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Solitamente la commissione di un reato si realizza con la successione di fasi diverse che culminano nella verificazione del fatto/reato.
Le diverse fasi dell’iter criminoso – la cui individuazione teorico/pratica è fondamentale per lo studio e la comprensione del tentativo nel diritto penale – si susseguono solitamente senza interruzioni e si possono così definire:
fase della ideazione: si svolge nel foro interno del soggetto agente quando lo stesso si determina a commettere un reato. Siamo in una fase ancora antecedente alla stessa premeditazione. Si tratta della raggiunta convinzione da parte dell’agente (ancorché nemmeno del tutto lucidamente apprezzabile dallo stesso interessato) di determinarsi a infrangere la legge senza che tale progetto abbia avuto alcuna manifestazione nella realtà. Il diritto penale prevede – in generale – che la mera ideazione di un crimine senza che la volontà criminosa abbia riflesso alcuno nella realtà NON sia punibile. Non importa quanto grave sia il crimine “immaginato”: se il delitto “rimane” nella mente del soggetto senza che vi sia alcuna trasformazione della realtà fattuale a seguito di atti o fatti concreti, il diritto penale non prevede punizione alcuna.
Il tentativo sarà punito come tale solo e solamente nel momento in cui l’ideazione si realizza – anche solo in parte – nella realtà dal momento che il c.d. principio di offensività (base fondamentale del nostro diritto penale) esige che siano punibili solo gli atti agiti e non anche quelli solamente ideati, immaginati e/o programmati ma mai, nemmeno in parte, eseguiti.
– Fase della preparazione: si tratta della vera e propria organizzazione del reato e, in quanto tale, è concettualmente possibile solo per i reati dolosi ovvero effettivamente voluti dall’agente e non già per quelli colposi (dal momento che, ovviamente, non vi può essere preparazione alcuna per fatti reato non voluti dall’agente ma allo stesso ascrivibili a titolo di colpa);
– Fase dell’esecuzione: è quella specifica della realizzazione della condotta criminosa (che, in quanto tale, può essere di varia durata e presentarsi anche come permanente ovvero protratta nel tempo per un intervallo anche assai dilatato);
– fase della consumazione: ovvero della materiale realizzazione di tutti gli elementi previsti dalla norma quali elementi costitutivi del reato.

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Nel nostro ordinamento è considerato punibile a titolo di tentativo il soggetto allorquando la sua intenzione criminosa si sia effettivamente tradotta in un comportamento di esecuzione del reato (ovvero in una fase successiva alla mera ideazione e a partire da atti di organizzazione che abbiano trovato manifestazione concreta nella realtà fattuale) tale che gli atti commessi si presentino idonei a realizzare la fattispecie criminosa determinando così la probabile (ed imminente) lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice.
Il tentativo, dunque, consiste nella volontà a commettere un reato a condizione che tale volontà si traduca in una azione diretta a commettere il reato programmato, azione che tuttavia rimane senza successo per cause indipendenti o dipendenti (è il caso della c.d. desistenza volontaria) dalla volontà del soggetto agente.
Gli atti di cui sopra devono essere idonei a realizzare il reato ovvero atti a porre – quantomeno – in pericolo il bene giuridico (il diritto) protetto dalla norma incriminatrice: nel caso di tentato omicidio (ad esempio), gli atti manifestazione della volontà omicida devono essere tali da porre in pericolo il bene giuridico “vita” per la difesa del quale il Legislatore ha previsto il crimine, appunto, di omicidio.
Si tratta della c.d. teoria oggettiva secondo la quale il fondamento politico criminale della punibilità del tentativo è costituito dall’ esposizione a pericolo dei beni protetti.
Invero, dal punto di vista oggettivo il tentativo incide in maniera più limitata sui diritti della vittima costituendo una lesione di grado inferiore rispetto alla consumazione del reato e, da, qui, il Legislatore ha previsto un trattamento sanzionatorio più lieve rispetto al delitto consumato.
Diversamente, sarebbe punibile la mera ideazione di un fatto illecito (e, così, il pensiero diverrebbe reato) o l’esecuzione di azioni del tutto innocue (con il conseguente inaccettabile “processo alle intenzioni”).

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L’art. 56 del codice penale che disciplina il tentativo statuisce che: chi compie atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.
Analizzando la norma (il primo comma dell’art. 56 c.p.) si possono individuare le seguenti componenti del tentativo:
1) l’intenzione criminosa;
2) l’incompiutezza;
3) l’idoneità degli atti (ovvero della condotta dell’agente);
4) l’univocità degli atti.

1. L’intenzione criminosa.
Dal punto di vista meramente soggettivo (ovvero nell’ottica di colui che agisce) il tentativo esige che via sia piena intenzione di commettere il delitto.
Colui che agisce deve avere come fine ultimo la consumazione del crimine.
La componente soggettiva dell’agente è del tutto sovrapponibile a quella di colui che porta a termine l’azione criminosa.
Il primo comma dell’art. 56 c.p. non prevede alcuna volontà specifica e propria del tentativo; la volontà è quella di commettere il reato che l’offender ha ideato e progettato.
Bisogna sottolineare che il tentativo non deve essere inquadrato quale forma attenuata del reato perfettamente consumato.
Il tentativo, al contrario, è una forma autonoma e perfetta di reato che si realizza dal combinato disposto dell’art. 56 c.p. (che, come abbiamo visto, disciplina il tentativo) e la norma che prevede il reato consumato (ad esempio: artt. 56 c.p. e 575 c.p. disciplina la figura perfetta del tentativo – art. 56 c.p. – di omicidio volontario – art. 575 c.p. -).

2. l’incompiutezza (ovvero la duplice natura dell’incompiutezza).
Il codice penale prevede due forme di incompiutezza che caratterizzano il tentativo (evidentemente l’incompiutezza – nella sua duplice forma sotto evidenziata – dell’azione criminosa, ovvero la circostanza che la stessa non produca i sui effetti, è il “nocciolo” del tentativo):
– la prima ipotesi prevede che l’azione non si compia (pensiamo sempre al reato di omicidio perpetrato per mezzo di un’arma che si inceppa);
– la seconda ipotesi prevede che l’azione si compia ma l’evento non si verifichi (l’arma spara ed il colpo attinge la vittima in una zona vitale ma il decesso è scongiurato dal pronto intervento dei sanitari).

3. l’idoneità degli atti.
Il giudizio circa l’idoneità della condotta del soggetto a realizzare il crimine consumato deve essere effettuato in concreto.
Ovvero, ogni singola volta in cui sia necessario verificare se una data condotta è punibile a titolo di tentativo, sarà doveroso da parte del Giudice valutare se, nello specifico, quella data condotta posta al vaglio del suo giudizio abbia posto effettivamente in pericolo il diritto protetto dalla norma penale ovvero se – in concreto – quella azione avrebbe potuto raggiungere lo scopo criminoso sanzionato dalla norma.
Ad esempio, la somministrazione di un farmaco potenzialmente innocuo (come l’aspirina) diviene una condotta potenzialmente omicida se l’agente la propina ad un soggetto che sa essere gravemente allergico al principio attivo del medicamento.
Al contrario, non sarà considerata punibile quale tentato omicidio la condotta di colui che, pur animato da intenzioni assassine, esploderà dei colpi di arma da fuoco verso un soggetto talmente distante da essere assolutamente al di là del tiro utile dell’arma utilizzata.
La condotta dell’agente per essere sanzionata a titolo di tentativo (alla luce della richiamata idoneità), quindi, deve essere analizzata in tutti i suoi aspetti concreti ovvero considerando se – valuta ed esaminata ogni evenienza realizzatasi effettivamente – essa sia stata tale da mettere concretamente in pericolo il bene protetto dalla norma incriminatrice.

4. L’univocità degli atti.
Finché l’atto esterno (ovvero la condotta dell’agente) è tale da poter condurre sia alla commissione del reato sia ad una condotta del tutto lecita, difetterà l’ulteriore requisito del tentativo della univocità.
L’univocità è una caratteristica (e come tale deve essere analizzata e giudicata) oggettiva della condotta.
Saranno ritenuti idonei a formare il tentativo solo quegli atti che – analizzati nel contesto in cui sono inseriti – possiedono l’attitudine a denotare il proposito criminoso obbiettivo dell’agente.
L’azione sarà ritenuta univoca solo quando è giunta ad uno stadio tale da far ritenere ad un osservatore esterno che il fine ultimo a cui è diretta è la commissione di un reato essendo assolutamente improbabile che l’agente la interrompa volontariamente o la “indirizzi” verso un fine non illecito.

Dal punto di vista sanzionatorio, il tentativo prevede che la pena sia quella del reato consumato diminuita da un terzo a due terzi.
Nel caso di reati punti con l’ergastolo, con una pena non inferiore a dodici anni.

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La desistenza ed il recesso attivo.
Come visto, il tentativo – dal punto di vista dell’agente – prevede che lo stesso abbia l’intenzione di consumare perfettamente il reato e che ciò non avvenga (perchè l’evento non si verifica o l’azione non si compie) per motivi che non dipendono dalla volontà di chi agisce (che, come detto, al contrario, desidererebbe affinché le conseguenze del reato fossero perfette).
Il codice prevede però – rispettivamente al terzo ed al quarto comma dell’art. 56 – due figure particolari di tentativo nelle quali, in generale, non si verificano le conseguenze del reato per un “ripensamento” dell’agente che interrompe o pone nel nulla la condotta delittuosa fino a qual momento agita.

Si tratta delle ipotesi così dette della desistenza e del recesso attivo.

La desistenza prevede che l’agente interrompa volontariamente la condotta delittuosa prima che la stessa sfoci nella consumazione del reato ovvero che si siano verificate le conseguenze del crimine.

Nel recesso attivo l’offender mette in pratica una “controcondotta” in modo da evitare che si produca l’evento criminale finale (la differenza con la desistenza è, quindi, che l’agente non si limita ad sospendere la sua attività ma ne pone in essere una successiva atta a porre nel nulla quella fino a quel momento agita che avrebbe portato alla consumazione del reato).

Nel tentativo “normale” gli effetti nefasti ed illeciti del reato non si perfezionano e non giungono a compimento per cause esterne ed estranee alla volontà dell’agente (che ha in animo la consumazione del reato); mentre nelle due figure appena viste (con maggiore forza logica e pratica nel recesso attivo) il reato non si verifica poiché così desidera il soggetto.
Desistenza e recesso attivo sono due istituti assolutamente premiale poiché il Legislatore in entrambi i casi prevede una risposta sanzionatoria oltremodo vantaggiosa:
– nel caso di desistenza il soggetto agente risponderà solo se e per gli atti compiuti qualora gli stessi siano da soli considerati reato;
– nel caso di recesso attivo il reo risponderà per la pena prevista per il delitto consumato diminuita in misura maggiore rispetto alla figura “base” di tentativo (ovvero da due terzi alla metà rispetto alla pena per il reato consumato).

Non deve stupire che la condotta attiva di colui che si industria per impedire l’evento sia punita più aspramente di quella del soggetto che si limita ad interrompere la propria condotta potenzialmente criminale.
Invero, nel rispetto del principio dell’offensività (vedi sopra) e della necessaria concreta (ed oggettivamente rilevabile) pericolosità delle azioni inquadrabili quali tentativo, il Legislatore ha inteso punire più duramente quelle condotte che sono ad uno stadio tale da richiedere un interevento attivo (anche se effettuato dallo stesso responsabile) affinché non si traducano nella realizzazione perfetta del reato (e che, quindi, hanno realizzato un pericolo concreto per il bene protetto).
Evidentemente, nel caso della desistenza, il reo (potenziale) arresta la propria condotta prima ancora che sia necessaria una azione “uguale e contraria” per porre nel nulla gli effetti della sua azione ovvero in un momento in cui la modificazione della realtà è stata innocua e priva di conseguenze non essendosi realizzato alcun iter causale diretto alla consumazione del crimine.
Da qui il diverso trattamento sanzionatorio.
In riferimento ai due istituti di cui sopra, occorre segnalare che è del tutto irrilevante dal punto di vista giuridico qualsiasi considerazione sui motivi che inducono il soggetto a desistere o a recedere: non ha alcuna importanza né il pentimento né ogni altra forma di resipiscenza.
Occorre solo che la condotta sia volontaria ovvero che non sia coartata da fatti ed evenienze (ad esempio l’arrivo della polizia o la reazione della vittima) che avrebbero in ogni caso implicato l’interruzione del processo criminoso.

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