Skip to content

I c.d. reati di genere sono quelle condotte criminali agite per lo più ai danni di determinate categorie di vittime.
Particolarmente noti sono quei reati di genere che solitamente sono commessi in danno delle donne e, specialmente, da soggetti maschi legati alle persone offese da relazioni sentimentali in essere (sebbene, ma non necessariamente, deteriorate) oppure già terminate o in quella fase (assai frequente e che può anche essere permanente) di interruzione e ripresa (anche perché le relazioni umane e grandemente quelle sentimentali, anche se piuttosto ripetibili nei loro schemi, sfuggono ad una catalogazione semplificata come è quella di “inizio” e “fine”).

Una esauriente nozione di reato di genere (femminicidio e violenza domestica in particolare) è data dall’art. 3 della Legge n. 119/2013: uno o più atti gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persona legate attualmente o o in passato da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva in corso o pregressa, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”

Sebbene le statistiche in Italia non siano aggiornatissime (V. sul punto “Guida al diritto” pag. 12 del n. 47 del 23 novembre 2013 articolo di Andrea Alberto Moramarco), il 30% degli omicidi nel nostro paese ha come vittime le donne e nel periodo dal 1° agosto 2012 al 31 luglio 2013 le donne uccise sono state circa 150. Inoltre, l’83,3 per cento degli omicidi commessi dal partner è stato commesso da uomini mentre ben il 100 per cento di quelli commessi  dagli ex partner sono stati commessi sempre da uomini.

I reati in questione sono diversi ed i principali (ma l’elenco non è che semplificativo) sono:
I maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p.;
La violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p.;
Gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p. (l’ormai famigerato ed arcinoto stalking);
La violenza sessuale in tutte le sue forme ex art. 609 bis e ss. c.p..
Naturalmente, si tratta di ipotesi di reato commettibili in danno di soggetti anche maschili ed agibili anche tra persone che non hanno (o non hanno avuto) alcun legame sentimentale; ma statisticamente sono molto più numerosi i casi che rientrano nella richiamata categoria dei reati di genere.

Negli ultimi anni si è assistito ad un preoccupante aumento dei casi di reati compiuti in danno di donne dai propri compagni (ed ogni volta che qui mi riferirò ad una relazione sentimentale tra vittima ed offender saranno compresi anche quei rapporti interpersonali sentimentali non meglio definibili sia in atto che pregressi) sebbene la violenza di genere non sia certo appannaggio solo di questa epoca (e della nostra società).
Ad oggi, infatti, il fenomeno è divenuto un vero e proprio problema sociale ovvero un accadimento che:
– per numero di episodi;
– interesse dei mass media;
– (conseguenti iniziative) del Legislatore;
– percezione sociale diffusa (non sempre del tutto corretta)
interessa con sempre crescente diffusione e forza ampi settori dell’opinione pubblica e, appunto, della società.
La percepita diffusione dei reati commessi in danno delle donne non trova spiegazione solo ed esclusivamente nel mero aumento numerico degli stessi; ma anche dalla maggiore attenzione che i mezzi di comunicazione riservano a questo triste fenomeno e dall’interesse che coinvolge sempre più massicciamente l’opinione pubblica.
Si tratta di un processo a carattere circolare (non esclusivo appannaggio dei reati di genere) caratterizzato dalla reciproca influenza di vari settori della società civile: la cittadinanza, i mass media ed il Legislatore.
A ciò si aggiunga che, effettivamente, l’ininterrotto processo di sempre maggiore autonomia ed indipendenza delle donne, i “nuovi” strumenti processual/penali forniti dal Legislatore, la crescente informazione delle vittime, la rinnovata preparazione degli operatori (polizia, avvocati, magistrati, medici e operatori del sociale) uniti allo spazio dedicato al tema dagli organi di stampa e televisione, hanno contribuito a portare alla luce (e, quindi, a traghettare avanti ad un Giudice) una buona percentuale del “sommerso” dei reati di genere che fino a qualche anno addietro sarebbe rimasta confinata all’interno delle mura domestiche o nell’ambito della relazione tra i soggetti coinvolti.

Il cammino del nostro ordinamento ad una gestione (non limitandoci a considerare la sola repressione) dei delitti di genere potenzialmente efficace ed al passo con alcuni tra i paesi europei più all’avanguardia in questo campo (in primis l’Inghilterra ed i Paesi Bassi) è stato piuttosto lungo ma ha avuto una robusta accelerazione negli ultimi anni.
Tralasciando in questa sede le motivazioni prettamente culturali di questo ritardo (trattazione che sarebbe assai utile ed interessante anche per comprendere al meglio certe dinamiche tra vittima e autore del reato di genere ma che esula dal tema di questo articolo), dal punto di vista prettamente giuridico mi piace in citare l’esimia Collega Avv. Luisella De Cataldo Neuburger che ha paragonato il nostro ordinamento giuridico ad un signore costretto a trascinarsi appresso nel suo viaggio un bagaglio molto pesante: il diritto italiano è caratterizzato (e forse, appunto, anche appesantito) da millenni di storia e di prassi di ineguagliabile profilo e pregio ma che, se da una parte ci ha reso (e lo cito senza retorica) la culla del diritto, dall’altro ci ha condizionato rendendo il nostro ordinamento (basato sulla codificazione e non sul precedente) difficilmente permeabile alle novità legislative, giuridiche e giudiziarie quantomai opportune per evitare un pericoloso scollamento tra insopprimibili esigenze normative dei tempi in corso e diritto vivente.

Peraltro, i reati di genere – come approfondiremo più vanti – sono spesso contraddistinti da una relazione circolare tra vittima e autore grandemente influenzata proprio dalla cultura diffusa in quel preciso contesto storico nonché (altrettanto spesso) consumati con modalità fino a qualche decennio addietro semplicemente inimmaginabili (mi riferisco in primis a tutte quelle condotte criminali – ad esempio sussumibili sotto lo stalking – agite per mezzo e sul web).
Se dovessi indicare una data precisa della prima previsione codicistica del reato di genere nel nostro ordinamento (sebbene già prima di quella data si utilizzasse ampiamente tale termine con il medesimo significato odierno), sicuramente sarebbe il 23 febbraio 2009 data dell’entrata in vigore del Decreto Legge n. 11 (convertito con modifiche dalla Legge n. 38/2009) che introduceva nel nostro ordinamento il reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p..
Tale norma – oggi conosciutissima (spesso approssimativamente) anche se relativamente giovane – è stata, a mio parere, il frutto di un grande sforzo del Legislatore per la tutela della donna/vittima di reato di fronte alla necessità di fornire al diritto (rectius: alla vittima ed agli operatori del diritto) uno strumento formalmente valido ed efficace per la repressione di una delle forme più insidiose e gravi (in certe sue manifestazioni) della violenza di genere (violenza che, prima della norma in questione, non trovava, di fatto, baluardo alcuno nel codice penale fino a quando non causava esiti irrimediabili per la persona offesa al contrario di quanto avveniva già negli anni ’80 nell’ordinamento statunitense già dotato ai quei tempi di appositi istituti).
Probabilmente, con una riflessione di più ampio respiro, antecedentemente al 2009 la prima avvisaglia nel nostro codice penale della volontà del Legislatore di reprimere in maniera più energica ed al passo con i tempi i reati di genere si ebbe nel 1996 con la Legge n. 66 che riscrisse il reato di violenza sessuale e lo consacrò quale delitto contro la persona o non già contro la morale.
Complici anche le convenzioni internazionali (mi riferisco, ad esempio, a quella di Lanzarote e di Istanbul che trattano, anche ma non solo, alcuni aspetti tipici dei reati di genere – anche contro i minori e non solo le donne -), il nostro ordinamento, nel solo arco di un anno (!), si è dotato di una disciplina assai peculiare e prettamente finalizzata alla repressione ed alla prevenzione del reato di genere con l’introduzione di innovazioni sia sostanziali che procedurali di una portata quasi sconosciuta ad altri interventi legislativi in ambiti altrettanto sensibili.
Il decreto Legge n. 93/2013 e la successiva Legge di conversione n. 119/2013 sono, invero, caratterizzati da soluzioni del Legislatore assai peculiari tutte tese (sia quali novità procedurali che di diritto penale sostanziale) ad una organica trattazione dei reati commessi in danno (soprattutto) delle donne (marcatamente, ma non solo, in ambito intrafamiliare e sentimental/relazionale) con il chiaro intento di arginare e reprimere la violenza di genere.
In altre pagine del sito (alle quali rinvio per non ripetermi) ho analizzato specificatamente le innovazioni che qui si richiamano e citerò solo a titolo di esempio:
l’aggravante della relazione affettiva attuale o passata tra agente e vittima;
le aggravanti dovute allo strumento informatico utilizzato per la commissione del reato;
la remissione della querela solo in sede processuale per lo stalking;
l’allungamento fino a sei mesi del tempo per proporre la querela sempre in tema di atti persecutori;
l’obbligo di notifica dell’avviso di conclusione delle indagini in caso di reati contro la persona riconducibili ai reati di genere;
l’obbligo di notifica della richiesta al Giudice di revoca o modifica della misura cautelare che grava sul difensore dell’indagato/imputato;
l’obbligo di notifica per il PM della richiesta di archiviazione nel caso dei reati di cui si tratta (anche senza preventiva istanza in tal senso della persona offesa);
la corsia preferenziale di trattazione (ovvero più spedita) per i reati di genere;
l’obbligo che grava sul PM di continua informazione alla persona offesa vittima dei reati di genere;
l’obbligo di arresto in flagranza per le ipotesi di maltrattamenti in famiglia.

Dunque, una disciplina ad hoc caratterizzata (nel bene e nel male) da una impronta emergenziale.
Del resto, lo accennavo, il reato di genere ha alcune peculiarità del tutto tipiche che necessitano di un analisi mirata per la migliore attuazione del diritto.
Tali peculiarità devono essere ben presenti a tutti coloro che istituzionalmente sono chiamati ad amministrare la Giustizia nelle varie fasi del procedimento penale: forze di Polizia, magistratura e difensori.
Alcuni tratti caratteristici dei reati di cui si tratta sono immediatamente focalizzabili e costituiscono quelle criticità che richiedono un approccio ad hoc:
– spesso vittima e agente sono uniti o sono stati uniti da una relazione sentimentale (ho richiamato più volte questo particolare che rappresenta davvero il primo e forse più importante discrimen dei reati di genere e dal quale discendono più o meno direttamente tutti gli altri) ed altrettanto spesso è la vittima che – più o meno consapevolmente – coopera con l’offender nella consumazione del reato in un continuo scambio di feedback che alimentano sia la condotta criminale che la vittimizzazione della persona offesa (soprattutto nel caso di quei reati caratterizzati da una durata protratta nel tempo come i maltrattamenti in famiglia o gli atti persecutori);
– persona offesa e accusato fanno parte spesso della medesima famiglia ed il reato deflagra durante una separazione in sede civile coinvolgendo anche i figli minori o altri familiari (di sovente i genitori delle parti principali);
– proprio l’esistenza dei figli minori implica che persona offesa e accusato non possano interrompere immediatamente ed in maniera radicale i loro rapporti personali con ulteriori occasioni di consumazione di altri reati (e sul punto hanno grande rilevanza le misure cautelari che impongono quasi sempre all’uomo di abbandonare il domicilio familiare e di non avere più contatti, non solo con la moglie, ma anche, indirettamente, con i figli minorenni);
– spesso la vittima ha un atteggiamento ed un approccio al denunciato reato (e anche nei confronti dell’accusato) molto ambiguo combattuta tra la volontà di far cessare il reato compiuto in suo danno ed il rimorso per aver denunciato la persona con la quale ha vissuto una relazione sentimental/affettiva (oltre, magari, ad essere genitore dei suoi figli);
– altrettanto spesso l’energico intervento del Magistrato è invocato dall’asserita vittima con scopi marcatamente strumentali al solo fine di ottenere quanto reclamato in sede di separazione personale avanti al Giudice civile;
– l’offender, animato da un irrefrenabile desiderio di rivalsa, rivendicazione, possesso e vendetta, agisce sotto l’effetto di un impulso incontrollabile al cospetto del quale la minaccia di gravi sanzioni penali e del carcere non ha alcun effetto deterrente (e da manuale sono quei casi, purtroppo assai frequenti, nei quali l’agente dopo aver annientato l’esistenza della vittima si suicida o si consegna alle forze dell’ordine);
la vittima vittimizza a sua volte l’agente con uno scambio serratissimo di denunce e querele (più o meno fondate) ove l’obiettivo ultimo non è più la tutela dei propri diritti ma piuttosto la “lesione giudiziaria” di quelli del contendente (i tribunali sono letteralmente intasati da procedimenti penali scaturenti da denunce di coniugi o ex coniugi che non desiderano altro che farla pagare cara a colui/colei con il quale un tempo – magari nemmeno remoto – condividevano tutto);
– la consumazione del reato può derivare da una lettura diametralmente opposta da parte di vittima ed agente di una medesima situazione di fatto e là ove l’agente crede di limitarsi ad una serrata corte o al tentativo di riconquistare l’amata, la persona offesa si sente vittima di una condotta gravemente persecutoria (peraltro, il fraintendimento è possibile in ogni situazione “a due” e nel caso di uomo e donna che interagiscono è viepiù possibile preso atto delle differenti modalità di interazione e comunicazione. Vedi sul punto – tra le altre pubblicazioni in tema di fraintendimento comunicativo di genere – “Sapersi esprimere”, Giuffrè Editore, di Luisella De Cataldo Neuburger e Guglielmo Gulotta);
– le forze di polizia ed i Magistrati indotti ad intervenire sull’onda di una normativa recente (e dai caratteri emergenziali, come detto) e pressati dalle aspettative e dall’emotività che accompagna ogni caso di cronaca giudiziaria, possono spesso cadere vittime della c.d. visone a tunnel che determina un atteggiamento verificazionista con maggior evidenza ed apprezzamento degli elementi a carico dell’accusato piuttosto che di quelli che depongono a favore della sua posizione.

Un difesa tecnica efficace di colui che è accusato di un reato di genere (ma anche l’assistenza professionale della persona offesa), non può prescindere da tutte le problematiche che in questa sede abbiamo appena accennato.
E’ necessaria, dunque, un’attenta visione d’insieme di ogni circostanza ed il difensore non può e non deve intervenire analizzando solo ed esclusivamente i risvolti prettamente giuridici del caso che gli viene affidato consapevole che la posizione giudiziaria del proprio assistito dovrà essere gestita con un approccio più ampio rispetto a quello richiesto per altre fattispecie di reato.
Basilare in tale ottica è la trial consultation ovvero la collaborazione dell’avvocato con uno o più esperti in psicologia forense al fine di analizzare ogni aspetto metagiuridico della vicenda ed ogni atto documentale processuale e di indagine con l’apporto specifico di un esperto per la migliore comprensione e valutazione:
– di ogni aspetto dell’accadimento storico oggetto della contestazione mossa all’accusato;
– della credibilità e l’attendibilità della persona offesa;
– dell’approccio della vittima rispetto alle accuse contestate;
– della credibilità ed attendibilità di eventuali testimoni;
– della condotta dell’accusato (antecedente e successiva all’accusa lui mossa ovvero al sua versione degli accadimenti oggetto dell’accusa).

(Articolo redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla. Ne è vietata la riproduzione e l’utilizzo)

Torna su
Cerca