggetto del giudizio; tanto più oggi come oggi che la medicina ha assunto un elevatissimo grado di specializzazione e complessità

Ovviamente, anche per il difensore queste informazioni (che, lo si ripete, possono essere veicolate al professionista solo da un consulente specializzato all’altezza della complessità della materia) sono essenziali per meglio operare strategie difensive con l’obbiettivo della migliore tutela degli interessi dell’assistito (persona offesa o imputato che sia).

Quando si discute di reato omissivo (ovvero si contesta la verificazione di un veneto danno o omortale al sanitario per non aver prestato le cure invece necessarie), quale può essere quello di lesioni per omissioni, dovute all’assenza di qualche attività ritenuta invece doverosa in capo al sanitario, deve accertarsi il nesso di causalità tra l’omissione contestata ed evento dannoso.

Tale elemento – ovvero il nesso causale tra omissione e lesione/morte – deve essere vagliato secondo il parametro dell’alta probabilità logica (e non solo statistica), con la conseguenza che si configura l’evento lesivo – che il sanitario avrebbe avuto l’obbligo di impedire – quando tale evento non avrebbe avuto luogo o avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva qualora le cure ritenute necessarie e doverose fossero state prestate dal sanitario (si tratta del ragionamento denominato “previsione postuma”).

Anche somministrando un farmaco, il medico può incorrere in responsabilità penale quando dall’assunzione del medicamento conseguano lesioni o morte per il paziente. Occorre però – anche in questo caso –  accertare il nesso di causalità tra la somministrazione del farmaco e l’evento letale ovvero per ricondurre causalmente l’evento morte alla prescrizione del medico. Per attuare tale processo di ricostruzione logica (ovvero dato un evento – di morte o lesioni – ricercare se lo stesso è dipeso da una causa ipotizzata come nota) deve essere individuata una legge generale di copertura che chiarisca e illustri la relazione tra presupposti (nell’esempio: la somministrazione del farmaco) ed eventi, senza dimenticare la sensibilità soggettiva del paziente avverso un componente del medicinale, sensibilità che può essere nota o ignota al medico (anche in questo caso colposamente o meno).

Responsabile per lesioni può essere anche il medico di base che – per colpa – non indirizzi il paziente da uno specialista o non prescriva quegli accertamenti diagnostici necessari a rivelare con prontezza una patologia nella quale il fattore tempo abbia un ruolo fondamentale (si pensi, in particolare, alle malattie oncologiche o a quelle cardiache acute) e che possono essere efficacemente guarite o sensibilmente attenuate con un tempestivo intervento medico (che dalla precoce diagnosi discende).

Il medico è titolare di una c.d. posizione di garanzia nei confronti del paziente e deve perseguire con scienza e coscienza un unico fine: la cura del malato. L’attività del professionista sanitario si caratterizza per la libertà di cura e l’attenzione al caso clinico concreto con cui si deve misurare. Le linee guida in campo medico (ovvero le indicazioni generali in letteraturca scientifica per quel preciso tipo di patologia) assolvono allo scopo di orientare l’attività del medico il quale, però, deve considerare sempre le esigenze concrete del “suo”paziente avendo riguardo anche al fatto che, talvolta, le linee guida hanno una matrice economico-gestionale e si pongono in contrasto con alcune peculiari necessità del malato.

L’osservanza o inosservanza delle linee guida non determina (né esclude) automaticamente la colpa del sanitario.

Le linee guida rappresentano sì un valido ausilio scientifico per il medico che con queste si deve confrontare; ma non fanno venir meno l’autonomia del professionista nelle scelte terapeutiche: la scienza medica, non basandosi su protocolli a base matematica, è suscettibile di molteplici influenze e spesso anche soluzioni potenzialmente ugualmente efficaci di tal che il medico è spesso chiamato ad operare delle scelte che, in ogni caso, sono caratterizzate da un elevato (se non – come spesso accade – elevatissimo) tasso di soggettività.

Dal punto di vista del giudizio sulla colpa del medico, il Giudice investito di un giudizio penale deve valutare (ovviamente coadiuvato da uno o più periti del settore) se l’osservanza (o il discostamento) del medico dalle linee guida di riferimento avrebbe evitato il fatto che si contesta al sanitario (lesioni, morte) ovvero se le circostanze del caso concreto imponessero o meno di adeguarsi alle predette linee guida.

Sulla correlazione tra osservanza delle linee guida e colpa del sanitario, il decreto Balduzzi emanato dal Governo nel 2012 ha affermato il principio per cui la condotta del sanitario che si sia attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, se connotata da colpa lieve, non ha rilevanza penale anche in presenza di esiti infausti.

Resta intangibile (anche dal c.d. decreto Balduzzi) la responsabilità per colpa grave e, ovviamente, quella per dolo. La Cassazione, con una sentenza recentissima ha affermato che la nuova normativa ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie colpose riferite al sanitario. È importante notare che la depenalizzazione della colpa medica lieve opera anche rispetto ai processi pendenti in forza del principio che vuole retroattiva la legge penale più favorevole per il soggetto accusato (principio del favor rei).

Tuttavia, la depenalizzazione non neutralizza la via del risarcimento del danno, secondo i principi del diritto civile.

In ogni caso, preso atto delle conseguenze che una condanna penale può rivestire per la professione del medico e i suoi effetti sull’intera vita professionale dello stesso, è chiaro che escludere la colpevolezza penale (in presenza di una colpa lieve e che come tale deve essere provata al Giudice) è obiettivo che la difesa deve perseguire in via privilegiata.

Il medico, infatti, se ritenuto colpevole in sede penale, può subire anche una misura cautelare interdittiva che riguarda la sospensione dell’esercizio della sua attività professionale. In materia di misure cautelari interdittive la valutazione dell’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione di delitti analoghi a quelli per cui è processo, deve essere ispirata all’esame delle concrete modalità di commissione del fatto-reato e ai parametri di legge adottati per valutare la personalità del soggetto autore di reato.

Il pubblico ministero – ad esempio – può chiedere l’applicazione della misura interdittiva della sospensione temporanea dall’esercizio dell’attività professionale di medico in capo al sanitario su cui gravi un’imputazione provvisoria di omicidio colposo. (e, quindi, in fase di indagine senza che non si sia ancora accertata la fondatezza dell’accusa mossa al sanitario).

Ad esempio, è stata riconosciuta legittima la misura interdittiva inflitta al sanitario accusato (e non ancora condannato) di aver provocato il decesso della paziente a causa della violazione delle regole della lege artis, perché aveva effettuato un tipo di intervento in presenza di circostanze che suggerivano l’adozione di altre tecniche, eseguendo l’operazione in modo gravemente imperito, non apportando i necessari trattamenti delle lesioni provocate dall’intervento stesso, nonostante ne avesse consapevolezza e, infine, colpevole di non aver diagnosticato, anche dopo l’intervento, le ragioni del quadro gravemente precario delle condizioni di salute della donna. Secondo la Cassazione – anche in fase cautelare – devono essere esaminate e apprezzate compiutamente le concrete modalità di commissione del fatto-reato nonché gli elementi idonei ad evidenziare la personalità del soggetto accusato, tra cui il grado della colpa (ovvero la valutazione del grado di difformità della condotta dell’autore rispetto alle regole cautelari violate, il livello di evitabilità dell’evento e il quantum di esigibilità dell’osservanza della condotta doverosa pretermessa), nonché altri elementi quali le modalità di svolgimento dell’attività professionale da cui poter far discendere (o meno) una prognosi di reiterazione di quei comportamenti da cui è conseguita la lesione dei beni vita e salute del paziente.

In ambito di attività sanitaria di equipe, il chiruro, se non controlla l’attività preoperatoria, è responsabile anche dell’attività e delle omissioni del medico anestesista. Il principio, noto sotto il profilo civilistico della responsabilità civile, è particolarmente oneroso dal punto di vista penalistico. La Giurisprudenza pare costante nell’affermare che il medico chirurgo è responsabile dell’attività del collega anestesista poichè al primo (ovvero al chirurgo) compete (in ogni caso) la verifica delle condizioni di adeguata preparazione preoperatoria del paziente, comprensiva del profilo anestesiologico, nel complesso delle valutazioni da compiere in vista dell’esecuzione dell’intervento chirurgico.

Non solo.

La posizione di garanzia del responsabile dell’equipe chirurgica si estende al contesto post operatorio. Il momento immediatamente successivo all’intervento chirurgico – ha affermato la Cassazione – non è separato dall’operazione.

Pur non rivestendo una posizione apicale, il capo equipe ha un oggettivo dovere di vigilare sull’operato dei collaboratori non solo nella fase chirurgica, ma anche in quella post-operatoria: la posizione di garanzia che riveste riguarda la complessità della situazione medica e del quadro clinico del paziente. Le esigenze di cura e di assistenza devono essere verificate e valutate alla luce della peculiarità dell’intervento operatorio e al suo andamento in concreto: il capo equipe deve vigilare sul complesso di tali situazioni, perché tale circostanza (la doverosa e scrupolosa supervisione) potrà escludere la resposnabilità penale del sanitario per aver omesso condotte e prestazioni che – se correttamente svolte – avrebbero avuto possibilità (o la rilevante probabilità) di evitare il danno verificatosi.

Anche il medico specializzando è potenzialmente penalmente responsabile in sede penale per l’attività sanitaria svolta: se ritiene di non essere in grado si svolgere un’attività secondo le istruzioni del tutore, deve rifiutarsi di compierla. Se non lo fa, a suo carico, è ravvisabile la c.d. colpa per assunzione, con la conseguenza che sussiste responsabilità professionale sia per il medico strutturato che per lo specializzando che non abbia rifiutato di svolgere un compito che non era in grado di svolgere correttamente quando dalla sua attività deriva un danno per il paziente.

Il medico specializzando, infatti, non costituisce una mera presenza passiva in un contesto sanitario essendo la sua presenza nella struttura ospedaliera (pubblica o privata) finalizzata non solo alla formazione professionale.

Egli è laureato in medicina e chirurgia (e, quindi, fino a prova contraria, depositario di un opportuno  – ancorchè non specializzato – bagaglio si scienza, coscienza e professionalità) e gode di una certa (seppur limitata) autonomia. Ne segue che non può, dunque, essere considerato un mero esecutore degli ordini del tutore. Lo specializzando, inoltre – ed è l’aspetto più significativo – se non è (o non ritiene di essere) in grado di compiere certe attività, deve rifiutarne lo svolgimento perché altrimenti se ne assume la responsabilità. Risulta dunque applicabile al medico specializzando il principio della c.d. colpa per assunzione, per il quale, chi – dopo aver assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo la diligenza richiesta all’agente modello di riferimento – cagiona un danno se ne assume la responsabilità.

In ambito medico-sanitario non è raro che un soggetto privo della qualifica di legge (ovvero del titolo che abilita all’esercizio della professione medica) esegua e metta in pratica trattamenti che per la loro natura possono essere attuati solo dal medico.

Il fenome è conosciuto ed in espansione: dai trattamenti estetici, ai piani alimentari con la somministrazione di preparati galenici precrivibili solo dai medici, alle cure odontoiatriche svolte da soggetti non qualificati.

Vi sono casi in cui il soggetto agisce in difetto di qualsivoglia titolo abilitante e casi in cui si crea una certa confusione di ruoli e professionalità, come il caso dell’assistente alla poltrona di uno studio dentistico e dell’odontotecnico che, all’interno di uno studio dentistico, con la complicità del titolare, pongono in essere atti medici riservati alla competenza esclusiva dell’odontoiatra.

Può accadere che venga contestato dall’accusa un concorso di persone a causa della collaborazione – attiva o passiva – posta in essere tra più persone per conseguire il proposito criminoso.

Al contrario, è prospettabile la connivenza non punibile quando l’agente mantiene un comportamento meramente passivo, non idoneo a fornire un contributo causale alla realizzazione del reato, mentre c’è concorso quando vi è un contributo partecipativo – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui caratterizzato dalla coscienza e volontà di arrecare un apporto concorsuale all’illecito materialmente compiuto da altri.

Esemplificando, rischia una condanna l’assistente che assuma iniziative terapeutiche partecipando attivamente alla redazione del piano di cure e che si qualifica come medico ai pazienti.

Il privato danneggiato non può opporsi alla richiesta di archiviazione.

È inammissibile il ricorso in Cassazione proposto dai querelanti, privati cittadini, che si erano visti dichiarare inammissibile l’opposizione alla richiesta di archiviazione nel procedimento penale contro un accusato di aver esercitato abusivamente la professione medica.

Occorre a questo proposito tornare sulla distinzione tra persona offesa – quindi legittimata a proporre opposizione avverso una richiesta di archiviazione – e persona (solo) danneggiata dal reato.

Il reato dell’art. 348 c.p. punisce la condotta di chi eserciti determinate professioni – per le quali è prescritta apposita abilitazione – senza titolo abilitativo, tra cui la professione medica.

Titolare della posizione protetta è unicamente la Pubblica Amministrazione mentre – solo di riflesso – sono coinvolti gli interessi professionali di categoria, ma “giammai i privati cittadini, eventualmente e solo possibili danneggiati ma non già persone offese“.

Come distinguere la persona offesa dalla persona danneggiata, posizione che talvolta è sovrapponibile alla prima?

Per indicare il soggetto passivo del reato il codice penale e il codice di procedura penale utilizzano anche l’espressione “persona offesa dal reato“. Quando la locuzione è usata nel Codice di procedura, il significato è diverso perché il reato cui ci si riferisce non è l’illecito penale, ma il reato in senso processuale, vale a dire l’ipotesi (oggetto di verifica nelle forme e nei modi stabiliti dal diritto processuale penale) che un reato sia stato commesso.

I diritti che il Codice di procedura penale riconosce alla persona offesa dal reato si possono riferire solo ipoteticamente a un illecito penale. Inoltre, la nozione di “persona offesa” è più ampia di quella di “soggetto passivo“, come dimostrano la disciplina della querela, che talora è attribuita a soggetti che non sono titolari del bene giuridico offeso dal reato (non sono, dunque, persone offese in senso proprio) e quella della legittimazione dei c.d. enti esponenziali, ossia degli “enti e (del)le associazioni senza scopo di lucro ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato” a “esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla per-sona offesa dal reato” (art. 91 c.p.p).

Danneggiato dal reato è colui che dal reato riceve un danno risarcibile, sia esso patrimoniale o non patrimoniale.

Può non coincidere con il soggetto passivo del reato.

Ad esempio, in un delitto di omicidio, soggetto passivo è colui che viene ucciso; danneggiati sono i familiari della vittima.

Il danneggiato può costituirsi parte civile nel processo penale ai fini del risarcimento del danno subito oppure può chiedere il risarcimento in separato giudizio civile.

Nel reato di rifiuto o omissione di atti di ufficio, il soggetto attivo del reato non può essere “chiunque”, bensì solo un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che deve compiere un atto per “ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità”. Il reato appartiene al novero dei delitto contro la pubblica amministrazione e, nello specifico, dei reati commessi dai pubblici ufficiali (o soggetti equiparati).

Per questo, si parla di “reati propri”.

Tra questi soggetti è compreso l’esercente professione medico-sanitaria alle dipendenze di una strutturta pubblica.

Di recente è stata affermata la responsabilità di un medico cardiologo per il reato di omissione di atti d’ufficio per essersi rifiutato di effettuare una consulenza cardiologica urgente sul paziente ricoverato in altro reparto della struttura ospedaliera.

L’indagine sulla responsabilità per questo tipo di reato deve riguardare esclusivamente il profilo del dolo del rifiuto, cioè la consapevolezza del contegno omissivo serbato dal medico, senza valutazioni che sconfinino nel campo della responsabilità/colpa sanitaria e quindi sulle conseguenze, probabili o certe, del rifiuto dell’atto richiesto.

Il rifiuto del medico non sempre è ingiustificato e, quindi, fonte di illecito.

La Giurisprudenza ha ritenuto legittimo il rifiuto del medico di base di effettuare visita a domicilio, quando la richiesta di intervento riguardava una sintomatologia riconducibile a nota sindrome patita e curata da anni. Legittimo è il rifiuto di visita quando il medico di guarda prescrive per telefono un antibiotico per curare la febbre alta; da valutare è il rifiuto di ricovero ospedaliero secondo i canoni della indifferibilità, non essendo – in automatico – illecito ogni mancato ricovero.

Infatti, la nota dolente della fattispecie è il significato da dare alla locuzione “senza ritardo” o “urgente” o “indifferibile”. Per risolvere la questione, occorrerà far emergere tutti gli elementi concreti del caso, così da avere un quadro esaustivo nel quale possano individuarsi aspetti che, complessivamente valutati, siano tali da acclarare se la discrezionalità tecnica eventualmente opposta dal sanitario a giustificazione del suo comportamento omissivo (ovvero del rifiuto) sia stato legittimamente opposto o meno.

Si tratta di attività difensiva in senso ampio, estremamente delicata perché si cammina sul terreno impervio delle scienze mediche, in cui un ruolo assolutamente fondamentale avranno anche i consulenti tecnici che il difensore dell’accusato dovrà nominare ed interpellare sin dal momento della fase delle indagini preliminari, nonchè in sede di investigazioni difensive, e anche durante il processo nella fase dell’istruzione dibattimentale.

Un altro reato riconducibile all’esercente professione medico-sanitaria è quello del falso ideologico.

Si pensi alla cartella clinica che può essere manomessa con la conseguente configurabilità del falso in atto pubblico.

Il soggetto danneggiato dal reato (di solito il paziente intestatario della cartella clinica o i suoi prossimi congiunti) è legittimato a costituirsi parte civile nel processo per falso in atto pubblico affiancando così la pubblica accusa.

Le ragioni a fondamento di tale possibilità sono da ravvisarsi nelle ipotesi in cui l’atto falso sia di per sé idoneo ad ostacolare l’individuazione del soggetto responsabile della lesioni degli interessi della persona offesa. Questo principio è stato affermato in un procedimento ove vi era stato un intervento chirurgico non riuscito: all’accusa per omicidio colposo si andava ad aggiungersi quella di falso in atto pubblico. Gli operatori avevano manipolato la cartella clinica facendo risultare la presenza di un medico piuttosto che di un altro (che, peraltro, non aveva titolo perché specializzando presso altra struttura) così integrando gli elementi oggettivi del reato di falso.

Sebbene il reato di falso (tanto più in atto pubblico) riguardi i rapporti con lo Stato, la Cassazione nel caso citato ha riconosciuto che i privati il diritto a costituirsi parte civile perché i fatti di reato ostacolavano la corretta individuazione della responsabilità dei fatti lesivi accorsi al paziente verificatisi durante l’intervento chirurgico.

In definitiva, essendo tutte fattispecie di reato molto gravi quelle addebitabili al medico nell’ambito dell’esercizio della sua professione, ma soprattutto quelli che attentano alla sua professionalità, quali le lesioni e l’omicidio, è indispensabile affidarsi prontamente ad un difensore perché si verifichi lo stato del procedimento, si valuti l’opportunità di procedere ad investigazioni difensive e siano nominai di uno o più consulenti tecnici esperti nella disciplina medica oggetto della vicenda.

Questi elementi, unitamente al dialogo e al confronto con il proprio difensore, sono gli ingredienti fondamentali per una difesa che, partendo dagli atti del procedimento (anche nella sua fase iniziale), abbia quale obbietivo la migliore tutela sia dell’incolpato (o, del danneggiato).

(Con la collaborazione della Dott.ssa Annalisa Gasparre)

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