Skip to content

I TEMPI.

L’art. 121 c.p.p. dispone che in qualsiasi stato, grade e fase del procedimento penale sia l’imputato che la persona offesa possono depositare direttamente al Giudice ed al PM memorie difensive.

Si tratta di una facoltà assai ampia e solidamente avvinta al diritto di difesa: con tale atto possono essere comunicati al Giudice (sia giudicante che inquirente) elementi e circostanze fino a quel momento ignoti a sostegno della propria linea difensiva (sia che si tratti dell’imputato/indagato che della persona offesa).

La memoria difensiva, inoltre, non solo è un prezioso veicolo per nuove argomentazioni difensive ma anche uno strumento utilissimo per la valutazione ragionata di elementi già acquisiti nel corso delle indagini preliminari o del processo. Infatti, è possibile utilizzare la memoria proprio per una disamina articolata e ragionata di fatti, circostanze, dichiarazioni, valutazioni tecniche e quant’altro sia già in atti.

Certamente il processo penale è e rimane sostanzialmente orale; ma bisogna anche tenere ben presente che la produzione di un documento (la memoria difensiva, appunto) che illustra punto per punto valutazioni, riflessioni e ragionamenti già esposti oralmente o che ci si accinge a trasmettere al giudice ANCHE verbalmente, rappresenta un efficacissimo atto che il Giudice potrà valutare in maniera attenta e senza l’incalzare del difensore a coronamento di un intervento difensivo di duplice natura (verbale e scritto).

Bisogna poi considerare che non tutte le fasi del procedimento penale (comprensivo, quindi, delle indagini preliminari) permettono una interlocuzione diretta con il Giudice e la memoria rimane l’unico strumento per trasmettere al Giudicante le argomentazioni difensive.

Bisogna, in ogni caso, valutare sempre molto attentamente (soprattutto nel caso in cui la memoria sia nell’interesse dell’indagato/imputato) se il passaggio delle informazioni al Giudice o al PM non sia strategicamente controproducente poiché potrebbe fornire alla persona offesa (ovvero al suo difensore) o alla Pubblica Accusa delle occasioni per reperire ulteriori elementi a carico dell’accusato proprio alla luce delle di lui argomentazioni difensive (con una sorta di “aggiornamento” passo dopo passo degli elementi a carico).

Va da sé, tuttavia, che nel processo cognitivo di ogni uomo – e, quindi, anche del Giudice e del PM – l’elemento grafico assicura una veicolazione del messaggio più diretta, chiara, immediatamente percepibile e, quindi, più velocemente comprensibile e più facilmente memorizzabile.

Si pensi ad un facile esempio: riferire al Giudice che Tizio non poteva vedere Caio poiché la distanza tra i due era tutt’altro che trascurabile, avrà una forza persuasiva sicuramente minore rispetto allo stesso concetto rappresentato al Giudice anche fornendogli la copia della cartina stradale estrapolata da Google maps con l’indicazione numerica e visiva dell’effettiva distanza. O ancora, come nel caso qui sotto riportato, il Giudice rimarrà maggiormente convinto che vicino ad un posto X si trova l’esercizio commerciale o l’ufficio Y se potrà consultare ugualmente una cartina stradale. Ed in generale, massima incisività possederà l’analisi e la riflessione di fatti sottoposti a giudizio quando sarà possibile illustrare visivamente al Giudice – con la memoria difensiva che conterrà anche i necessari approfondimenti difensivi –  i luoghi teatro della vicenda.

Come detto, la memoria difensiva raggiunge il massimo dell’efficacia quando sarà prodotta quale corollario grafico dell’intervento verbale del difensore (magari sotto forma di “nota di udienza” al termine dell’arringa) affinché il Giudice leggendo lo scritto rievochi le parole e del difensore. Stesso effetto “evocativo” e, quindi, di ripetizione delle argomentazioni difensive, si otterrà avanti al Tribunale della libertà (in tema di misure cautelari) o del Tribunale di Sorveglianza (in tema di pene alternative alla detenzione).

Anche a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini (l’avviso ex art. 415 bis c.p.p.) potrebbe essere utile depositare una memoria difensiva (posto che solo dopo tale avviso si avrà contezza degli elementi dell’accusa potendo visionare il fascicolo del PM); superando così anche le eventuali difficoltà dell’indagato a rendere interrogatorio (ma non rinunciando a contrastare l’accusa già in una fase precedente all’accertamento del merito). Ma, soprattutto in tale caso (ovvero dopo l’avviso che si sono concluse le indagini ma ancora in una fase procedimentale “dominata” dal PM prima dell’intervento di un Giudice “terzo”), il contributo difensivo potrebbe essere (nella migliore delle ipotesi) ignorato o legittimamente utilizzato dall’Accusa per prevenire future argomentazioni (durante il processo) della difesa (altrettanto legittime).

I MODI.

La memoria difensiva ha un senso ed una utilità innanzitutto se è fondata. Essa deve basarsi su argomentazioni quanto meno sensate degne di analisi e di riflessione poiché, altrimenti, non farebbe altro che sottolineare la pochezza degli elementi difensivi. E’ ovvio che la bravura professionale del difensore consta proprio della capacità di reperire e sviluppare tesi difensive plausibili (anche se non sempre condivise dagli altri partecipanti al processo penale) anche al cospetto di un coacervo accusatorio solido.

La memoria difensiva deve essere chiara. Chiara nel senso di facile lettura, consultazione e comprensione. Il Giudice deve poterla leggere e comprendere senza sforzi cognitivi eccezionali non foss’altro per la quantità di scritti di avvocati che deve quotidianamente leggere. Ogni documento richiamato deve essere allegato e facilmente reperibile così come ogni ragionamento sul fatto e/o di diritto – pur elegante nello stile – deve essere lessicalmente se non piacevole almeno scorrevole.

Anche graficamente la memoria difensiva deve essere completa ed ordinata (ideale è l’indicazione di un sommario con l’indicazione di ogni pagina associata all’argomento ivi trattato) sempre nell’ottica di renderne la fruizione più snella possibile con tutto guadagno dell’efficacia; essa si deve avvicinare ad un “piccolo manifesto” ove il messaggio centrale deve essere immediatamente percepito ed il lettore guidato nelle articolazioni di ogni ragionamento per comprenderne la persuasività.

IL MODELLO

Qui sotto è riportata quale esempio delle indicazioni sopra sottolineate, la copia di una memoria difensiva redatta dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla (con il contributo finale della Dott.ssa Alice Del Pero psicologa forense) in un caso di resistenza a pubblico ufficiale.

La difesa è stata assunta dall’Avv. de Lalla in fase di Appello dopo che il primo grado si era concluso con una pesante condanna per l’imputato (preso atto del titolo di reato) ad anni uno dei reclusione senza alcuna sospensione della pena, in difetto della concessione di qualsivoglia attenuante e con l’applicazione della misura cautelare in carcere che l’imputato scontava per oltre sei mesi. La memoria ripercorre i fatti accaduti alla luce di fondate argomentazioni difensive supportate da documentazione reperita accedendo a banche dati “aperte” e semplici consultazioni internet. L’atto consta anche della richiesta di revoca della misura cautelare e della rimessione in libertà dell’imputato redatta con l’ausilio della psicologa forense in forze presso lo Studio con la realizzazione di una proficua trial consultation.

Il modello offre l’opportunità di esaminare un atto molto articolato che si apre con un sommario molto chiaro ed una argomentazione per capitoli facilmente consultabile e comprensibile. L’atto è corredato da diversi allegati citati in narrativa a supporto di quanto dedotto.

La Corte riformava parzialmente la sentenza di primo grado diminuendo la pena a nove mesi di reclusione e rimettendo immediatamente in libertà l’imputato.

ALL ILL.MA CORTE DI APPELLO
DI *****

Sezione II^ penale

memoria difensiva dell’indagato ex art. 121 c.p.p.
E
richiesta ex art. 299 c.p.p.

RG Gen. App. *****
Udienza del *****

Il sottoscritto Avv. Giuseppe Maria de Lalla del Foro di Milano difensore di fiducia del Signor

******

generalizzato come in atti, imputato nel procedimento penale emarginato in epigrafe ed attualmente sottoposto alla misura custodiale presso la Casa di reclusione di Milano, San Vittore

PREMESSO

• Che l’impugnazione presentata dal precedente difensore riguarda tutti i punti ed i capi della Sentenza di primo grado (sia la ricostruzione del fatto storico che la qualificazione giuridica dello stesso sia il trattamento sanzionatorio in tema di quantificazione della pena, concessione delle attenuanti generiche e sospensione condizionale della pena);
• Che il presente atto – da considerarsi un unicum con l’impugnazione – NON consta di irrituali motivi nuovi ed aggiunti bensì di legittimi approfondimenti (sotto forma di memoria difensiva) di quanto già dedotto nell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio;

RILEVATO

• Che in atti vi sono tre distinte richieste di revoca/modifica dell’attuale misura cautelare (due al Giudice di primo grado ed una presentata a Codesta Ill.ma Corte di Appello);
• Che la presente quarta richiesta ex art. 299 c.p.p. si basa su elementi diversi rispetto a quelli già in atti e – soprattutto – alla luce di una disamina della documentazione sanitaria (compresa la cartella clinica del detenuto richiesta dallo stesso e prodotta in questa sede All.to 1 mai visionata dal Giudice) effettuata dalla difesa in concerto con la consulente, Dott.ssa Alice del Pero (in questa sede nominata) Dottoressa in psicologia forense (All.to 2)
Tutto ciò premesso e rilevato, in riferimento ai motivi di impugnazione presentati, il sottoscritto difensore

OSSERVA

SOMMARIO
1. La ricostruzione del fatto storico avvenuta ad opera dei due testi e le contraddizioni (di ordine generale) che ne minano la credibilità………………………………………………..pag. 3

2. Le contraddizioni di ordine particolare delle ricostruzioni degli accadimenti fornite dai due testi CC…………………………………………………………………………………………………pag. 5
2.1 La diversa ricostruzione dei fatti data dai due CC……………………………………….pag. 6
2.2 La singolare dinamica dell’aggressione del **** ed il tardivo intervento dei CC (il mancato sequestro e/o reperimento dell’”arma” dell’imputato ovvero l’ombrello)……………………………………………………………………………………………………………………pag. 8

3. Il difetto del dolo specifico richiesto dalla norma ex art. 337 c.p…………………..pag. 11

4. Il trattamento sanzionatorio: la mancata concessione delle attenuanti generiche.pag. 12
4.1 Il trattamento sanzionatorio: la quantificazione della pena………………………..pag. 14
4.2 Il trattamento sanzionatorio: la mancata concessione della sospensione condizionale della pena…………………………………………………………………………………….pag. 17

5. Le conclusioni per l’Appello………………………………………………………………………….pag. 18

6. La richiesta di revoca sostituzione della misura cautelare: l’errata diagnosi di pericolosità sociale e la valutazione della documentazione sanitaria del carcere.pag.21

******************

1. La ricostruzione del fatto storico ad opera dei due testi e le contraddizioni (di ordine generale) che ne minano la credibilità.
Innanzitutto, occorre considerare degli aspetti poco credibili della ricostruzione dei fatti data dai testimoni in relazione al canone giurisprudenziale dell’id quod plerunque accidit.
E’ evidente che una valutazione di matrice quasi statistica degli accadimenti (quale è appunto quella che è operata alla luce di quello che “più spesso accade”) non può, da sola, che essere del tutto indicativa e priva di forza probante (soprattutto alla luce della testimonianza di due CC) tale da disarticolare la ricostruzione degli avvenimenti avvenuta in primo grado.
Risulta, però, operazione preziosa per la verità processuale più attendibile se congiunta – come avverrà nel caso di specie – alle solide contraddizioni (di carattere non più generale ma specifico di quanto riferito proprio dai due testimoni (sulle dichiarazioni dei quali poggia la sentenza tutta del Giudice del primo grado).
****
Primo aspetto piuttosto dissonante in questa triste vicenda (soprattutto per l’imputato detenuto da sei mesi in custodia cautelare) è che un cittadino straniero in attesa del permesso di soggiorno possa pensare di avere una convenienza effettivamente concreta nell’aggredire due Carabinieri in servizio dopo aver avuto già uno scontro con gli stessi (appena 12 giorni prima e ci riferiamo ai fatti del ******) a seguito del quale (oltre alle manganellate che afferma di aver ricevuto e che pare gli abbiano provocato, come si legge nella cartella clinica del carcere qui allegata integralmente al n. 1, la perforazione di un timpano) veniva anche inviato in ospedale dove rimarrà nel reparto di psichiatria sedato e legato per tre giorni (verrà dimesso come da documentazione in atti solo l’****** con quella terribile diagnosi di pericolosità sociale tanto suggestiva quanto superficiale come si vedrà più avanti).
Si potrà obbiettare che la maggior parte dei crimini che vengono commessi sono frutto di condotte impulsive o, semplicemente, errate.
Sul punto, tuttavia, bisogna anche osservare che l’imputato è un cittadino che da molti anni vive in Italia, integrato, lavoratore e del tutto incensurato. Certo sono dati (anche questi) solo indicativi; ma occorre valutarli poiché alla luce di questi aspetti bisogna convenire (se si è obbiettivi) che il ****** è un soggetto non aduso al crimine che ha concretamente vissuto fino al ****** rispettando la Legge (e, quindi, discriminando le condotte opportune da quelle sconvenienti e agendo di conseguenza).
In relazione allo stato di incensuratezza del ******, inoltre, risulta davvero singolare che lo stesso da oltre otto anni residente nello stesso paese (vedasi il verbale delle dichiarazioni dell’imputato in sede di convalida) senza problema legale alcuno, nell’arco di un pugno di giorni (nel marzo 2013) si scontri ben due volte con gli stessi CC (in caserma e fuori) e ne denunci uno alla Polizia di Stato.
Ugualmente – considerando quanto riferito dai due CC durante l’esame in relazione al “precedente” del ****** – il breve lasso di tempo dal fermo del ****** per la sospetta rapina fino ai fatti (in escalation) del ******, rimane un fatto difficilmente spiegabile alla luce della precedente condotta regolare dell’imputato per quasi un decennio.
Sempre in tema di contraddizioni che appaiono difficilmente giustificabili alla luce di una incontrollabile violenza dell’imputato (e, di conseguenza, in palese dissonanza con quanto riferito dai CC e condiviso dal Giudice del primo grado), è il fatto che il ****** – evidentemente convinto di aver subito un abuso – sporga denuncia nei confronti di uno dei due testimoni (il CC ******) documentando anche le lesioni subite (si vedano gli allegati menzionati nella denuncia in atti sporta dal ****** in data ****** oltre alla perforazione del timpano di cui al diario clinico del carcere).
Ed invero, bisogna osservare che – appunto, secondo l’id quod plerunque accidit – colui che sceglie di rivolgersi all’autorità giudiziaria affinché sia accertato un reato del quale ritiene di essere rimasto vittima, assumerebbe un comportamento inspiegabile – poiché in netta e totale contraddizione – se poi optasse per “farsi giustizia da sé” aggredendo la persona che ritiene autrice del reato in suo danno.
Se davvero ****** fosse qual soggetto impulsivo, incapace di controllarsi, pericoloso ed alieno dal rispetto delle regole del vivere civile, avrebbe preferito immediatamente tutelare con la violenza le proprie ragioni anziché rivolgersi alla Polizia di Stato (dopo aver tentato vanamente di farlo in altra Stazione dei CC rispetto a quella ove presta servizio l’******. V. denuncia) e denunciare l’asserito responsabile.
La denuncia alla Polizia di Stato e l’aggressione per la quale oggi vi è processo, entrambe motivate dalla convinzione di essere rimasto vittima di un abuso, sono due condotte in netta contraddizione; inconciliabili tra loro e l’evenienza che l’agente le abbia adottate entrambe a distanza di soli cinque giorni l’una dall’altra (la denuncia è del ******, l’arresto è avvenuto il ******) non può essere completamente ignorato dalla Corte.
In relazione alla denuncia querela sporta dal ****** ai danni del CC, occorre fare qui una digressione ed argomentare l’iniziativa dell’imputato – non solo in relazione alle contraddizioni in generale del fatto storico così come ricostruito dal Giudice di prime cure – anche alla luce dell’errata ed inaccettabile interpretazione meta-giuridica che della denuncia fa il Giudice del primo grado.
Egli osserva che …egli ha accusato i carabinieri di averlo deliberatamente colpito con il bastone sulla testa in precedenti accessi in caserma…(pag. 2 della Sentenza) ed alla luce di tale evenienza il Giudice giustifica la negazione delle attenuanti generiche.
Orbene, la scelta non può essere condivisa dalla Corte di Appello poiché il Giudicante di primo grado cade in un duplice errore di natura sia prettamente giuridica che logica.
Innanzitutto – sul piano giuridico – il Giudice del primo grado pretende di ritenere a priori ingiustificata, pretestuosa e calunniosa la denuncia del ****** sebbene quei fatti (denunciati il ****** ed accaduti l’******) non siano oggetto del processo che egli deve giudicare e non ci sia nessun elemento di indagine alla luce del quale ritenere che i fatti denunciati non siano mai accaduti (chi legge spero condivida che l’essere straniero il denunciante e CC i denunciati non sia una circostanza che di per sé ed a priori possa significare infondata la notitia criminis).
Dal punto di vista logico è errato ritenere che l’iniziativa di denunciare un torto subito (ovvero l’adozione dei rimedi che l’ordinamento assicura ad ogni soggetto straniero o meno) in difetto di qualsivoglia accertamento circa la veridicità dei fatti denunciati possa essere sintomo – come ritiene errando il Giudice – di una qualche pericolosità sociale.
Accostandoci, quindi, alla lettura della Sentenza ed all’analisi dell’intera vicenda con atteggiamento privo di preconcetti e scevro da terremoti emotivi (che paiono aver scosso il giudicante nel precedente grado di giudizio), si possono individuare le illustrate contraddizioni di ordine generale e, già in questa fase preliminare degli approfondimenti difensivi, anche delle interpretazioni del giudice di prime cure (circa la nota denuncia del ******) errate e segno di una impronta assolutamente non garantista del giudizio tutto.
****
2. Le contraddizioni di ordine particolare delle ricostruzioni degli accadimenti fornite dai due testi CC.
Difficilmente è possibile immaginare prova più difficile da inficiare della testimonianza di due CC soprattutto quando si abbia l’ardire di provarci forte (si fa per dire…) della diversa ed opposta ricostruzione dei fatti data dall’imputato straniero, con precedenti di polizia nonché dimesso dal pronto soccorso psichiatrico con una diagnosi di pericolosità sociale.
Tuttavia, il tentativo, non solo è prova di cieca fiducia nel Giudice di secondo grado, ma è anche intellettualmente e giuridicamente onesto e, soprattutto, doveroso per la difesa solo se effettivamente avvallato da elementi concreti e verificabili.
Ebbene, nel caso all’attenzione di codesta Corte, non è possibile tacere le insanabili contraddizioni e le inverosimiglianze delle testimonianze dei due CC.
Non certo per timore reverenziale ma per semplice prudenza e, soprattutto, in difetto di elementi certi in tal senso, non si adombra alcuna condotta calunniosa dei due testimoni “qualificati”; ma si pone l’accento, semmai, su dei dati di fatto che devono necessariamente indurre la Corte ad analizzare le risultanze testimoniali non già con occhio verificazionista (come ha fatto il Giudice di primo grado) ma con la doverosa prudenza del Giudice accorto e, quindi, con il relativismo scettico sistematico proprio della tendenza falsificazionista (dalla quale deriva il garantismo proprio del nostro ordinamento).

2.1 La diversa ricostruzione dei fatti data dai due CC.
Poniamo subito l’accento sulla diversità dei fatti che i due testimoni riferiscono in sede di esame e controesame.
Evidenziamo i temi di dissonanza.
Lo sputo. La versione dell’imputato.
Egli sostiene di non avere mai sputato in direzione dei CC.
La versione del CC ******.
Egli sostiene che l’imputato avrebbe sputato contro l’autovettura di servizio. In un primo momento riferisce che…transitando vicino all’auto ha sputato sulla fiancata destra…. Nel proseguo della testimonianza il CC ribadirà che lo sputo si è infranto sull’auto.
La versione del CC ******.
L’imputato non sputa sull’auto di servizio ma verso i CC guardandoli: ….******ha sputato verso l’auto guardando nella nostra direzione…La ricostruzione è arricchita dal dettaglio dello sguardo che evidentemente il teste poteva cogliere solo se impegnato effettivamente ad osservare l’agente; di tal che non pare possa essersi sbagliato circa il bersaglio dello sputo. Sul punto il CC ribadisce successivamente che …lo abbiamo riconosciuto dopo che sputato in direzione dell’auto…
La versione del Giudice.
Incredibilmente c’è una quarta versione che non combacia con nessuna di quelle raccolte durante l’istruttoria dibattimentale: quella del Giudicante. In sentenza è riportato che lo sputo avrebbe attinto il finestrino: ….un uomo in bici si è avvicinato al lato destro dell’auto e aveva sputato sul finestrino….
Le parole asseritamente proferite dal ****** poco prima della denunciata aggressione.
La versione dell’imputato.
Non riferisce alcunché delle frasi né gli viene chiesto alcunché.
La versione del CC *****
Subito dopo lo sputo il ****** avrebbe minacciato il CC inveendo: ….tu mi hai rovinato la vita, se hai i coglioni scendi dall’auto, pezzo di merda ti ammazzo…. Il CC avrebbe sentito queste parole quando era già sceso dall’auto.
La versione del CC ******.
****** non sente e non riferisce una frase articolata ma solo due parole in parte nemmeno confermate dal collega: io sono sceso dall’auto e ho cercato di calmarlo ma l’imputato indicando il collega seduto in auto e che stava chiamando la centrale, ha detto: quello lo ammazzo…. Bisogna anche rilevare che l’utilizzo del pronome quello implica che il *** non si rivolgesse – come affermato dall’altro CC – direttamente all’oggetto della sua minaccia; bensì a terzi (ovvero il CC **** che, invero, riporta la frase come pronunciata a lui ma diretta al collega: ….indicando il collega….).
La versione del Giudice.
Con la Sentenza il Giudice supera a priori ogni discrasia delle versioni e riporta – ma solo in parte – quanto riferito da uno solo dei CC (*****):….Scendo (sic!!) se hai i coglioni, mi hai rovinato la vita pezzo di merda. Rivolto a *****…. L’erronea omissione da parte del Giudice del proposito di uccidere che il ***** avrebbe proferito all’indirizzo dell’****** (dalle testimonianze, come abbiamo visto, non si comprende se pronunciato in direzione dell’uno o dell’altro CC), fa si che l’incerta circostanza dell’identità dell’interlocutore diretto dell’imputato durante i fatti non sia nemmeno affrontata in Sentenza.
Certo si può obbiettare (in un’ottica inquisitoria e verificazionista) che le contraddizioni rilevate non mutano il nucleo delle testimonianze e non fanno venire meno quella successione degli avvenimento base (lo sputo, le parole e poi i fatti) in seguito ai quali è stata ritenuta sussistente la responsabilità penale dell’imputato con un’opportuna impronta pragmatica.
Tale obiezione, tuttavia, deve essere superata dalla Corte che deve convenire che la testimonianza E’ la parola; E’ costituita dalle parole (e dai significati che esse rappresentano) e se queste – pronunciate da diversi soggetti – si contraddicono e non collimano sotto diversi profili pur riferendosi (i testimoni e le loro parole) ai medesimi fatti storici, è doveroso che ci si ponga il problema delle discrasie e le contraddizioni anche se riguardano dei profili (e nemmeno troppo satelliti) di quanto riferito in dibattimento.
Nel caso che qui trattiamo, è ovvio che non si potessero rinvenire nelle testimonianze dei due CC delle abissali divergenze (i fatti oggetto del processo non sono molto articolati e, dal punto di vista soggettivo, il medesimo ruolo ricoperto dai CC può averli indotti – ovviamente inconsapevolmente – a riferire dei fatti simili sebbene non uguali dopo aver confrontato i propri ricordi) e, quindi, anche solo quanto sopra rilevato deve essere sottoposto all’attento e critico vaglio della Corte.

2.2 La singolare dinamica dell’aggressione del Reda ed il tardivo intervento dei CC (il mancato sequestro e/o reperimento dell’”arma” dell’imputato ovvero l’ombrello).
L’aggressione descritta in maniera prima facie esaustiva dal CC ***** ha sicuramente richiesto un apprezzabile intervallo di tempo.
La condotta aggressiva del *****, invero, è suddivisibile – alla luce di quanto riferito dai testi – in più fasi:
1. Lo sputo;
2. Le minacce (dopo aver appoggiato la bici al muro);
3. Il tentativo dei CC di calmarlo;
4. L’aggressione con l’ombrello: il colpo sulla pancia dell’******;
5. Il primo contatto fisico tra i contendenti: lo strappo dello spallaccio della divisa del CC;
6. Il primo tentativo di estrarre l’arma da parte del *****;
7. Il primo divincolamento dell’*****;
8. Il secondo tentativo di estrarre l’arma da parte del *****.
Tra la fase 1 e la fase 2 sopraggiunge anche la pattuglia chiamata in rinforzo (V. verbale dichiarazioni CC *****: …la pattuglia era a poche centinaia di metri ed è sopraggiunta…. Dalle medesime dichiarazioni si evince che la chiamata era effettuata subito dopo lo sputo quando il CC **** scendeva dall’auto per calmare l’imputato).
Dalle dichiarazioni dei due CC – questa volta concordemente – si evince che l’intervento per immobilizzare il ***** sarebbe avvenuto sicuramente:
– Dopo la prima botta allo stomaco del CC con l’ombrello;
– Dopo che il **** strappa lo spallaccio della divisa del CC;
– Dopo il primo (pericolosissimo) tentativo di disarmare il CC;
– Dopo il secondo (pericolosissimo) tentativo di disarmare il CC.
Orbene, è importante sottolineare che la chiamata della pattuglia di rinforzo che si trova a poche centinaia di metri è effettuata dall’***** quando ancora l’aggressione fisica in suo danno ad opera del **** NON è nemmeno cominciata (il CC è in auto) ed altresì che la pattuglia con i rinforzi giunge sul posto (percorrendo poche centinaia di metri) quantomeno (ma con una stima spostata “in avanti”) in un minuto/due minuti ovvero quando il **** impugna ancora l’ombrello e non ha ancora tentato di disarmare il CC.
Ebbene, come può giustificarsi che i tre colleghi del CC aggredito – uno, lo *****, spettatore evidentemente del tutto inerme fin dall’inizio della sequenza aggressiva in danno del collega – attendano un duplice tentativo del ***** (che aveva già colpito il CC con l’ombrello mentre Iannotta guardava) di disarmare l’***** prima di intervenire?
L’azione del **** non è certo stata fulminea e, comunque, ***** è già sul posto; eppure l’imputato viene atterrato al termine di una sequenza che si prolunga nel tempo e che permetterebbe all’imputato aggressioni con dinamiche differenti.
Vi è indubbiamente qualcosa di dissonante nell’aggressione ad un CC da parte di un soggetto noto ed un intervento del tutto tardivo degli altri carabinieri presenti (anche da parte del collega CC presente fin dall’inizio a tutti i fatti) al termine di una escalation di atti violenti che avrebbe potuto culminare con il possesso dell’arma di ordinanza da parte dell’aggressore (che per ben due volte è posto nella condizione di provare a estrarre la pistola dell’*****).
Si fa davvero fatica ad immaginare che (in primis) ***** e poi l’altro equipaggio siano stati a guardare mentre il collega veniva colpito con l’ombrello, strattonato (strappo dello spallaccio) e sottoposto a due distinti tentativi di sottrazione dell’arma.
La Corte deve necessariamente affrontare questa argomentazione e prendere posizione in riferimento a questo particolare assolutamente centrale nella dinamica degli eventi.
*****
In relazione allo sviluppo dell’aggressione bisogna sottolineare un’ulteriore incongruenza dei fatti così come ricostruiti nel processo.
All’esito dell’istruttoria, invero, risultava che parte dell’aggressione era agita dall’imputato per mezzo di un ombrello (come si ricorderà, utilizzato per colpire il CC allo stomaco).
Ebbene, tale ombrello non è descritto dai testi e, soprattutto, non risulta essere agli atti del processo in sequestro sebbene sia l’arma più volte citata in Sentenza.
Va da sé che tale duplice lacuna può essere interpretata quale evenienza trascurabile (sempre nell’ottica di un approccio meramente verificazionista) in seno alla ricostruzione del fatto storico; ma occorre valutare la circostanza alla luce di ulteriori elementi emersi in dibattimento.
– Innanzitutto, l’imputato ha dichiarato di non avere con sé alcun ombrello ma, semmai, una busta con quanto consegnatogli dalla Caritas. Sul punto bisogna approfondire sottolineando che:
 effettivamente, a meno di quattro chilometri dal luogo dei fatti (la via Paleari di Pogliano Milanese) si trova una sede della Caritas (Caritas Ambrosiana, Via Edmondo de Amicis, 18, 20017 Rho Milano) come si deduce dalla cartina estrapolata da google maps che qui si allega (All.to 3);
 dal dibattimento non è emerso in alcun modo che il ***** non avesse con sé effettivamente tale busta (e sul punto bisogna evidenziare che nel processo mentale di ricostruzione dei fatti l’esistenza della prova da cui dedurre l’esistenza di una circostanza deve essere valutata della medesima forza probante del difetto di elementi di segno opposto circa fatti ugualmente dedotti da una delle parti);
– Preso atto che il ***** era in bicicletta e che non vi sono elementi per sostenere che non avesse la busta che l’imputato ha sostenuto di avere, non si comprende facilmente come avrebbe potuto condurre il velocipede ed allo stesso tempo sorreggere sia la busta che l’ombrello (probabilmente aperto dal momento che pioveva).
Tale approfondimento non è e non deve essere considerato un esercizio logico su una circostanza satellite; ma come elemento ricostruttivo non approfondito dal Giudice di primo grado e come ennesimo segno che l’istruttoria del primo grado di giudizio è stata condotta dal Giudice in maniera superficiale e, soprattutto, sotto la lente deformante del pre-giudizio (etimologicamente inteso) per il quale l’imputato ha sicuramente mentito e la sua versione non può che essere del tutto inverosimile.

3. Il difetto del dolo specifico richiesto dalla norma ex art. 337 c.p.
Nota è la formulazione della norma in parola.
Il termine utilizzato dal Legislatore ….per opporsi… pare essere di elementare esegesi ed altrettanto immediato è il senso della volontà sanzionatrice del Legislatore: impedire e sanzionare le condotte di coloro che si prefiggono lo scopo di rendere non agevole lo svolgimento dell’attività dei pubblici ufficiali (e la casistica delle modalità della condotta è davvero sterminata).
L’interpretazione in tal senso dell’art. 337 c.p. è confortata anche dal fatto che il Legislatore – in assenza del dolo specifico – ha inteso comunque punire più duramente il reato compiuto in danno del pubblico ufficiale e a tal scopo ha previsto la disposizione dell’art. 61 n. 10.
Non dare il necessario rilievo al dolo specifico per la configurazione del reato di resistenza, significherebbe operare una duplicazione in malam partem di una medesima disposizione di legge poiché qualsiasi condotta in danno di un pubblico ufficiale potrebbe essere alternativamente o congiuntamente classificabile sia come resistenza sia come fattispecie aggravata ex art. 61 n. 10.
Orbene, nel caso del Reda non vi è alcun elemento che deponga per una sua precisa volontà (sussumibile sotto il dolo specifico ex art. 337 c.p.) di opporsi al compimento di un atto dell’ufficio dell’*****.
Si sottolinea che tale conclusione è (addirittura) del tutto conciliabile anche con la ricostruzione dei fatti data dei testimoni (e, quindi, anche volendo considerare la tesi dell’accusa):
– il Reda non aveva alcuna contezza della natura del servizio in atto da parte della pattuglia *****/******;
– l’imputato incrociava del tutto casualmente i due CC;
– egli si disinteressava di qualsivoglia attività dei due avendo quale unico e solo interesse (secondo il PM) quello di ingiuriare e colpire il suo antagonista.
Lo scopo del **** – semmai – secondo l’accusa (che poi sarà confortata dal Giudice) è quello di vendicarsi delle vessazioni che lamenta di aver subito ad opera dell’*****.
Giustamente, tale supposta condotta avendo quale bersaglio un Pubblico Ufficiale deve essere ritenuta più grave e censurabile; e difatti vi è a riguardo una precisa aggravante che – addirittura – è applicabile in maniera più estesa rispetto alla fattispecie ex art. 337 c.p. posto che l’aggravante ex art. 61 n. 10 NON richiede dolo specifico alcuno ma solo che il reato sia compiuto nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio della vittima.
L’imputato – giuridicamente valutando i fatti ovvero con un’opportuna e doverosa disamina tecnica al di là di ogni suggestione – doveva essere arrestato dai CC (secondo una astrattamente corretta tesi accusatoria) poiché autore di un’aggressione ad un Carabiniere e non già poiché intenzionato o per aver ostacolato la vittima nel compimento di un atto del suo ufficio (e naturalmente unitamente a tale aggressione sarebbe stata contestata anche l’aggravante ex art. 61 n. 11 c.p.).

4. Il trattamento sanzionatorio: la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Le considerazioni che seguono sono evidentemente assorbite in caso di accoglimento dei rilievi fin qui approfonditi (e dedotti con l’atto di appello) in tema di assoluzione dell’imputato.
Va da sé che ogni altra conclusione diversa dall’assoluzione (qualsivoglia sia la motivazione) concerne direttamente la concedibilità o meno all’imputato delle attenuanti generiche.
Il giudice di prime cure – benché sia in procinto di far rinchiudere in carcere per un anno un soggetto incensurato a seguito di una lesione ad un CC della durata di 10 giorni – liquida il dilemma in cinque righe.
La motivazione addotta ha un duplice profilo:
– viene censurata la condotta tenuta in udienza dall’imputato che si sarebbe estrinsecata nella denuncia precedente del 15.3.2013 sporta dal **** in danno del CC;
– viene valorizzata la mancata confessione dell’imputato che sarebbe chiaro sintomo di difetto di resipiscenza per quanto accaduto il 20.3.2013.
Entrambe le motivazioni devono essere fermamente censurate poiché prive di valore giuridico e poiché non dovrebbero trovare condivisione nell’applicazione di un diritto (come il nostro) ispirato al principio costituzionale della materialità e che distingue la fase giurisdizionale dell’accertamento del merito da quella propriamente esecutiva della pena (tesa alla rieducazione).
In relazione alla denuncia (documentata con gli allegati inerenti le lesioni subite) sporta dal Reda il 15.3.2013 in danno del CC ***** per i fatti dell’8.3.2013, si è già detto.
Così come è stata già argomentata l’errata interpretazione di tale iniziativa dell’imputato da parte del Giudice del primo grado che l’ha letta – non già quale diritto del cittadino legittimamente esercitato – bensì, a priori e senza alcuna approfondimento, quale iniziativa calunniosa da sanzionare indirettamente con la negazione delle attenuanti ex art. 62 bis c.p. benché i fatti oggetto della predetta notitia crimis siano diversi da quelli sui quali il medesimo Giudice doveva giudicare ed in relazione ai quali l’ignoranza del Giudicante di prime cure è ed era assoluta.
Il tema della mancata confessione quale sintomo – da sanzionare – del difetto di resipiscenza è (e chi legge vorrà soprassedere sul tono caustico della definizione) un obbrobrio giuridico.
Il diritto di difesa e tale solo se può essere liberamente esercitato senza che la mancata collaborazione e confessione (ossia l’adozione di una linea difensiva ben precisa che passa per la contestazione dell’addebito) implichi automaticamente un aggravio della pena (diversamente, il diritto costituzionale di cui si discute non sarebbe tale poiché l’esercizio ne sarebbe irrimediabilmente coartato).
La scelta difensiva del ***** avanti al Giudice del primo grado è stata legittima e per certi aspetti anche logica (sebbene non abbia dato, ad oggi, gli effetti sperati dall’accusato): egli ha contestato le accuse mossegli scegliendo il rito ordinario e – pur offrendosi di porgere le proprie scuse – ha giustamente individuato nel processo celebrato con tale rito quello che (astrattamente) gli avrebbe potuto garantire i maggiori margini di difesa (ovvero il contraddittorio pieno).
A ben vedere, sarebbe stata assai più contraddittoria la scelta di un rito alternativo continuando a professare la propria innocenza.
Durante il processo di primo grado l’imputato non ha approfittato di espedienti dilatori ed ha fondato le proprie contro-deduzioni sulla base di argomentazioni ragionevoli e di documentazione (la famosa denuncia del 15.3.2013 contro ****** ed i suoi allegati) che egli certo non poteva aver confezionato ad hoc preso atto che egli al momento della notitia cminis di suo pugno non poteva ovviamente supporre che di lì a poco sarebbe stato processato per i successivi fatti del 20.3.2013 che codesta Corte è chiamata a Giudicare.
Il concetto di resipiscenza, inoltre, non dovrebbe trovare applicazione alcuna in questa fase di merito del giudizio poiché proprio della fase esecutiva della pena ovvero quando la fase processuale ha ormai esaurito l’accertamento dei fatti di cui vi è processo (o, sarebbe meglio dire, quando la ricostruzione della verità processuale si è ormai esaurita).
La resipiscenza è un concetto legato alla funzione rieducativa della pena che il Legislatore ha giustamente “relegato” in seno a valutazioni connesse alla prognosi di condotte future di soggetti che devono essere valutati in merito alla loro affidabilità quando i fatti che gli sono addebitati sono ormai giuridicamente certi (si pensi alle decisioni di competenza del Tribunale di Sorveglianza).
Il Giudice di prime cure (che comunque – sempre nell’ottica del certo mendacio dell’imputato – ignora del tutto la dichiarazione di intenti del ***** di ritenere chiusa la vicenda con il CC *****) utilizza a sproposito il concetto di pentimento/resipiscenza e legittimamente si può ritenere che la necessaria indagine psicologica sia stata svolta dal Giudicante senza alcuna preparazione ad hoc, senza nessun confronto a ciò deputato con l’imputato, in difetto di qualsivoglia apporto di uno specialista e con l’impiego di quella che il Nuvolone chiamava “la psicologia degli ignoranti” che molti avvocati e Giudici applicano superficialmente (sul punto è opportuno richiamare l’attenzione della Corte sul fatto che il Legislatore quando ha previsto una necessaria indagine psicologica per l’adozione di provvedimenti giurisdizionali – leggasi: Tribunale di Sorveglianza – ha affiancato ai Giudici togati due esperti in scienze psicologiche e criminologiche).
Non vi sono motivi giuridicamente rilevanti per privare il Reda del beneficio contenitivo della pena delle attenuanti ex art. 62 bis c.p. (eventualmente anche solo equivalenti alle aggravanti contestate).

4.1 Il trattamento sanzionatorio: la quantificazione della pena.
Il Giudice di primo grado in relazione alla quantificazione della pena sottolinea la gravità del fatto contestato.
Il ragionamento del Giudice si articola in diversi passaggi:
– lo sputo è considerato sintomo di disprezzo ed in quanto tale giuridicamente idoneo ad influire sulla quantificazione della pena;
– il tentativo di asportare l’arma al CC – benché non perseguito come evidenziato dallo stesso Giudice – sarebbe segno di particolare arroganza in campo all’imputato…
– i fatti per i quali non vi è processo – sottolinea il Giudice – devono essere interpretati quali segnali di una indole particolarmente violenta e persecutoria e uno scarso contenimento dei propri istinti aggressivi.
Analizzando attentamente i parametri adottati dal Giudice del primo grado per la quantificazione della pena, si deve necessariamente censurare la mancata adozione di criteri giuridicamente validi e l’applicazione di elementi del tutto meta-giuridici idonei ad una interpretazione grandemente soggettiva, priva di riscontro e, comunque, applicati in maniera assolutamente superficiale.
La gravità del fatto contestato deve, al contrario, partire innanzitutto (ex art. 133 c.p.) dalla valutazione delle conseguenze materiali della condotta contestata poiché tale criterio risulta essere quello maggiormente e concretamente correlato alla valutazione della gravità di una condotta reato se – come dovrebbe essere – si interpreta il diritto penale come il diritto “del fatto” ispirato ai già richiamati principi di materialità ed offensività.
Nel caso di specie il Giudice non menziona nemmeno le predette conseguenze materiali che (ovviamente con grande sollievo) si limitano ad una prognosi di giorni dieci per una escoriazione al polso della vittima causata – ed anche questo è un elemento erroneamente ignorato dal Giudice e segno del difetto di ogni garantismo – non già direttamente da un’azione dell’imputato, ma in seguito all’atterramento ed alla successiva immobilizzazione dello stesso, operazioni durante le quali il CC **** impattava malamente con l’asfalto (ed alla luce di ciò si sottolinea che le escoriazioni non possono essere addebitate al Reda a titolo di dolo diretto con buona pace di ogni valutazione del suo animus offendendi).
In relazione agli ulteriori indicatori di cui all’art. 133 c.p. non vi è traccia nella sentenza impugnata.
Il Giudice del primo grado omette del tutto di illustrare i procedimenti analitici e logici per i quali ha inteso applicare la pena qui impugnata.
Riflettiamo sui parametri, al contrario, adottati dal giudice per la determinazione di una pena superiore al minimo edittale:
– il disprezzo per le forze dell’ordine – ammesso e non concesso che si possa leggere lo sputo come manifestazione di tale sentimento – non è un reato né è un obbligo per i cittadini apprezzare e sostenere l’Arma (soprattutto se si ritiene di essere stati ingiustamente manganellati da dei CC e di seguito, per il loro intervento, ricoverati e sedati per tre giorni in un reparto di psichiatria e su questi fatti ancora si sottolinea che il Giudice del primo grado nulla sa, nulla sapeva e nulla può sapere).
– il tentativo di asportare l’arma al CC non è stato ritenuto perseguibile e ci si deve chiedere, quindi, quale fondamento e rilevanza possa avere nel presente procedimento penale. Peraltro, il fatto non deve esser stato giudicato nemmeno troppo allarmante dagli stessi CC preso atto che, pur assistendo ai fatti, hanno ritenuto di intervenire solo dopo il secondo asserito tentativo del **** di impossessarsi della pistola (tentativo che non ha evidentemente lasciato alcuna traccia posto che i testimoni non hanno riferito del danneggiamento della fondina , del “cinturone” parte della divisa o dell’arma medesima).
Le conseguenze materiali del reato sono e rimangono i dieci giorni di prognosi della vittima (causati non già dal ****, come sappiamo, ma dalle manovre di immobilizzazione) ed eventuali “coloriture” dovute ad interpretazioni di elementi satelliti non possono avere la “forza giuridica” di influenzare la quantificazione della pena che, al contrario, ha sicuramente un determinante valore/efficacia concreti (soprattutto per chi la subisce).
Il riferimento agli altri parametri di cui all’art. 133 c.p. (che questa difesa ha già illustrato in relazione al **** in altri passi di questa memoria e dell’atto di impugnazione) il Giudice di prima istanza non ha argomentato alcunché.
Nel caso specifico, quindi, la pena si sarebbe dovuta attestare sul minimo edittale preso di tutti i parametri della predetta norma:
– il ***** (ammesso e non concesso che abbia commesso i fatti che gli sono addebitati) ha aggredito il CC prima a parole in maniera subitanea senza alcun piano preordinato, in presenza di altri militari e con l’adozione di una condotta priva di qualsiasi pianificazione ma nata ed attuata in maniera del tutto estemporanea senza alcuna possibilità di non essere punito;
– della gravità del danno alla persona offesa si è già detto così come dell’eziologia dello stesso;
– il dolo sembra aver immediatamente perso ogni sua carica: l’imputato già all’udienza di convalida si è reso disponibile a porgere le sue scuse;
– in relazione ai motivi a delinquere bisogna ancora una volta richiamare la convinzione del ***** che i CC gli abbiano “rovinato la vita” (e sul punto bisogna sottolineare come l’argomentazione non sia in alcun modo pretestuosa posto che anche in carcere l’imputato, piangente, ha più volte riferito questa posizione) e, quindi, preso atto di tale evenienza la reazione dell’imputato non pare essere né sproporzionata né – direi – illogicamente ritorsiva;
– l’imputato è incensurato, lavoratore, identificato compiutamente, regolarmente sul suolo italiano. Gli altri fatti che lo riguardano e per i quali pendono gli atri due procedimenti penali non permettono di azzardare valutazioni di sorta posto che non vi è alcun accertamento in merito e, in ogni caso, la pena qui impugnata riguarda un determinato fatto storico e non può essere condizionata da tali altri fattori che, di fatto, non sono i “precedenti penali” richiamati dalla norma;
– circa la condotta processuale si è già detto: il **** ha deciso di difendersi con il rito ordinario con una difesa organizzata e documentata tutt’altro che pretestuosa. Certo tale elemento non può considerarsi una evenienza a carico;
– le condizioni di vita non depongono affatto per una esistenza precaria e priva di progettazione di lunga durata né, tantomeno, dedicata al crimine.

4.2 Il trattamento sanzionatorio: la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
Logicamente e giuridicamente avvinta al trattamento sanzionatorio (sotto il duplice profilo della quantificazione della pena e della concessione delle attenuanti generiche) è l’alternativa della concessione o meno all’imputato della sospensione condizionale della pena.
Anche in questo caso il Giudice di prime cure liquida l’argomento con poche righe adducendo una duplice argomentazione che si espone a importanti e fondate censure sotto diversi aspetti.
Secondo il Giudicante la sospensione della pena non è concedibile alla luce:
– della personalità dell’imputato (senza alcuna altra specificazione);
– i reiterati e frequenti episodi di aggressione verso i componenti dell’arma dei carabinieri.
Circa la personalità dell’imputato bisogna innanzitutto richiamare quello che sopra si osservava della “psicologia degli ignoranti” applicata dai giuristi.
Leggendo la Sentenza è impossibile comprendere – poiché nulla vi è in merito – di quale sia stato il ragionamento del Giudice per giudicare la personalità del Reda. Qual è il concetto di personalità che il Giudicante avrebbe adottato quale punto di riferimento? Quali gli elementi concreti espressione di quella (la personalità)? Quali i bilanciamenti effettuati con ulteriori aspetti concreti inerenti la vita, l’esistenza ed il foro interno del ****?
Si potrà obbiettare che non è il processo penale la sede per tali approfondite analisi; ma dal momento che per il Giudice del primo grado “la personalità dell’imputato” sarebbe tale da poter stilare una prognosi infausta (sulla reiterabilità di condotte criminali da parte dell’imputato); di conseguenza egli aveva l’obbligo giuridico di motivare la sua decisione illustrandone il percorso logico argomentativo (e la sentenza impugnata, sul punto, pare essere più una risposta emotiva che giuridicamente verificabile).
Peso determinante ha avuto sicuramente (come nei provvedimenti di rigetto delle tre istanze in tema di misura cautelare) la famigerata diagnosi di pericolosità sociale redatta l’11.3.2013 all’esito dei tre giorni di ricovero presso il reparto psichiatria dell’Ospedale di ******.
L’influsso di tale documento sulla Sentenza è decisivo e pervasivo (la medesima drammatica influenza si evince anche nei tre richiamati provvedimenti ex art. 299 c.p.p.).
Circa la validità di tale documento (superficiale e contraddittorio oltre che metodologicamente errato) si osserverà compiutamente nelle prossime righe a supporto della quarta istanza qui proposta ex art. 299 c.p.p.; ma già in questa sede si deve rilevare che esso è stato recepito dai Giudici in maniera del tutto acritica senza nemmeno consultare le cartelle cliniche del Carcere che qui si allegano (all.to 1).
Il Giudice erra anche valutando come ostativi alla sospensione condizionale della pena i reiterati e frequenti episodi di aggressione verso i componenti dell’arma dei carabinieri.
Tali episodi – che saranno oggetto di approfondimento nel corso delle indagini che ancora pendono e che risultano essere logicamente avvinti ai fatti per i quali qui si procede – si concretano in un lasso di tempo breve ed il Giudice non prende in considerazione alcuna tutto il considerevole lasso di tempo (otto anni) nel corso del quale il ***** ha vissuto in Italia senza delinquere.
Il Giudice (negando la sospensione condizionale oltre che determinando la pena oltre il minimo edittale) pare abbia voluto punire l’imputato anche per quei fatti non oggetto del processo e che sono ancora del tutto privi di certezza giuridica.
Senza contare che l’ingresso dell’incensurato ***** nel circuito giudiziario (arresto, custodia cautelare, processo e condanna) non può che aver determinato un importante effetto deterrente che il Giudice non coglie minimamente (e forse le scuse del Reda ne sono il primo tangibile segno).

5. Le conclusioni per l’Appello.
La Corte non può che riformare l’impugnata Sentenza evitando così che l’imputato ancora subisca gli errori compiuti dal Giudice di primo grado.
Si chiede la riforma dell’impugnata Sentenza:
In via principale:
assoluzione dell’imputato con la formula che si riterrà di giustizia.

In via subordinata:
riqualificazione del reato di resistenza in quello di lesioni ed assoluzione per difetto di querela o, in alternativa, rideterminazione della pena alla luce del meno grave capo di imputazione.

In ogni caso:
concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti e rideterminazione delle pena con contenimento della pena entro i limiti edittali.

In ultima subordine:
concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena.
*********
Qualora la Corte ritenesse infondate le plurime ed argomentate doglianze espresse con l’Appello ed approfondite in questa sede, diviene rilevante una pronuncia in ordine all’attuale misura custodiale.
Ovviamente, si richiamano in questa sede tutte le argomentazioni fin qui illustrate che indirettamente (si pensi all’illustrata dinamica dell’aggressione) e direttamente (ed è il caso delle argomentazioni spese in ordine alla sospensione condizionale della pena, alla quantificazione del trattamento sanzionatorio ed in tema di concessione delle attenuanti generiche) influiscono anche sulle valutazioni tipiche circa l’esistenza dei presupposti della carcerazione preventiva (soprattutto nel caso concreto posto che l’esigenza a presidio della quale vige ancora la misura più restrittiva è quella del pericolo di reiterazione del reato).
Orbene, dalla lettura delle tre ordinanze (due del Tribunale ed una di codesta Corte) si evince chiaramente che massimamente significativa è stata la “diagnosi” (e le virgolette devono avere tutto il loro significato discorsivo…) di pericolosità sociale con la quale il ***** veniva dimesso dal PS di Legnano (la Corte ha ritenuto opportuno anche richiedere una nota dell’educatore del Carcere – datata 10.9.2013 – che è stata valutata sostanzialmente neutra e, quindi, negativa, al cospetto della richiamata diagnosi di pericolosità).
Nel prossimo paragrafo – redatto con il contributo della Dott.ssa Alice Del Pero Dottoressa in psicologia forense, consulente del sottoscritto difensore nell’ottica della collaborazione interdisciplinare propria della trial consultation – verranno messi in luce tutti i bias che inficiano la diagnosi di cui si tratta ed i motivi per i quali non può essere considerata sic et simpliciter la base inconfutabile e scientifica per un giudizio prognostico di natura tale da rendere impossibile la revoca/modifica dell’attuale misura (tenuto anche conto che il Reda ha già scontato metà della pena inflitta con il primo grado di giudizio.
Il profilo psicologico dell’imputato  stilato dal Dott. ****** in forze presso il Servizio Psichiatrico di *******  è quantomeno allarmante.
Non solo è indicata una personalità sostanzialmente “disturbata”; ma l’accertamento è di tale natura da permettere al sanitario (che non pare citato in nessun articolo scientifico come si evince dall’interrogazione sul sistema Google Scholar (Alll.to 6) di prevedere – pur in assenza di una infermità nosograficamente inquadrabile – di effettuare una previsione di quelli che potranno essere le future condotte dell’imputato.
Ciò che rileva – e le prossime argomentazioni sono una disamina approfondita della censura – è che tali posizioni del Dott. ****** non poggiano su test alcuno né è dato sapere su quali osservazioni cliniche sarebbero state stilate (oltre i fatti per i quali **** è processato) posto che l’imputato per tutta la sua degenza è stato sedato e sottoposto a contenzione (la prima sedazione avveniva addirittura all’arrivo dell’ambulanza prima ancora che il paziente giungesse presso l’ospedale)

6. La richiesta di revoca sostituzione della misura cautelare: l’errata diagnosi di pericolosità sociale e la valutazione della documentazione sanitaria del carcere (con il contributo del consulente della difesa).
Il giudizio di pericolosità sociale è definito un giudizio prognostico sulla capacità e probabilità dell’individuo di commettere nuovi reati e risulta dal modo di essere dell’individuo criminale e dalla necessità di prevenzione e controllo di probabili, ulteriori eventi criminosi.
Il concetto di pericolosità sociale costituisce un giudizio di valore finalizzato a rafforzare il controllo sociale ed è strettamente legato al grado di colpevolezza morale e di allarme che l’azione messa in atto provoca.
Il giudizio prognostico di pericolosità sociale è fondato, dal punto di vista metodologico e interpretativo, su un criterio essenzialmente interdisciplinare e, nell’ambito di tale orientamento, l’esame psicodiagnostico e la diagnosi psicologica occupano un posto di primo piano.
Nello specifico gli approcci utilizzati per la valutazione della pericolosità sociale sono i seguenti, che devono essere utilizzati in parallelo per giungere ad una diagnosi il più possibile aderente alla realtà dei fatti:
1. Clinico – anamnestico: riguarda l’esame psicologico, sociale, psicopatologico e neurobiologico del soggetto e la ricostruzione dei fattori che hanno contraddistinto la manifestazione, o le manifestazioni, di antisocialità effettuata attraverso informazioni ottenute dal soggetto stesso e da altre fonti.
2. Attuariale o statistico (test): utilizza criteri definiti di valutazione con i relativi punteggi ricavati dai risultati dalle ricerche in tema di fattori correlati alla probabilità di mettere in atto o meno comportamenti violenti o socialmente pericolosi.
Le ricerche ad oggi hanno messo in luce una serie di Fattori di Rischio che devono essere considerati nel risk assessment e che possono mettere in luce eventuali condizioni che possono facilitare la messa in atto di nuove condotte antisociali, o, al contrario, Fattori di Protezione, che possono proteggere l’individuo dal reiterare la condotta criminosa.
I due approcci prima evidenziati concorrono a definire due caratteristiche necessarie al fine di giungere ad una valutazione di pericolosità:
A. DIAGNOSI DI PERICOLOSITÀ: implica l’individuazione di determinati fattori e presuppone la valutazione di una particolare attitudine a compiere reati violenti, definita “capacità criminale”. Si ottiene attraverso una valutazione di personalità dell’individuo e del suo adattamento sociale.
B. PROGNOSI DI PERICOLOSITÀ: implica la predizione specifica del grado effettivo di probabilità secondo cui l’evento dannoso può riprodursi ed è associata alla probabilità di recidivismo. Si ottiene attraverso un’approfondita misurazione di tutte le variabili rilevanti che possono influenzare positivamente o negativamente l’azione criminosa.
*******
Nel caso di ***** il lavoro descritto precedentemente per giungere ad una diagnosi di pericolosità sociale non è stato compiuto.
La valutazione clinica effettuata in data 11/03/2013 presso l’Ospedale di ****** dal Dott. *****, su cui si sono basate la Sentenza e i rigetti di modifica/attenuazione della misura cautelare adottata nei confronti del condannato, deficita grandemente a livello metodologico di molte garanzie necessarie a definire una diagnosi di probabilità di commissione di nuovi reati (quale è il giudizio prognostico di pericolosità sociale) il più possibile corretta.
La relazione si basa unicamente sul racconto del fatto per cui ***** è stato condotto in ospedale e la sua reazione a questo dato, preciso ed isolato avvenimento, senza indagare in alcun modo:
– l’anamnesi personale e familiare del soggetto (concentrandosi su particolari condizioni di vita che potrebbero favorire la reiterazione della condotta, eventuale storia criminale, etc.);
– le caratteristiche personologiche e caratteriologiche (somministrando un qualsiasi test di personalità si sarebbero potuti mettere in luce in modo oggettivo eventuali tratti di personalità che potrebbero aver condotto alla messa in atto del comportamento criminoso);
– le risorse del soggetto nell’affrontare le problematiche che si possono presentare nel corso della vita, le motivazioni che potrebbero spingere Reda a delinquere nuovamente e la realtà socio-psicologica in cui è inserito.
Tutte queste informazioni, non indagate in alcun modo dai medici, avrebbero condotto ad una valutazione completa della personalità del reo e si sarebbe giunti ad un giudizio prognostico di pericolosità sociale basato su elementi reali e predittivi e non sui sentimenti passeggeri scatenati da una situazione di stress che il soggetto si è trovato ad affrontare.
Oltretutto nella relazione vi sono alcuni elementi che fanno “a pugni” con la diagnosi di pericolosità che viene segnalata: si argomenta, infatti, che “emergono chiaramente i tratti antisociali ed esplosivi di personalità: il paziente sceglie consapevolmente la violenza per regolare i conflitti interpersonali” (pag. 1 della diagnosi dell’Ospedale di ******), ma successivamente si segnala che: “Non considera chiuso il conflitto con i Carabinieri, che intende DENUNCIARE per le percosse subite durante la colluttazione” (pag. 2).
Se denunciare qualcuno perché si ritiene di essere stati vittime di un torto ed essere notevolmente arrabbiati per questo equivale ad essere un soggetto antisociale e una persona socialmente pericolosa ci si chiede quante persone dovrebbero essere sottoposte a misure cautelari o giudicate socialmente pericolose….
Si vuole, inoltre, sottolineare come l’eventuale presenza di tratti antisociali di personalità (in questo specifico caso non indagati in modo adeguato attraverso test appositi, ma solo identificati tramite osservazione, che è per sua natura una metodologia soggettiva e senza un conoscenza accurata dell’individuo che si ha di fronte) non sia automaticamente garanzia di una pericolosità intrinseca nel e dell’individuo.
Tutte le persone hanno dei tratti di personalità particolari che contribuiscono a esplicitare l’immagine che si fornisce di sé. Finché questi tratti sono flessibili non costituiscono nessuna problematica in quanto permettono all’individuo di adattarsi nelle diverse situazioni. Diversamente, se i tratti divengono rigidi e inflessibili possono concorrere alla definizione di un disturbo di personalità.
Per il Signor ****** non si può conoscere la pervasività di questi tratti non essendo stato analizzato in alcun modo oggettivo il suo profilo di personalità ma si possono avere indicazioni in merito analizzando la sua storia di vita personale, che emerge dal diario clinico fornito dalla Casa Circondariale di ******* (All.to 3) ove è detenuto e dalla relazione dell’educatore con cui ha rapporti in carcere datata 10/09/2013 (in atti e per facilità di consultazione qui allegata al n. 4).
Innanzitutto, emerge che ****** è stato inizialmente sottoposto ad un regime di particolare sorveglianza in seguito al comportamento depresso e afflitto che mostrava al suo arrivo nel penitenziario.
Dal diario clinico emerge come il soggetto fosse lamentoso, piangente, irrequieto per la situazione che si trovava ad affrontare.
Dopo un primo periodo di controllo maggiore per timore di gesti autolesivi, in data 27/04/2013 è stato spostato in una cella comune.
Dal diario clinico, e soprattutto, dalla relazione comportamentale dell’educatore emerge che ****** ha tenuto “un comportamento generalmente conforme alle norme e alle regole interne“, atteggiamento questo sintomo della capacità del soggetto di rispettare le regole sociali della comunità e quindi escludente una possibile diagnosi di disturbo di personalità antisociale, essendo il mancato rispetto delle regole sociali una delle caratteristiche intrinseche al disturbo stesso e dimostrando che i riscontrati tratti antisociali di ****** non sono pervasivi, ma flessibili ed adattabili alla situazione.
Ulteriormente, la richiesta di sostegno ed accoglienza, relazione, confronto e supporto alla disperazione che il detenuto sta dimostrando potrebbero essere lo specchio per leggere le tematiche di tipo rivendicativo riportate dallo psichiatra nel diario clinico.
Se, infatti, il detenuto ritiene di essere vittima di un’ingiustizia, come espresso all’educatore più disponibile all’ascolto e come reiteratamente sostenuto nel corso del processo e della detenzione tutta, i toni polemici potrebbero essere solo il risultato di un sentimento di sconfitta personale e disperazione per aver perso la credibilità e il credito agli occhi degli altri.
Inoltre, il signor****** risulta incensurato e questa sua condizione porta a credere che non sia un delinquente normalmente dedito alla violenza e che il fatto occorso per il quale è stato condannato possa ritenersi un episodio isolato.
A riprova vi sono le scuse formulate in sede processuale dall’imputato – ignorate dal Giudice di prime cure maggiormente interessato ad interpretare negativamente altri profili dell’appellante – e la proposta di chiudere il contenzioso ritirando la denuncia da lui sporta contro i Carabinieri protagonisti con il reo della vicenda.
La mancata ammissione di aver tenuto una condotta inadeguata non può considerarsi di per sé una prova della possibile reiterazione del reato ascritto al soggetto, in quanto non ci si trova in una situazione di mediazione in cui è necessario il riconoscimento di colpevolezza per proseguire nel riadattamento sociale (aspetto tipico della fase esecutiva della pena).
I chiari segni di depressione e disperazione che il detenuto esprime per la situazione che sta vivendo, uniti alla scorrettezza metodologica utilizzata nella valutazione di pericolosità sociale da parte dell’Ospedale di ****** che risulta quantomeno affrettata e non adeguatamente approfondita, la positività del percorso carcerario di ***** e il comportamento antecedente tenuto dal soggetto – extracomunitario, richiedente permesso di soggiorno, lavoratore, in regola con le tasse radicato sul territorio e incensurato – sono elementi per i quali dovrebbe essere valutata l’eventualità di eliminare la misura cautelare della carcerazione non essendoci alla base motivazioni adeguate.
A tali rilievi si aggiunga che trascorsi sei mesi dall’applicazione della misura cautelare ogni effetto deterrente è sicuramente massimamente esplicato e non appaiono in alcun modo ancora esistenti esigenze cautelari di sorta.
****
Per tutto quanto sopra esposto la scrivente difesa

CHIEDE

Che l’attuale misura cautelare sia revocata o, in subordine, che sia sostituita con una misura meno afflittiva.

Milano, il giorno 16 settembre 2013

Avv. Giuseppe Maria de Lalla

Allegati:
1. Cartella clinica dell’appellante rilasciata dalla Casa di reclusione di ***** dalla quale si evince l’andamento positivo della condotta carceraria dell’imputato nonché sia la lesione al timpano (trattata con antibiotici) sia la finale sospensione di ogni trattamento farmacologico;
2. CV della consulente della difesa in tema di psicologia forense;
3. Mappa stradale estratta con il sistema google maps dalla quale si evince che la sede della Caritas dista meno di 4 km dal luogo dell’arresto dell’imputato (i due luoghi sono distinti dalla lettera A e B sulla cartina. In basso a sinistra sono evincibili le distanze dei due luoghi);
4. Immagine della fondina in dotazione ai CC. Si evidenzia sia il ponticello in pelle fermato da rivetti sia il meccanismo metallico di congiunzione tra la fondina ed il ponticello. Si sottolinea che il ponticello può essere attaccano o alla tasca della divisa o al “cinturone” in dotazione. In entrambi i casi la trazione del complesso di ritenzione dell’arma avrebbe danneggiato o la divisa o il cinturone;
5. Stampata della pagina di Google Scholar (vedi nota 3) in relazione alla ricerca delle citazioni scientifiche del Dott. Giorgio Colombo. Si evidenzia il difetto di citazioni scientifiche ricercate con la parola chiave “dott.*******”.

(Articolo originale. Ne è vietata ogni riproduzione ed utilizzazione)

Questo articolo ha 6 commenti

  1. Un articolo molto interessate ma avrei una domanda:
    se io fossi stato denunciato e l’altra parte mi avesse fatto leggere il contenuto della denuncia (per certi motivi) e io volessi presentare una memoria di difensiva subito, prima che i Carabinieri mandassero tutto in Procura, e me la scrivessi da solo (non voglio per il momento pagare l’avvocato), in base a quale articolo loro me la devono ricevere?
    Grazie

    1. Buonasera,
      No, non è la procedura adatta.
      I CC non hanno alcun potere decisionale circa il deposito o meno della denuncia presso la Procura: sono obbligati.
      Una memoria difensiva a rigore non potrebbe nemmeno essere accettata.
      Occorre che il procedimento penale si formalizzi con l’assegnazione di un PM.
      Solo dopo possono essere depositati scritti difensivi.
      Questa è la regola. Ovviamente non posso esprimermi nel particolare.
      Cordialità.
      Avv. GdL.

  2. Molto interessante .. ma intrigato per i non addetti, difficile da comporre.. ma si devono spiegare i fatti oltre quello che uno dichiara in querela? Oppure si ripropongono i fatti dall’inizio? Ma una persona può presentare memoria senza un Avv? Mi è stata richiesta essendo parte lesa, per un decesso.

    1. La memoria difensiva è un atto che può essere depositato:
      – dall’imputato;
      – dall’indagato;
      – dalla vittima o persona offesa.
      Può essere sottoscritta anche personalmente dall’interessato. Ovviamente, considero sempre necessaria quantomeno la supervisione da parte di un professionista.
      Il contenuto può essere il più vario ma il suo scopo è sempre quello di veicolare informazioni all’Autorità Giudiziaria.
      In ogni caso – in astratto – non pare abbia senso depositare una memoria che ha lo stesso contenuto sovrapponibile di un atto già depositato in precedenza.
      Più opportuno, semmai, approfondire o ribadire sotto un’altra ottica i punti focali della vicenda che chi deposita la memoria ritiene opportuni per la salvaguardia della propria posizione.

      Avv. GM de Lalla

  3. Grazie veramente… avevo questo dubbio, per cui trattandosi di un decesso propongo i fatti succeduti “dopo” la querela? per l’esame autoptico mi è stata richiesta una perizia di parte .. E un procedimento normale questa proposta da parte del p.m. cioè si fa di prassi? Perchè a me e stato riferito che il p.m. l’ha fatto solo per non avere problemi “dopo”.

Lascia un commento

Torna su
Cerca