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Pubblichiamo in queste pagine un interessante e recentissimo articolo redatto dalla Dottoressa Alice Del Pero, psicologa Forense, in forze presso lo Studio Legale dell’Avv. Giuseppe Maria de Lalla quale consulente per l’attuazione della migliore trial consultation (Vedi nel sito) ovvero il contributo interdisciplinare volto ad assicurare la più proficua assistenza legale.

L’elaborato ripercorre la storia e l’evoluzione del c.d. “femminicidio” quale delitto di genere assurto alla cronaca con sempre maggiore evidenza, soffermandosi sull’aspetto psicologico del fenomeno dal quale non si può prescindere nell’organizzazione della linea difensiva.

Fondamentale è l’approccio – non solo legale – ma anche di natura prettamente psicologica nello studio di una linea difensiva per reati (come lo stalking, i maltrattamenti in famiglia, la violenza sessuale ed anche l’omicidio) che nella stragrande maggioranza dei casi vedono la vittima e l’offender legati da una relazione interpersonale (di natura amorosa/sentimentale ma non solo).

Tale tipo di analisi della fattispecie (congiunta: legale e psicologica) è necessaria (sempre ed in ogni caso si che difensore assista la vittima che l’accusato)  per la comprensione di tutte le dinamiche che legano i protagonisti della vicenda che il Giudice dovrà giudicare.

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IL FENOMENO DEL FEMMINICIDIO: giurisprudenza, statistiche e psicologia.

Inquadramento giuridico internazionale e nazionale

L’antropologa e deputata messicana Marcela Lagarde ha concettualizzato il termine “femminicidio” come “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia“. Questa definizione fornisce un’accezione ben più ampia rispetto a come viene utilizzato comunemente il termine dai mass media, ed è maggiormente  descrittiva di un fenomeno che nell’ultimo ventennio (e più) vede nelle donne una categoria specifica di vittima.

Donne, quindi, vittime non solo di efferati omicidi, per i quali sarebbe più corretto utilizzare il termine femicidio“, ma di un più ampio spettro di violenze fisiche e psicologiche, maltrattamenti e discriminazioni che, mi sia consentito dirlo, FINALMENTE, provocano nella società, meno patriarcale di un tempo, sdegno, rifiuto e dissenso.

Non è un caso che una definizione così ampia e specifica del fenomeno sia stata concettualizzata da una donna messicana. È infatti proprio verso lo Stato del Messico che la Corte Intramericana per i Diritti Umani, presieduta per la prima volta nella storia da una donna, la magistrata Cecilia Medina Quiroga, ha pronunciato una sentenza storica nel 2009, conosciuta come la “Sentenza di Campo Algodonero”, riconoscendo lo Stato Messicano responsabile per non aver adeguatamente prevenuto la morte di tre giovani donne: Laura Berenice Monàlez (17 anni) nel settembre 2001 non era più tornata a casa al termine del lavoro; Claudia Ivette Gonzàlez (20 anni) nell’ottobre 2001 arrivò al lavoro con 2 minuti di ritardo e per questo non fu fatta entrare e da allora nessuno la vide più; Esmeralda Herrera Monreal (15 anni) sparì mentre rientrava a casa dal lavoro sempre nell’ottobre del 2001. I loro corpi furono ritrovati in un campo di cotone, insieme ad altri 5, nella periferia di Ciudad Juarez.

Per la prima volta nella storia del diritto internazionale uno Stato venne ritenuto responsabile per i femicidi avvenuti sul suo territorio, riconoscendo quindi un’identità giuridica al concetto stesso di femminicidio. Questi tre casi sono stati identificati come rappresentativi di una situazione strutturale di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne sulla base del loro genere di appartenenza (Spinelli, 2011).

Da questa sentenza e sulla base del diritto internazionale consuetudinario, ne deriva che non è sufficiente per uno Stato astenersi dal commettere in prima persona violazioni dei diritti fondamentali delle donne, ma deve anche assolvere all’obbligazione di assicurazione la protezione di questi diritti sia de jure che de facto, quindi disporre un quadro normativo e politico di prevenzione e contrasto alla violenza verso le donne funzionale ed efficace a contrastare il fenomeno (Spinelli, 2011).

Per ciò che riguarda l’Italia, il termine “femminicidio” non ricorre nel codice penale, ma sono stati introdotti negli anni numerosi strumenti di prevenzione e tutela, non ancora sufficienti però a contrastare il fenomeno.

Recentemente (2013) il Capo dello Stato ha ritenuto che “il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica (…)”. Per questi motivi è stato promosso il Decreto Legge 14 Agosto 2013 n. 93, convertito con modifiche dalla Legge 15 Ottobre 2013 n. 119 che ha introdotto diverse modifiche al Codice Penale e al Codice di Procedure Penale inerenti a numerose fattispecie, tra cui quelle riferite alla violenza nei confronti delle donne.

In particolare diventa importante sul piano penale il rapporto affettivo esistente tra vittima e aggressore, a prescindere da matrimonio o convivenza. Si aggiungono aggravanti per la violenza sessuale commessa a danno di donne in stato di gravidanza o verso il coniuge, anche se il contratto matrimoniale è stato sciolto. Si prevede, inoltre, l’arresto obbligatorio in caso di flagranza del reato di maltrattamenti in famiglia e l’Autorità Giudiziaria può procedere all’applicazione di misure “precautelari” concernenti l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, monitorando l’autore di reato anche con l’uso di apparecchiature elettroniche che consentano un controllo più stretto dell’attuazione delle prescrizioni, nei casi di flagranza per i reati di lesioni gravi, minaccia aggravata, violenze e altri reati gravi.

Nello schema seguente si mettono in luce i nuovi apporti normativi inseriti al fine di contrastare il fenomeno del feminicidio, che, si vuole ricordare, riguarda qualsiasi forma di violenza, maltrattamento o discriminazione agita nei confronti delle donne in quanto donne.

Lo Stato ha inoltre stanziato 10 milioni di euro da utilizzarsi per azioni di prevenzione, educazione e formazione. In particolare, si menziona il c.d. “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” volto alla prevenzione di questi fenomeni, alla sensibilizzazione verso la collettività, anche tramite i mass-media e la promozione di centri antiviolenza e case-rifugio in cui è garantito l’anonimato.

Nonostante queste modifiche è necessario che lo Stato e l’Autorità Giudiziaria divengano un vero e valido mezzo di supporto nel fornire sicurezza alle vittime di abusi e condannino con ancora più decisione il femminicidio: solo in questo modo il numero oscuro di questo tipo di reati (mancate denunce) forse potrà diminuire. Troppe sono le donne che vivendo in un clima di terrore per gli abusi subiti e non essendo certe della protezione da parte delle Autorità continueranno a tollerare e nascondere le violenze subite.

Statistiche sul fenomeno

Il rapporto più completo a livello statistico sul fenomeno del femminicidio pubblicato nel nostro paese risale al 2013 ad opera dell’ EU.R.E.S., che ha confrontato i dati ottenuti sia con l’anno precedente, sia, in alcuni casi, con tutto il periodo 2000-2013.

I dati presentati dall’istituto di ricerca fanno spavento: 179 donne uccise nel 2013 con un incremento del 14% rispetto all’anno precedente (157 vittime), ovvero il 35,7% del totale delle vittime uccise in Italia (502 in totale). In pratica, quasi una donna uccisa ogni due giorni.

Delle 179 vittime, 22 rientrano nella categoria dei femminicidi per prossimità (amici, colleghi, vicini) e 28 sono vittime della criminalità, per la maggior parte donne anziane coinvolte in rapine.

Le restanti vittime, 122, rientrano nella categoria dei femminicidi familiari, ovvero 7/10. Rispetto all’anno scorso vi è stato un incremento del 16,2%. In 81 casi gli omicidi sono stati commessi dal coniuge o convivente (55), ex marito/partner (18) o da partner non conviventi (8).

L’arma con cui vegnono commessi i delitti è in 45 casi un’arma da taglio e in 49 una da fuoco. Il dato agghiacciante riguarda i 51 omicidi in cui la vittima viene uccisa a mani nude: in questi casi la causa del decesso è in 5,6% per percosse, nel 10,6% per strangolamento e nel 12,3% per soffocamento.

Il più delle volte il movente è passionale (504 casi tra il 2000 e il 2013), seguito dalla conflittualità quotidiana (20,8%) e dagli omicidi causati da interessi e denaro (16%). Un dato importante riguarda quest’ultima categoria che fa riferimento per lo più ai matricidi. Questa categoria di omicidi, forse a causa della crisi economica che costringe sempre più genitori e figli a vivere sotto lo stesso tetto per periodi maggiori, ha avuto un’impennata nel corso dell’anno 2013, passando dal 15,2% dei matricidi commessi nel 2012, al 18,9% nel 2013. Nel 91,7% dei casi l’assassino è il figlio maschio.

È stato calcolato che la maggior parte dei femminicidi in ambito familiare causati dalla rottura della relazione ha un epilogo tragico nel breve periodo: negli anni 2000-2013 sono stati circa 330 gli omicidi causati da separazione (in 121 casi vi era stata solo l’intenzione verbale comunicata al partner) e in quasi la metà di questi si è giunti all’omicidio nei primi 90 giorni dopo la separazione o la sua comunicazione. Vi sono però dati che dimostrano come il rancore possa scaturire anche molti anni dopo la separazione di fatto: nel 3,2% dei casi il femicidio è stato commesso dopo 5 anni dalla separazione.

Le statistiche dimostrano anche che spesso le denunce pregresse di violenza e maltrattamenti o minacce non sono state sufficienti a fermare la mano dell’assassino: nel 51,9% dei casi del 2013 le vittime infatti avevano già sporto querela per atti violenti perpetrati nei loro confronti; nel periodo 2000-2013 sono 193 le vittime di femicidio che hanno subito pregresse violenze prima di quella mortale definitiva.

Negli anni precedenti al 2013 la maggior parti di questi casi erano perpetrati al Nord, mentre nell’anno considerato dall’indagine vi è stato un aumento del 27,1% delle vittime nel Sud Italia e un raddoppio delle vittime nel Centro rispetto al 2012.

Lazio e Campania sono le regioni con il maggior numero di vittime (20), seguite da Lombardia (19) e Puglia (15). Mentre se si considerano le città è Roma ad avere il triste primato (11), seguita da Torino (9) e Bari (8).

Il contesto familiare come terreno fertile del femicidio risulta predominante in tutte e tre le zone d’Italia; al Sud spetta anche il primato per la maggior incidenza di femicidi per prossimità, ovvero commessi non nell’ambito familiare, ma da amici, vicini o colleghi (14,7%) e dovuti alla criminalità (18,7%).

In Italia, particolarmente attiva sul fronte dell’indagine ai fini preventivi, di supporto e di contrasto risulta il lavoro di ricerca svolto sulla carta stampata, a partire dal 2006, dalla “Casa delle Donne per non subire violenza” di Bologna.

Dati messi in luce da queste ricerche e non evidenziati in precedenza riguardano il luogo in cui spesso si consuma il femicidio: nella stragrande maggioranza dei casi (70%) si tratta dell’abitazione della vittima, o dell’autore o della casa in cui la coppia viveva. Un dato costante riguarda anche il suicidio dell’uomo che nel 2010 ha interessato 36 autori di femicidio (127 donne uccise nell’anno considerato).

La ricerca, inoltre, mette in luce un calo negli omicidi che hanno come vittima un uomo, in contrasto con la statistica dell’aumento delle vittime di omicidio per il genere opposto. Pur essendo una porzione minoritaria rispetto al numero di omicidi totale, il femicidio rappresenta un fenomeno in grande crescita. Inoltre, considerando il numero di omicidi totali di donne, non legati alla violenza di genere, emerge che il numero di femicidi rispetto al numero totale rappresenta circa il 75%, una percentuale davvero elevata. Questo dato dimostra che l’idea che la donna corra il pericolo maggiore al di fuori degli ambiti familiari è una mistificazione della realtà, essendo invece l’ambito relazionale-familiare quello in cui si annida per lo più la violenza verso le donne.

L’identikit dell’autore di femminicidio che risulta dalle ricerche non è per nulla in linea con l’immagine dell’uomo pericoloso, disagiato, straniero o poco inserito nella società. Spesso si tratta di persone insospettabili, quasi sempre italiani, cresciuti nello stesso ambiente sociale e culturale della vittima, considerati soggetti “normali”, senza alcuna caratteristica deviante. Risulta da alcuni studi, infatti, che molto spesso gli autori di femminicidi raramente riportano precedenti penali o hanno una storia criminale alle spalle, mentre spesso risultano avere un livello di istruzione elevato e un’occupazione. Si sottolineano però tratti personologici peculiari che rispecchiano il bisogno di possesso e la gelosia insidiosa, elementi questi assimilabili alle caratteristiche degli autori di violenze domestiche.

Fattori che influenzano l’incidenza del femicidio risultano essere le disuguaglianze economiche, la povertà, alcuni comportamenti devianti, come l’assunzione di alcool o droghe e il possesso di armi da fuoco. Questi elementi risultano fattori di rischio il cui peso varia secondo il contesto e non sono mai, da soli, la causa dell’agito violento.

È possibile eseguire delle valutazioni del rischio per riconoscere quelle situazione in cui sussiste un pericolo concreto che il femicidio si realizzi: Danger Assessment, ODARA (Ontario Domestic Assault Risk Assessment), SARA (Spousal Assault Risk Assessment). Quelli elencati sono tutti strumenti permettono la misurazione del livello di gravità dei singoli episodi di maltrattamento, al fine di fornire una valutazione globale del rischio situazionale, attraverso un questionario somministrato alla vittima in cui si valuta la presenza/assenza di determinati fattori considerati rilevanti statisticamente nei femicidi. In Italia il metodo SARA viene utilizzato per valutare la pericolosità del soggetto ed il suo rischio di recidiva.

Prospettiva psicologica e sociale del femminicidio

Le ricerche fin qui presentate e tutte le altre presenti nel panorama internazionale non sono adatte a comprendere a pieno il problema del femminicidio: si tratta per lo più di ricerche a livello statistico che non spiegano a fondo l’escalation del fenomeno.

Vi sono però numerosi autori che cercano di fornire una spiegazione del perché avvengono queste violenze e omicidi in un ambito come quello familiare, che dovrebbe rappresentare il luogo dove le famiglie possono sentirsi al sicuro.

A livello sociale sembra che il problema principale risieda nell’idea del “possesso”: l’uomo vede la donna come un oggetto di cui è il solo e unico possessore e non riconosce il diritto basilare della partner di autodeterminarsi e compiere liberamente le proprie scelte di vita. Nel momento in cui la compagna decide di liberarsi dall’oppressione del padre-padrone (rappresentato dal partner), l’uomo non è in grado di gestire le emozioni che accompagnano questa ribellione: l’aggressività viene agita come reazione all’incapacità di accettare e affrontare l’emancipazione della donna che con la sua condotta suscita sentimenti di inferiorità nell’uomo che vede messa in dubbio la propria virilità e il suo dominio patriarcale. L’agito violento scaturisce dalla necessità di ristabilire la propria posizione di predominio a causa di un’umiliazione che l’uomo sente di aver subito da parte della donna.

Proprio per questo motivo statisticamente la violenza maschile viene agita in modo definitivo quando le donne decidono di non continuare a rappresentare il supporto dei bisogni dell’uomo e iniziano a prendere decisioni in totale autonomia. Questa presa di posizione della donna viene vissuta come una messa in discussione del ruolo maschile, che causa sentimenti di inadeguatezza, fragilità e insicurezza, che l’uomo non è in grado di rielaborare e tollerare e generano l’accesso violento. Spesso questo avviene nel momento in cui la donna decide di porre termine alla relazione o comunica questa eventualità al partner: in questo momento il sentimento di “possesso” dell’uomo prende il sopravvento e agisce violentemente, facendo sì che “la sua donna non possa mai appartenere a nessun altro“. Come messo in evidenza da Michela Murgia (2011) però “morire per amore” non ha lo stesso significato per uomo e donna: cronaca e statistiche mettono in evidenza che l’uomo che muore per amore è soggetto della propria morte, si suicida, mentre la donna ne è oggetto, viene uccisa.

Oltre al costo umano della violenza di genere è da considerarsi anche il fenomeno del ciclo della violenza“. Troppo spesso il femicidio trova terreno fertile in situazioni di maltrattamento familiare in cui la violenza verso la donna viene agita di fronte e anche nei confronti della prole che interiorizza il principio dell’esternalizzazione della violenza come condotta normale e, una volta adulta, è altamente probabile che agisca allo stesso modo: i bambini diventati uomini si comporteranno come il padre, utilizzando la donna come mezzo per scaricare lo stress e la frustrazione; la bambina in età adulta potrà avere, invece, la tendenza a ricercare una figura maschile assimilabile a quella paterna e a subirne le violenze (Norwood), così come la madre tollerava quelle del padre. Ciò è stato ben descritto da Otto Kernberg: “Bambini maltrattati sviluppano maggiore dipendenza dai genitori abusanti e tendono a riprodurre i rapporti di maltrattamento nell’età adulta“.

Quindi la necessità di contrastare questo fenomeno negativo non è fondamentale solo per consentire il benessere e la possibilità di autodeterminarsi liberamente di ogni essere umano, ma anche per evitare la trasmissione intergenerazione della violenza, per non ripetere le stesse sconcertanti tragedie del presente.

Da ultimo si vuole segnalare come sovente gli episodi di violenze in famiglia siano operate da uomini con disturbi di personalità antisociale o borderline. Questo dato mette in luce come la causa scatenante della violenza possa essere anche non dipendente dall’emancipazione o dal rifiuto della vittima, ma collegata a problematiche psicologiche intrinseche nell’uomo. Per questo motivo sarebbe necessario affiancare ai numerosi sportelli d’ascolto e case famiglia disponibili verso le donne abusate altrettanti spazi di valutazione del rischio e trattamento degli autori di violenze che mettano il luce eventuali tendenze personologiche “a rischio” e che forniscano supporto per meglio controllare la rabbia e la violenza.

Negli ultimi anni in Italia sono stati aperti servizi per gli uomini maltrattanti, ma sono ancora troppo pochi e poco conosciuti: a Bollate (MI) presso il carcere si sta svolgendo una ricerca volta alla prevenzione dalla recidiva negli autori di reati sessuali; a Torino è presente uno sportello di ascolto del disagio maschile e vi è una cooperazione con i servizi sociali finalizzata anche alla gestione di gruppi di condivisione nei casi di violenze; a Firenze è nato lo sportello telefonico “centro ascolto maltrattanti” affiancato anche in questo a gruppi di condivisione terapeutici. Vi sono altri casi simili a questi e progetti in corso nelle città di Roma e Modena. Così come ogni trattamento verso una dipendenza, il primo passo per un uomo maltrattante verso la riconquista della propria “dignità di uomo” dovrebbe essere il riconoscimento dell’uomo dell’esistenza di un problema di gestione della rabbia e la successiva richiesta di aiuto a professionisti preparati per cercare di controllare il problema.

Per contrastare il fenomeno della violenza in generale e di quella di genere in particolare sono necessari, a fianco di questi servizi pubblici, una presa di posizione netta e improntata alla condanna di queste condotte da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica. In un momento storico come questo sarebbe necessario che i più grandi sostenitori del femminismo, in chiave di autonomia, libera determinazione e emancipazione delle donne, siano proprio gli uomini, quelli che hanno compreso che nessun essere umano ha il diritto di dominarne un altro per la sola presenza di una “Y” nel codice genetico.

Come dice una canzone dei Neri per Caso: “si può amare da morire, ma morire d’amore no“.

 

BIBLIOGRAFIA

Karadole C. (2012) Femicidio: la forma più estrema di violenza contro le donne. Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza. Vol. VI, n. 1, Gennaio-Aprile.

Murgia M. (2012) È morta, ma la vittima è lui. www.michelamurgia.com

Norwood R. (1990) Donne che amano troppo. Feltrinelli

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