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Le condotte illecite commissibili da parte degli infermieri nell’esercizio delle proprie funzioni

 

 

3.1         I principali reati a carico dell’infermiere

 

L’infermiere, al pari del medico e delle altre figure sanitarie, nell’esercizio della propria attività professionale si trova esposto al rischio di incorrere in diverse fattispecie di reato. L’elencazione che segue in questo capitolo si basa su criteri di importanza e di frequenza dei fatti costituenti reato che riguardano la professione infermieristica nel suo insieme.

 

 

3.2         L’omicidio

 

I reati più gravi di cui gli esercenti una professione sanitaria possono essere chiamati a rispondere sono, innanzitutto, l’omicidio e le lesioni personali.

Nel codice penale vigente sono previste varie fattispecie di omicidio accomunate però da un fatto-base “consistente nella causazione della morte di un uomo”[1].

L’omicidio in generale può essere definito come “l’uccisione di un uomo cagionata da un altro uomo con un comportamento doloso o colposo e senza il concorso di cause di giustificazione”[2].

Scopo dell’incriminazione è, dunque, la tutela della vita umana. Essa costituisce un bene primario di rilevanza costituzionale, anche se non  espressamente previsto dalla Costituzione, in quanto rappresenta il presupposto logico-fattuale per il godimento di ogni altro diritto della persona (quale, ad esempio, la libertà, la dignità umana o la salute) ed è dunque implicitamente tutelato dall’art. 2 Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”[3].

Soggetto attivo dei delitti di omicidio realizzati mediante azione è chiunque; eventuali qualificazioni dell’autore rilevano soltanto quali circostanze aggravanti (artt. 576 e 577 c.p.).

Nei casi di omicidio mediante omissione, il soggetto attivo deve essere titolare di una posizione di garanzia dalla quale deriva uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo. Proprio nel settore sanitario sono gli esempi più ricorrenti: una posizione di garanzia è quella che ricopre il medico o l’infermiere nei confronti del paziente, da cui deriva l’obbligo di proteggere la salute e la vita di colui che è affidato alle sue cure.

Soggetto passivo e insieme oggetto materiale dei reati di omicidio è l’uomo di cui viene cagionata la morte. In relazione a tale elemento del reato, occorre individuare i due momenti, rispettivamente a partire dal quale e sino al quale è possibile ritenere che esista una persona umana, suscettibile di rappresentare il soggetto passivo di un fatto di omicidio.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, la ‘persona’, ovvero l’‘uomo’, viene ad esistenza con l’inizio del periodo di transizione della vita intrauterina a quella extrauterina, vale a dire con il distacco del feto dall’utero[4].

In tale ottica, si precisa che “la qualità di uomo, ai fini del diritto penale, non comincia con la nascita vera e propria, vale a dire con la completa fuoriuscita del prodotto del concepimento dall’alvo materno, ma in un momento di poco anteriore, e precisamente nel momento in cui ha inizio il distacco del feto dall’utero della donna” [5].

L’argomento che si richiama a sostegno di tale conclusione è che il codice penale all’art. 578, nel disciplinare il reato di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale, equipara all’uccisione del neonato quella del feto durante il parto; ne consegue, dunque, che il momento determinante per l’applicabilità delle norme sull’omicidio è l’inizio del parto, e che rilevante ai fini della tutela penale è già la vita del feto (cioè il prodotto del concepimento e della gestazione, pervenuto appunto alla fase del parto)[6].

Ciò premesso, in ordine al momento a partire dal quale viene ad esistenza il potenziale soggetto passivo del delitto in esame, è poi ovvio che quel soggetto potrà essere vittima del delitto di omicidio fintantoché è vivo; il che equivale a dire che la morte viene in considerazione non solo quale evento costitutivo del reato, ma anche quale momento sino al quale esiste l’essere umano (sicché non si può essere chiamati a rispondere di omicidio di un uomo, che in realtà è già morto al momento della condotta)[7].

Quanto alla nozione di morte, per lungo tempo si è dibattuto a quale parametro fare riferimento per stabilire la fine della vita: se alla cessazione dell’attività respiratoria, o di quella cardiaca, o di quella cerebrale, o di tutte tali funzioni. La questione è stata definitivamente risolta con la legge 29 dicembre 1993, n. 578, la quale all’art. 1 stabilisce che “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”, ovvero con la morte cerebrale[8].

L’omicidio in genere viene distinto sulla base della tripartizione adottata dal codice penale in: omicidio doloso, omicidio colposo e omicidio preterintenzionale. Le tre fattispecie omicidiarie si differenziano per ragioni riguardanti l’elemento soggettivo, il quale indica, in sostanza, l’intenzionalità con cui il reato è stato commesso.

L’omicidio doloso è previsto dall’art. 575 c.p., il quale stabilisce che “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”[9].

Per l’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo occorre che si verifichino le condizioni indicate nella definizione generale contenuta nell’art. 43 c.p., il quale stabilisce che “il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.

Il dolo, quale coscienza e volontà del fatto tipico di reato (nel caso specifico dell’omicidio, la morte di un altro uomo) comporta la forma più grave di responsabilità penale.

Quando la morte della vittima non è coperta dal dolo dell’autore viene in considerazione la fattispecie generale dell’omicidio colposo di cui all’art. 589 c.p.: “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”[10].

Anche in tal caso si rinvia alla definizione generale contenuta nell’art. 43, in base al quale “il delitto è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

L’omicidio preterintenzionale, infine, è previsto dall’art. 584 c.p., in base al quale “Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli art. 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni”[11].

I delitti di cui si parla in questa disposizione sono le percosse e le lesioni personali. Quanto all’elemento soggettivo, l’art. 43 c.p. stabilisce che “il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.

Pertanto l’ipotesi configurata dal legislatore all’art. 584 c.p. consiste nel fatto dell’individuo che, ponendo in essere atti diretti a percuotere o ledere una persona, ne determina senza volerlo, la morte (ad esempio, un soggetto colpisce con un pugno al volto la vittima, e questa cade e sbatte violentemente la testa, da cui deriva un’emorragia cerebrale che ne determina il decesso).

Ciò premesso, occorre fin da subito rilevare che in tema di responsabilità sanitaria il reato di omicidio nella quasi totalità dei casi viene contestato ai responsabili a titolo di colpa, mentre difficilmente è configurabile l’ipotesi del dolo, giacché, in tal caso, si dovrebbe ravvisare nella condotta del sanitario una volontà cosciente di arrecare un danno al paziente.

Esistono, tuttavia, in giurisprudenza casi particolari nei quali l’imputazione a carico del sanitario è stata formulata con l’ipotesi del dolo o della preterintenzione.

A tal proposito, si riporta una vicenda processuale in cui è stata inizialmente formulata un’imputazione per dolo (eventuale), modificata però in imputazione per colpa nei successivi gradi di giudizio. Si tratta di un caso relativo all’accusa di omicidio doloso a carico di un medico, per aver provocato lesioni personali ad una paziente di minore età, consistenti in sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità ed un episodio di allucinazioni, avendo prescritto, per la cura dell’obesità, l’assunzione di un farmaco (il cui uso era riconosciuto per la sola epilessia), quale terapia sperimentale, in dosaggi superiori a quelli consentiti ed in mancanza di adeguata informazione ed espresso consenso del paziente o di chi esercitava la patria potestà. L’accusa ha sostenuto che l’imputato, pur portato a conoscenza telefonicamente dai genitori della bambina delle condizioni di sofferenza della stessa e dell’assenza di dimagrimento, imprudentemente aveva prescritto il raddoppio della dose di medicinale, senza sottoporre la minore a nuova visita. Il Pubblico Ministero, nel formulare l’accusa, ha, dunque, ritenuto che il medico, ben conoscendo i possibili effetti collaterali del farmaco, ed evitando di comunicarli ai genitori della ragazza, si era consapevolmente assunto il rischio di provocare tali disturbi, soprattutto decidendo di aumentare il dosaggio. Tale ipotesi accusatoria, accolta dal giudice di primo grado, non è stata però confermata nel giudizio di secondo grado, né dalla Cassazione; è stato, invece, ritenuto che il reato fu commesso con colpa e non con dolo[12].

Anche il reato di omicidio preterintenzionale è stato ipotizzato in casi di responsabilità sanitaria, in particolare riguardo al trattamento medico-chirurgico eseguito senza previo consenso del paziente e con esito infausto.

Il precedente più famoso risale ad una vicenda giurisprudenziale che a suo tempo fece molto discutere, nota come ‘caso Massimo’. In quel caso, la Corte di Cassazione era stata chiamata a decidere sulla penale responsabilità di un medico che, nel sottoporre un’anziana paziente ad intervento operatorio, anziché realizzare la programmata asportazione transrettale di un adenoma villoso, aveva, senza previo consenso (e in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche), proceduto all’asportazione totale del retto, provocando a due mesi di distanza il decesso della donna quale conseguenza dell’intervento, estremamente traumatico e cruento.

La Cassazione, confermando i giudizi di primo grado e d’appello, ritenne che il medico dovesse rispondere di omicidio preterintenzionale, in quanto egli “pose in essere consapevolmente e volontariamente una condotta che sul piano giuridico integra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della lesione volontaria (art. 582 c.p.), sussistendo con tutta evidenza gli estremi dell’offesa all’integrità fisica della persona e dell’elemento intenzionale richiesto, cioè il dolo. E poiché da tale delitto voluto ne è conseguita, come effetto non voluto, la morte della paziente, ed essendo tale evento legato con nesso causale alla condotta integrativa di lesioni, ne deriva la penale responsabilità del chirurgo per il reato di omicidio preterintenzionale addebitatogli”[13].

Tuttavia, la tesi rigoristica della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale “si espone ad una facile e ricorrente obiezione: e cioè, nel considerare lesione penalmente rilevante la mera alterazione anatomica provocata dall’intervento chirurgico, non si tiene conto del fatto che il trattamento medico realizzato per fini terapeutici secondo le regole dell’arte medica è di per sé incompatibile con l’idea di un atto aggressivo come può essere una lesione da arma da taglio. Il che implica, in termini giuridici, o escludere la tipicità stessa, quanto al delitto di lesioni, dell’aspetto invasivo del trattamento chirurgico secondo le regole dell’arte medica o, almeno, configurare l’indicazione terapeutica come scriminante”[14].

Le ipotesi di responsabilità per dolo e per preterintenzione di cui si è detto, rappresentano, in ogni caso, situazioni eccezionali, mentre la previsione generale di responsabilità sanitaria per il delitto di omicidio va riferita al concetto di colpa, che sarà oggetto di un’analisi più approfondita nel prosieguo della trattazione.

 

 

3.3         Le lesioni personali

Il reato di lesioni personali viene disciplinato nel codice penale in varie forme; più precisamente esso si articola nelle seguenti fattispecie: lesioni dolose (art. 582 c.p.) e lesioni colpose (art. 590 c.p.), a loro volta distinte in lievissime, lievi, gravi e gravissime[15].

Bene protetto è, in ogni caso, l’incolumità individuale, la quale subisce un’effettiva lesione in conseguenza della malattia cagionata dalla condotta tipica[16].

La figura delittuosa in esame consiste, infatti, nel fatto di “colui che cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente” (art. 582 comma 1 c.p.).

Stando alla lettera della norma si dovrebbe ritenere che due siano gli eventi naturalistici di questo reato: prima una lesione e poi una malattia come conseguenza della lesione. Tuttavia, è più corretto ritenere che l’evento lesivo sia uno solo, e che consista nella malattia, “ragione per cui la norma è da rileggere come se punisse chiunque cagiona una malattia”[17].

Per quanto riguarda la definizione di malattia si contrappongono sostanzialmente due orientamenti.

Secondo il primo, costituisce malattia “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali”[18]. Da ciò ne consegue che rientrano nel concetto di malattia anche alterazioni anatomiche di minima rilevanza, come, ad esempio, gli ematomi, le ecchimosi e le contusioni, poiché esse rappresentano, in ogni caso, una modificazione peggiorativa della situazione anatomica precedente all’evento lesivo.

Tuttavia, tale nozione è generalmente ritenuta inesatta, poiché “la malattia per sua natura non è uno stato, bensì un processo patologico, cioè una successione di fenomeni, che importa, a breve o lunga scadenza, un esito, il quale può essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita, oppure la morte”[19].

Pare, dunque, da preferire il secondo orientamento, sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza più recente, che propone un’interpretazione più restrittiva, in maggiore aderenza al concetto di malattia fornito dalla scienza medica. Secondo tale indirizzo, la malattia consiste in “un processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina un’apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo”, con la conseguenza che, ove si verifichi un’alterazione soltanto anatomica senza implicazioni funzionali, come avviene, appunto, di regola nel caso di ecchimosi, contusioni, si configurerà, in luogo del delitto di lesioni, quello di percosse[20].

Tale interpretazione risulta anche più aderente alla stessa disciplina codicistica: il codice, infatti, distinguendo le diverse fattispecie di lesioni innanzitutto in base alla mutevole durata della malattia, mostra implicitamente di accogliere un concetto funzionale di malattia come processo morboso.

A seconda della gravità, le lesioni personali si suddividono in quattro categorie, distinte in base alla durata della malattia e alla verificazione di alcune circostanze aggravanti, previste all’art. 583 c.p.: lesioni lievissime, lievi, gravi e gravissime.

La lesione è lievissima se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni, mentre è lieve se la malattia cagionata ha una durata compresa tra i ventuno e i quaranta giorni (art. 582 c.p., commi 1 e 2).

La lesione è grave, invece, se da essa derivano: 1) una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; 2) l’indebolimento permanente di un organo o di un senso (art. 583 comma 1 c.p.).

Per ‘malattia che mette in pericolo la vita della persona’ non deve intendersi qualsiasi malattia che presenti una certa probabilità di esito letale. È necessario, infatti, che in un dato momento la vita del paziente sia stata effettivamente in pericolo, con alte probabilità che si verificasse il decesso. In altre parole, il pericolo di morte, per quanto giustificabile in base alla lesione, non deve essere solo ipotetico ma deve essersi concretizzato nella realtà[21].

Per ‘incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni’, che può essere anche solo parziale, deve intendersi l’incapacità di svolgere l’attività consueta. Nell’ipotesi è compresa qualsiasi attività dell’uomo, e quindi, non solo l’attività lavorativa, ma anche, per esempio, le attività ludiche (praticare uno sport, frequentare circoli culturali, ecc.),  purché non giuridicamente riprovate[22].

Per quanto riguarda ‘l’indebolimento permanente di un senso’, si premette che ‘senso’ è il mezzo che è destinato a porre l’individuo in contatto con il mondo esteriore, facendogli percepire gli stimoli che ne provengono: vista, udito, gusto, olfatto, ecc. Organo, ai fini del diritto, è l’insieme delle parti del corpo che servono ad una determinata funzione (respirazione, favella, masticazione, ecc.)[23]. La riduzione funzionale che dà luogo all’indebolimento deve essere di entità almeno apprezzabile.

Infine, la lesione è gravissima se da essa deriva: 1) una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; 4) la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso (art. 583 comma 2 c.p.).

Rispetto a tali ipotesi si osserva che ‘malattia certamente o probabilmente insanabile’ è quello stato di alterazione funzionale che, a giudizio della scienza non può cessare, o solo in rari casi si risolve in guarigione; e, quindi, la malattia che presumibilmente è destinata a durare tutta la vita[24].

Si ha ‘perdita di un senso’ quando il senso (vista, udito, gusto, ecc.) è completamente distrutto; mentre si ha ‘perdita di un arto’ in caso di distruzione delle propaggini del tronco addette al compimento dei grandi movimenti (prensione e deambulazione). Alla perdita è assimilata la mutilazione che rende l’arto inservibile.

La ‘perdita della capacità di procreare’ ha diversa estrinsecazione nei due sessi. Nel maschio la perdita della capacità di procreare può conseguire alla soppressione della possibilità di un coito fecondante che si realizza sia nel caso di impotenza al coito sia in quello di inidoneità alla inseminazione naturale. Nella femmina si aggiunge l’impossibilità a gestare, vale a dire a condurre una gravidanza, ed a partorire naturalmente, come può avvenire in caso di grave deformazione del bacino a seguito di frattura pelvica[25].

Per ‘permanente e grave difficoltà della favella’ si deve intendere un profondo disturbo della facoltà di parlare.

Per ‘deformazione del viso’ si intende qualsiasi alterazione anatomica che ne turbi la simmetria, tanto da produrre un sovvertimento dei lineamenti (può dipendere, ad esempio, da mutilazioni o da cicatrici estese e deturpanti), mentre sfregio è da intendersi qualsiasi alterazione di intensità minore che, pur senza determinare un vero e proprio sfiguramento del volto, cagioni nondimeno una sensibile modificazione in peggio dei lineamenti[26].

In ambito sanitario, le lesioni in forma colposa sono quelle di maggior interesse, in quanto, come si è già avuto modo di precisare in relazione all’omicidio, l’elemento soggettivo ricorrente nella quasi  totalità dei casi di responsabilità professionale a carico del personale medico e infermieristico è rappresentato proprio dalla colpa.

 

 

3.4         L’abbandono di persone minori o incapaci

 

L’abbandono di persone minori o incapaci è un reato previsto dall’art. 591 c.p., il quale testualmente recita: “Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”[27].

Lo scopo della norma è quello di tutelare la vita e l’incolumità individuale delle persone che, per età o per altre cause, siano incapaci di provvedere autonomamente a sé medesime e sono, di conseguenza, particolarmente esposte a situazioni di pericolo.

Il semplice fatto dell’abbandono, però, non dà vita al reato in esame, se con esso non si viola uno specifico dovere di custodia o di cura che trova il suo fondamento in un obbligo giuridico preesistente, il quale può sorgere, per esempio, dalla legge o da un contratto[28].

La custodia si riferisce al singolo e preciso dovere di sorveglianza, mentre la cura è espressione riassuntiva che comprende tutte le prestazioni e cautele protettive di cui abbia bisogno una persona incapace di provvedere a se stessa[29].

L’abbandono consiste, in sostanza, nel lasciare la persona in balia di se stessa o di terzi che non siano in grado di provvedere adeguatamente alla sua custodia e cura, in modo che ne derivi un pericolo per la vita o l’incolumità della persona medesima.

L’abbandono di minori o incapaci è un reato nel quale può incorrere il personale infermieristico, a cui sono affidati, per ragioni di cura, individui bisognosi di assistenza, specie nell’ambito di case di ricovero per anziani e malati psichiatrici.

Per gli infermieri, in particolare, l’obbligo di cura nei confronti dei pazienti loro affidati deriva da precise fonti normative, in primo luogo dal profilo professionale (decreto ministeriale n. 739/1994). In esso, infatti, al secondo comma dell’art. 1, si precisa che rientra tra le principali funzione della professione infermieristica l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età[30].

Pertanto, è stato ritenuto colpevole del reato in esame un infermiere in servizio presso un istituto per anziani che in più occasioni non aveva fornito ai ricoverati le prestazioni assistenziali e terapeutiche cui era tenuto, esponendo così a rischio la loro salute[31].

Analogamente, è stato affermato che “risponde del reato di abbandono di persone incapaci un infermiere dipendente di una casa di riposo che abbandona temporaneamente un malato a lui affidato all’interno di una vasca da bagno con acqua bollente causandogli, in conseguenza della prolungata immersione, ustioni di II e III grado nel 40 per cento della superficie corporea e successiva morte, in quanto la sua posizione di garanzia non ammetteva di lasciare solo il paziente in quanto non in grado di provvedere a se stesso”[32].

 

 

3.5         L’omissione di soccorso

 

L’omissione di soccorso è prevista dall’art. 593 c.p., in base al quale: “Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 2.500 euro.

Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità”[33].

Tale disposizione ha lo scopo di prevenire i danni ai quali si trovino esposte persone in stato di presunto o accertato pericolo, mediante l’imposizione di un obbligo di assistenza diretta o indiretta.

La fattispecie di omesso soccorso, dunque, appresta anch’essa tutela ai beni della vita e dell’incolumità individuale, “ma in una prospettiva che include una tutela siffatta nell’orizzonte più ampio di un dovere etico-sociale di solidarietà”[34].

Perché possa applicarsi la norma in esame, è necessario che non sussista un dovere particolare di assistenza, penalmente sanzionato. In tal caso, infatti, si applica la norma speciale (per es., l’art. 328 c.p. che prevede l’omissione di atti d’ufficio), e non quella dell’art. 593 c.p., dalla quale, come si è visto, nasce un dovere generale di assistenza[35].

Tale disposizione stabilisce un obbligo giuridico per ‘chiunque’ trovi abbandonato o smarrito un incapace, oppure un corpo umano che sembri inanimato o una persona ferita o altrimenti in pericolo, di prestare assistenza o, quanto meno, di avvisare l’autorità.

Per definire correttamente la situazione nella quale sussiste l’obbligo giuridico di prestare soccorso è necessario chiarire quale sia il significato esatto del termine ‘trovare’.

Secondo una interpretazione prevalente, patrocinata da una parte della dottrina e accolta dalla giurisprudenza più recente, “trovare significa imbattersi (casualmente o meno), e anche trovarsi in presenza: non vi rientra quindi il semplice venire a conoscenza”[36]. Il ritrovamento implica, dunque, una presa di contatto diretto con la persona in pericolo, per cui non commette il reato di omissione di soccorso colui che, chiamato ad intervenire da parte di altri, oppure telefonicamente dalla stessa persona in difficoltà, non intervenga[37].

Nella prima ipotesi dell’art.593 c.p., ovvero ritrovamento di un incapace, la condotta incriminata consiste nell’omettere di dare avviso all’autorità, mentre nella seconda ipotesi, ovvero ritrovamento di un corpo che sembri inanimato o di una persona ferita, consiste nell’omettere di prestare l’assistenza occorrente o di dare immediato avviso all’autorità.

In tale seconda ipotesi “assistenza significa quel soccorso che si profila necessario, tenuto conto del modo, del luogo, del tempo e dei mezzi, per evitare il danno che si profila. Se il pericolante la rifiuta, il soccorritore non è esentato per ciò solo dall’obbligo, il quale sussiste anche nel caso che la persona si sia volontariamente posta nella situazione di pericolo (es. l’individuo si è gettato nel fiume per suicidarsi)”[38].

Occorre, inoltre, precisare che “per quanto la legge sembri equiparare nell’alternativa l’obbligo di assistenza a quello di avviso, non vi è dubbio che, se è indispensabile un’assistenza immediata e il soggetto è in grado di prestarla, egli è tenuto in primo luogo a fornire il soccorso”[39].

Perché si concretizzi l’omissione di soccorso è necessario che la persona trovata versi in una situazione di pericolo concreto (per la vita o l’incolumità), mentre non importa che la persona non soccorsa abbia ricevuto da questa omissione un danno (in tal caso il delitto è aggravato e soggetto ad una pena più severa).

A questo punto, bisogna cercare di capire di quale reato risponda l’infermiere che omette di prestare il soccorso d’urgenza. L’art. 593 c.p. dovrebbe, infatti, di regola, riferirsi solo a casi particolari, caratterizzati da un evento fortuito ed occasionale, nel corso del quale il sanitario venga a trovarsi in una situazione in cui sia necessario soccorrere una persona bisognosa di aiuto, mentre nei casi di mancata assistenza durante la regolare attività lavorativa trovano, di solito, applicazione le diverse ipotesi di reato di rifiuto di atti d’ufficio o di abbandono di incapaci[40].

A tal proposito, appare utile distinguere tra:

– l’infermiere che trovi una persona in pericolo, come comune cittadino (per esempio in un incidente stradale): egli risponderà come ogni comune cittadino di omissione di soccorso;

– l’infermiere in servizio presso le aziende del Servizio sanitario nazionale che rifiuti di prestare assistenza, o abbandoni il malato o il reparto durante l’attività lavorativa: egli risponderà del reato di rifiuto di atti d’ufficio o del reato di abbandono di persone incapaci, e se da questo comportamento deriva una lesione o, addirittura, la morte, egli risponderà dei reati più gravi di lesioni e omicidio colposi;

– l’infermiere che sia chiamato a soccorre una persona in pericolo e non vi si rechi: egli non risponderà di alcun reato in quanto non ricorrono i presupposti dell’omissione di soccorso (per commettere il reato occorre, infatti, secondo la giurisprudenza prevalente, ‘imbattersi’ nel pericolante)[41].

 

 

3.6         Il rifiuto di atti d’ufficio

 

Il rifiuto di atti d’ufficio configura un’altra ipotesi di reato omissivo, di cui può rendersi responsabile l’infermiere. Diversamente dal reato di omissione di soccorso, che può essere commesso da chiunque, il rifiuto di atti d’ufficio può essere commesso soltanto da colui che riveste la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (pertanto, nel caso dell’infermiere, dal dipendente di una struttura sanitaria pubblica o convenzionata)[42].

L’art. 328 c.p. dispone che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni” [43].

Atti dell’ufficio sono gli atti dovuti e legati alla competenza funzionale del soggetto. Il rifiuto consiste, dunque, nel diniego di compiere un atto doveroso.

Il sanitario, che riveste lo status di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, ha il dovere, dunque, di non rifiutare un atto del proprio ufficio che, per ragioni di sanità, deve essere compiuto senza ritardo. Il riferimento è “all’atto che ha, per propria natura e a prescindere dall’espressa previsione di un termine entro il quale deve essere compiuto, il carattere dell’indifferibilità, nel senso che deve essere compiuto immediatamente per non pregiudicarne, sia pure potenzialmente, l’utilità e per non determinare l’aumento del rischio per gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice”[44].

Lo scopo della norma prevista dall’art. 328 c.p. è, infatti, quello di “tutelare, oltre al buon andamento dell’attività della Pubblica Amministrazione, i beni giuridici finali elencati nella medesima disposizione (nella specie, sanità), concepita come delitto, di pericolo concreto; viene, quindi, in rilievo il solo danno potenziale, non essendo necessario che dal mancato compimento dell’atto derivi effettivamente un danno”[45].

Il reato di rifiuto di atti d’ufficio, infatti, si realizza a seguito del comportamento omissivo dell’agente, indipendentemente da eventuali conseguenze dannose per il paziente (morte o aggravamento), la cui realizzazione può determinare il concorso con i reati di omicidio colposo e lesioni colpose[46].

Per quanto concerne, specificatamente, la professione infermieristica, la realizzazione di tale reato si configura ogni qualvolta l’infermiere rifiuti una prestazione dovuta, indipendentemente dalle conseguenze lesive per la salute del malato che derivino da tale comportamento. L’indebita omissione si configura in relazione ad atti non solo direttamente mirati a finalità di cura, ma anche di igiene e di accudimento del paziente, o, semplicemente, di verifica circa le necessità del degente che richiede l’intervento.

Si è ritenuto, pertanto, che “integra la fattispecie del rifiuto di compiere un atto di ufficio il comportamento di una infermiera che, richiesta da un paziente di procedere alla sua pulizia – fattispecie relativa alla pulizia di un paziente portatore di una stomia intestinale le cui feci erano fuoriuscite per il mal posizionamento della sacca – per motivi di igiene e sanità, la ritardi in quanto impegnata nell’attività di distribuzione del vitto, in quanto l’operazione di pulizia personale rivestiva carattere d’urgenza e la prescrizione di tale compito non necessitava di un ordine specifico del medico, sussistendo una direttiva emanata ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 225 del 1974, impartita in via generale e sulla base di turni di servizio”[47].

Ancora,“commette il reato di rifiuto di atti d’ufficio l’infermiere di un reparto di degenza che si rifiuti senza valida giustificazione di accompagnare un paziente in ambulanza in altro ospedale per eseguire un esame radiologico. La prassi di accompagnare un paziente ricoverato in un reparto di degenza in ambulanza presso altro ospedale a effettuare esami radiologici è certamente valida per qualunque ospedale in quanto basata sulla logica considerazione che detto accompagnamento va fatto proprio dall’infermiere che ha seguito colui che è ricoverato nel suo reparto e ne conosce meglio degli altri le problematiche patologiche e le opportune attività di intervento assistenziale che potrebbero rendersi necessarie lungo il percorso”[48].

 

 

 

 

3.7         L’omissione di referto e l’omessa denuncia di reato

 

Nello svolgimento della professione infermieristica, oltre all’assolvimento dei compiti direttamente concernenti l’attività assistenziale, rientrano anche doveri istituzionali di altra natura, tra i quali figura quello di collaborare con l’Autorità giudiziaria. Questa cooperazione si esplica, in primo luogo, nel dovere, per il professionista sanitario, di segnalare all’Autorità eventuali fatti criminosi riscontrati nell’esercizio della propria professione.

Tale dovere è previsto espressamente da alcune norme del codice penale che obbligano gli esercenti una professione sanitaria (sia in veste di libero professionista, sia in veste di pubblico dipendente) a procedere alla segnalazione all’Autorità giudiziaria di alcuni reati, secondo diposizioni diversificate a seconda della qualifica giuridica assunta dal professionista nello specifico contesto nel quale egli è venuto a contatto con il fatto-reato. Il mancato rispetto del suddetto dovere configura esso stesso un reato, per il quale sono previste sanzioni penali[49].

Gli articoli di riferimento del codice penale sono:

– l’ art. 361 (Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale), il quale dispone che “Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’autorità giudiziaria, o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516 (…).

Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa”;

– l’art. 362 (Omessa denuncia di reato da parte di un incaricato di pubblico servizio), secondo cui “L’incaricato di un pubblico servizio che omette o ritarda di denunciare all’autorità indicata nell’articolo precedente un reato del quale abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa del servizio, è punito con la multa fino a euro 103.

Tale disposizione non si applica se si tratta di reato punibile a querela della persona offesa, né si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l’esecuzione del programma definito da un servizio pubblico”;

– l’art. 365 (Omissione di referto), secondo cui “Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’autorità indicata nell’art. 361 è punito con la multa fino a euro 516.

Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”[50].

Gli artt. 361 e 362 c.p. sono relativi al sanitario che svolge la sua attività come dipendente pubblico, assumendo, quindi, la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, mentre l’art. 365 c.p. si riferisce all’obbligo di referto per coloro che esercitano l’attività sanitaria in forma libero-professionale.

Il referto rappresenta, in sostanza, una denuncia obbligatoria che ha lo scopo di informare l’Autorità giudiziaria dell’esistenza di un delitto perseguibile d’ufficio[51].

Tra i delitti perseguibili d’ufficio che possono concernere l’ambito sanitario si segnalano, in particolare:

– delitti contro la vita (omicidio, omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio, morte conseguente ad altro delitto, abbandono di minori ed incapaci, infanticidio) e i delitti contro l’incolumità individuale (lesioni personali);

– delitti contro l’incolumità pubblica (attività pericolose che espongono al rischio di epidemie, intossicazioni, di danni provocati da alimenti, bevande o medicinali guasti);

– delitti sessuali (violenza commessa su minore di anni 14, violenza commessa da genitore, convivente, tutore, ecc.);

– delitto di interruzione della gravidanza;

– delitti di manomissione del cadavere (vilipendio, distruzione, occultamento);

– delitti contro la libertà individuale (sequestro di persona, violenza privata);

– delitti contro la famiglia (abuso dei mezzi di correzione e di disciplina; maltrattamenti in famiglia verso fanciulli).

L’obbligo di redigere il referto spetta a tutti coloro che esercitano una professione sanitaria (medici, infermieri, ostetriche, ecc.), i quali abbiano svolto la propria assistenza od opera, cioè siano intervenuti direttamente e materialmente mediante attività assistenziale od anche di altra natura (es. redazione di un certificato in caso di morte), in un contesto, in cui, verosimilmente, è stato commesso un reato perseguibile d’ufficio[52].

L’obbligo deriva, quindi, da un intervento attivo sulla persona e sussiste per qualsiasi tipo di attività professionale giacché mentre il termine ‘assistenza’ allude ad un’attività terapeutica, spesso caratterizzata da pluralità e continuità, la parola ‘opera’ si riferisce ad ogni altro tipo di attività sanitaria, anche transitoria ed occasionale[53].

Il referto deve essere presentato in relazione ai casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d’ufficio. La scelta dell’espressione ‘possono presentare i caratteri’ indica che l’obbligo di inviare il referto sussiste anche nei casi dubbi, nei quali il professionista non ha certezza che il reato sia stato effettivamente commesso, oppure ignora se si tratti di un reato procedibile d’ufficio o a querela.

Il referto, quindi deve essere presentato, anche di fronte al solo sospetto che si possa trattare di un reato procedibile d’ufficio, in quanto spetterà alla magistratura verificarne la reale sussistenza. Il giudizio sulla possibilità, però, non va fatto in astratto, ma in concreto, tenendo conto di tutte le modalità e circostanze del caso singolo[54].

Così, ad esempio, nell’ipotesi in cui un infermiere, durante una prestazione domiciliare di tipo libero professionale nei confronti di un minore, rilevi la presenza di lesioni traumatiche per le quali i genitori forniscano spiegazioni poco convincenti, e sussista dunque la concreta possibilità che il bambino sia vittima di maltrattamenti (delitto perseguibile d’ufficio), egli è tenuto a fare referto, anche senza avere certezza del fatto, purché, ovviamente, gli elementi di dubbio siano fondati; in caso di mancato invio del referto l’infermiere non sarebbe responsabile solo nel caso di errore in buona fede (art. 47 c.p.) o determinato dall’altrui inganno (art. 48 c.p.), che lo induca a valutazioni errate sulla causa del traumatismo[55].

Le modalità di compilazione e gli altri aspetti formali del referto sono stabiliti dal codice di procedura penale all’art. 334. Secondo tale disposizione il referto va presentato entro 48 ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente, termine quest’ultimo riferito a quei casi in cui l’autorità giudiziaria deve intervenire senza indugio (ad esempio per interrogare la persona ferita, essendoci il rischio di un aggravamento delle sue condizioni cliniche con pericolo di morte). Il referto deve essere indirizzato al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui il sanitario ha prestato la propria opera o assistenza, ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino (comma 1).

Quanto al contenuto, il referto deve indicare la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto altro valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre circostanze dell’intervento; inoltre deve fornire tutte le informazioni che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare (comma 2).

Se più persone hanno prestato la loro assistenza nella medesima occasione, sono tutte obbligate al referto, con facoltà di redigere e sottoscrivere un unico atto (comma 3)[56].

L’obbligo del referto non è illimitato. Il secondo comma dell’art. 365 c.p., infatti, specifica che tale obbligo non sussiste quando il referto esporrebbe la persona assistita al procedimento penale. Si tratta, cioè, dei casi in cui l’assistito sia responsabile del reato che dovrebbe essere segnalato all’Autorità giudiziaria (ad esempio, ferimento nel corso di una rissa o di una rapina).

Con tale disposizione viene riconosciuta priorità alla tutela della salute dell’assistito, ritenuta prevalente rispetto all’interesse dello Stato di individuare e perseguire penalmente gli autori di un delitto. Il fine dell’esenzione è quello di evitare che una persona ferita o comunque bisognosa di cure decida di non ricorrere all’assistenza sanitaria necessaria, mettendo così a rischio la propria salute o vita, nel timore di dover rendere conto di un eventuale delitto compiuto[57].

Nel caso in cui, invece, il sanitario svolga la propria attività come pubblico dipendente, e, quindi, in veste giuridica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, gli articoli di riferimento del codice penale (artt. 361 e 362) dispongono che anche per tali soggetti sussiste l’obbligo di informare l’Autorità giudiziaria dell’esistenza di reati, mediante la trasmissione di un documento che prende il nome di denuncia di reato.

L’obbligo di denuncia ricade, dunque, su tutti i sanitari compresi nelle categorie dei pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio che abbiano notizia di un reato perseguibile d’ufficio mentre si trovano nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni o dei propri servizi. L’omissione di tale denuncia, così come per il referto, costituisce un delitto contro l’attività giudiziaria.

Per i pubblici dipendenti, però, a differenza dei liberi professionisti, l’obbligo di denunciare il reato sussiste anche se il dipendente è semplicemente venuto a conoscenza del fatto, non essendo indispensabile che egli abbia prestato materialmente la propria opera o assistenza[58].

Per quanto riguarda gli aspetti formali, l’art. 331 c.p.p. specifica che la denuncia deve essere presentata senza ritardo con un documento in forma scritta al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria (comma 1).

Quanto al contenuto, secondo l’art. 332 c.p.p. la denuncia deve riportare gli elementi essenziali del fatto, il giorno in cui il professionista è venuto a conoscenza della notizia e le fonti di prova eventualmente già note. Devono, inoltre, essere annotate, per quanto possibile, le generalità, il domicilio e tutto quanto può essere utile all’identificazione della persona alla quale il fatto è attribuito, della vittima e di coloro che siano in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione degli avvenimenti (comma 1)[59].

 

 

3.8         La violazione del segreto professionale e del segreto d’ufficio

 

Tra i doveri che si impongono nello svolgimento dell’attività infermieristica vi è anche quello di mantenere il riserbo sulle notizie che l’infermiere apprende nel rapporto con il paziente. La violazione di tale dovere, oltre che costituire una trasgressione del Codice deontologico, rappresenta una condotta passibile di sanzione penale, in quanto espressamente qualificata come reato dagli artt. 622 c.p. (rivelazione del segreto professionale) e 326 c.p. (rivelazione del segreto d’ufficio)[60].

Le due fattispecie si differenziano in base alla qualifica giuridica che il colpevole ricopre al momento in cui commette il reato: il segreto professionale riguarda i liberi professionisti, in particolare coloro che assumono la qualifica di esercente un servizio di pubblica necessità, mentre il segreto d’ufficio riguarda i dipendenti pubblici, ovvero coloro che assumono la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

Per quanto riguarda il segreto professionale, l’art. 622 c.p. dispone che: “Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da euro 30 a euro 516 (…). Il delitto è punibile a querela della persona offesa”[61].

La fattispecie in esame intende dare tutela a quella esigenza di mantenere il segreto su dati, notizie ed informazioni di cui si viene a conoscenza nell’esercizio di tutte quelle attività cui il cittadino è costretto a far ricorso nei differenti ambiti della vita sociale da quello commerciale o giuridico a quello sanitario e così via[62].

La norma non dice quali siano le categorie di professionisti obbligati al segreto, preferendo, invece, “indicare talune situazioni personali quali lo stato, l’ufficio, la professione e l’arte, che potrebbero racchiudersi nel comune concetto di professione in senso lato. Esse presuppongono un’attività continua e caratteristica, ancorché non necessariamente abituale, esclusiva o principale della persona, diretta a servizi personali o a prestazioni a favore dei richiedenti”[63].

In particolare la categoria ‘professione e arte’ fa riferimento ad ogni forma di attività di carattere intellettuale e manuale, essenzialmente esercitata a fine di lucro a favore di chi ne faccia richiesta o ne abbia bisogno[64]. Ad essa si possono, dunque, ascrivere i professionisti sanitari, come medici, farmacisti, infermieri e ostetriche.

Occorre, innanzitutto,  precisare che il segreto costituisce sempre qualcosa che afferisce alla sfera privata e intima del soggetto (salute, onore, famiglia, credo religioso, ideologia politica, ecc.). Per segreti possono intendersi tutti quei fatti e tutte quelle circostanze che “l’assistito ha interesse a non far conoscere, perché la loro conoscenza rappresenterebbe o potrebbe rappresentare per lui una causa di danno”[65].

Analogamente, in relazione all’ambito sanitario, la nozione di segreto riguarda qualsiasi tipo di notizia personale che il paziente non vuole divulgare, quindi non solo legata al proprio stato di salute, ma anche inerente ad aspetti della vita intima (che l’infermiere può apprendere, per esempio, frequentando l’ambiente domestico nel corso di una prestazione domiciliare). Tale segreto deve essere mantenuto anche dopo la morte del paziente.

Occorre precisare che la tutela penale esiste, però, solo per le notizie apprese in ragione della professionalità, ovvero in ragione del rapporto professionale tra sanitario e paziente. L’apprendimento della notizia può avvenire in maniera diretta, cioè tramite rivelazioni dell’assistito o dei familiari, ovvero indirettamente, mediante l’anamnesi, l’esame di documentazione clinica, l’osservazione della persona od anche frequentandone l’abitazione. L’apprendimento della notizia può avvenire anche mediante una rivelazione fatta in circostanze occasionali, che esulano dall’ambiente o dall’orario lavorativo (per esempio, per strada o in un locale pubblico); in ogni caso, se alla base della confidenza vi è il rapporto professionale tra paziente e sanitario, il mancato rispetto del riserbo è qualificabile come reato[66].

La condotta incriminata consiste nel rivelare il segreto o nell’impiegarlo per il proprio o altrui profitto. Dalla rivelazione o dall’utilizzo del segreto, però, non deve necessariamente derivare un danno all’assistito, essendo la punibilità del fatto subordinata all’aver creato anche solamente il pericolo di danno (è sufficiente che il danno sia solo ipotizzabile o possibile).

Quanto alla rivelazione, inoltre, essa assume rilevanza penale qualora avvenga senza giusta causa. Tale previsione ammette, quindi, implicitamente, che, in alcune circostanze, la rivelazione del segreto sia possibile, o addirittura obbligata, per il professionista sanitario.

Nell’ambito delle giuste cause di rivelazione si distingue tra cause legali, ovvero quelle che trovano un riferimento in una norma di legge, e cause socialmente rilevanti, le quali, invece, si riferiscono a situazioni in cui la rivelazione può rendersi opportuna per la salvaguardia di altri soggetti[67].

Giuste cause legali provengono dalle disposizioni di legge che obbligano il sanitario a fornire notizie che altrimenti sarebbero coperte dal segreto più rigoroso. Tali evenienze riguardano le denunce di malattie infettive, i referti, le denunce di reato, le certificazioni obbligatorie, ecc., e tutti quei casi in cui il sanitario abbia il dovere di informativa. In queste ipotesi, tale dovere, infatti, prevale sul diritto del paziente al segreto poiché vi è la necessità di tutelare interessi di preminente natura sociale, quali la salute pubblica, l’amministrazione della giustizia o l’interesse della pubblica amministrazione[68].

Inoltre, il reato non sussiste quando la rivelazione del segreto sia dovuta a caso fortuito o a forza maggiore (art. 45 c.p.), come, per esempio, nel caso di smarrimento di documenti riguardanti l’assistito; quando il sanitario sia stato costretto alla rivelazione mediante violenza fisica cui non poteva resistere o comunque sottrarsi (art. 46 c.p.). Neppure ricorre la violazione del segreto per il sanitario che abbia agito costretto da uno stato di necessità (art. 54 c.p.).

È esclusa altresì la sussistenza del reato nell’ipotesi di consenso dell’assistito alla rivelazione (che non esclude la natura segreta dei fatti, i quali possono essere rivelati solo alle persone e nei tempi che l’assistito può precisare) e nell’ipotesi di trasmissione del segreto. È noto, infatti, che per poter erogare prestazioni sanitarie di carattere diagnostico, curativo o preventivo, esiste spesso l’esigenza di un lavoro di équipe e quindi la compartecipazione di diverse figure professionali nonché il coinvolgimento di specifiche strutture o enti assistenziali, ragion per cui vi è la necessità di trasmettere il segreto. La trasmissione consiste, sostanzialmente, nel rendere partecipi del segreto professionale altre persone o enti interessati allo stesso caso, a loro volta vincolati all’obbligo del segreto[69].

Le cause socialmente rilevanti riguardano, invece, fattispecie non espressamente previste dalla legge, ma alle quali il sanitario può fare riferimento quando l’interesse del singolo alla tutela della riservatezza è in conflitto con il diritto alla sicurezza della collettività o con il diritto alla salute di un altro individuo, per cui, in specifiche situazioni può rendersi opportuna la  rivelazione di notizie riservate. Tra gli esempi più tipici si riporta il caso dell’addetto ad un pubblico servizio, come, ad esempio, il conducente di un mezzo pubblico, affetto da una malattia (epilessia, gravi difetti sensoriali, turbe psichiche) che potrebbe compromettere la sicurezza del servizio stesso e porre in pericolo l’incolumità di altre persone[70].

Una situazione particolare riguarda l’obbligo di testimoniare in un processo, prevista dall’art. 200 c.p.p., che riconosce agli esercenti una professione sanitaria il diritto di astenersi dal deporre su quanto hanno conosciuto per ragioni della propria professione, salvi i casi in cui abbiano l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria (referto e denuncia di reato). L’astenersi dalla testimonianza costituisce, però, unicamente un diritto, non un obbligo, essendo il professionista libero di decidere a seconda delle circostanze, assumendosi comunque la responsabilità della propria decisione[71].

Peraltro, nel caso in cui il giudice abbia motivo di dubitare che la dichiarazione resa dal sanitario per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari; se risulta infondata ne può ordinare la deposizione.

La rivelazione del segreto d’ufficio, prevista dall’art. 326 c.p., invece, in quanto fattispecie di reato rivolta a professionisti qualificabili come pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, riguarda i sanitari che operano come pubblici dipendenti[72].

Il suddetto articolo dispone che: “Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualifica, rivela notizie di ufficio le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni  (…).

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni” [73].

A differenza del segreto professionale, il segreto d’ufficio vincola il sanitario non in virtù della sua professione, bensì in quanto riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. La sua rivelazione, inoltre, configura un reato contro la Pubblica Amministrazione, di cui viene leso l’interesse al regolare svolgimento di qualsiasi attività amministrativa.

Le notizie di ufficio che devono rimanere segrete sono tutte quelle che l’incaricato di un pubblico servizio ha l’obbligo giuridico di non rivelare. Tale obbligo può essere imposto in modo specifico da una norma di legge, da un regolamento, da un ordine del superiore, oppure dalla norma generale fissata dall’art. 15 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato[74].

Pertanto, sono stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 326 c.p. alcuni infermieri dipendenti “per aver informato gli impresari di pompe funebri dell’imminente o del già avvenuto decesso di persone ricoverate presso gli ospedali, ove essi prestavano servizio, dietro compenso di somme di danaro, allo scopo di procurare un vantaggio agli impresari medesimi favorendoli nell’acquisizione del servizio funebre. Tale attività comporta certamente la violazione del dovere di fedeltà del pubblico dipendente, per il perseguimento di scopi confliggenti con la natura dell’attività pubblica esercitata (…). Al riguardo si osserva che nel codice di comportamento approvato con D.M. della funzione pubblica in data 31 marzo 1994 si pone tra i doveri del pubblico dipendente anche quello di non utilizzare ai fini privati le informazioni di cui egli dispone per ragioni d’ufficio”[75].

Anche il segreto d’ufficio, come il segreto professionale, riceve una tutela processuale. L’art. 201 c.p.p. specifica, infatti, che “salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti”. Anche in questo caso il giudice, qualora dubiti che una persona si astenga dalla deposizione per motivi diversi dal segreto d’ufficio, provvederà agli accertamenti necessari.

In alcuni contesti peculiari l’obbligo di mantenere il segreto è espressamente previsto da leggi specifiche. Esse riguardano, in particolare, i casi di interruzione volontaria della gravidanza,  tossicodipendenza, AIDS, violenza sessuale, trapianti[76].

Per l’aborto volontario l’art. 21 della legge 22 maggio 1978, n. 194 specifica che “chiunque, (…) essendone venuto a conoscenza per ragioni di professione o di ufficio, rivela l’identità, o comunque divulga notizie idonee a rivelarla, di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell’art. 622 del c.p.”.

La legge 5 giugno 1990, n. 135 che ha disciplinato gli interventi in tema di AIDS tutela anch’essa la riservatezza, specificando, all’art. 5, che gli operatori che siano venuti a conoscenza di un caso di “infezione da HIV,  anche non accompagnato da uno stato morboso, sono tenuti a prestare la necessaria assistenza adottando tutte le misure occorrenti per la tutela della riservatezza della persona assistita”.

Allo stesso modo l’art. 120 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 riconosce al tossicodipendente che si sottoponga ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo presso un SERT il diritto all’anonimato.

Nei casi di violenza sessuale, invece, l’art. 734 bis c.p. punisce “chiunque (…) divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa, le generalità o l’immagine della persona offesa senza il suo consenso”.

Infine, la legge 1 aprile 1999, n. 91, recante “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti”, prevede all’art. 18 che il personale sanitario e amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l’anonimato dei dati relativi al donatore e al ricevente.

 

 

3.9         L’esercizio abusivo della professione

 

Le professioni sanitarie rientrano nel novero di quelle professioni il cui esercizio è consentito solo in presenza di determinati requisiti previsti dalla legge. In particolare, per l’esercizio della professione medica e della professione infermieristica, è necessario, innanzitutto, il conseguimento del titolo di laurea e l’iscrizione all’ordine professionale di appartenenza[77]; il medico deve, inoltre, ottenere il riconoscimento all’abilitazione professionale mediante il superamento dell’esame di Stato.

Lo svolgimento di attività che competono all’infermiere o al medico da parte di soggetti privi dei suddetti requisiti configura, pertanto, l’ipotesi di esercizio abusivo della professione, reato previsto dall’art. 348 c.p., in base al quale: “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, è punito con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa da euro 103 a euro 516”.

La norma in questione tutela, infatti, “l’interesse generale a che determinate professioni, in ragione della loro peculiarità e della competenza richiesta per il loro esercizio, siano svolte solo da chi sia provvisto di standard professionali accertati da una speciale abilitazione rilasciata dallo Stato”[78].

Ai fini della sussistenza del reato di esercizio abusivo di una professione è sufficiente il compimento di atti che rientrano nella competenza specifica di una determinata professione, anche se il soggetto che le compie è in grado di dimostrare piena competenza ed abilità; infatti, il reato si realizza anche se non viene provocato alcun danno al paziente.

Inoltre, per la configurabilità del reato non è richiesto il compimento di una serie di atti riservati, essendo, invece, sufficiente che l’attività non consentita sia stata svolta anche una sola volta[79].

Per quanto riguarda l’individuazione delle attività riservate alla professione infermieristica occorre rifarsi alle leggi di abilitazione, le quali specificano che l’infermiere è il professionista responsabile dell’assistenza generale infermieristica e individuano per l’esercizio di tale attività tre criteri guida e due criteri limite. I primi sono determinati dai contenuti del profilo professionale (decreto ministeriale n. 739/1994), dalla formazione di base e post-base ricevuta e dai codici deontologici. I due criteri limite sono dati, invece, dalle competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni sanitarie[80].

Occorre, peraltro, osservare che, a seguito dell’abolizione del mansionario, che stabiliva puntualmente e rigidamente quali fossero gli ambiti di competenza dell’infermiere, attualmente, può essere più difficile stabilire il discrimine tra atto medico ed atto pertinente alla competenza infermieristica.

In ogni caso, non vi sono dubbi che le fasi di diagnosi e di programmazione terapeutica competono al medico, mentre talora possono esservi perplessità in merito alla gestione e all’attuazione della procedura terapeutica[81].

Ad esempio, in un caso (riguardante fatti accaduti al tempo del mansionario) è stato assolto dal reato di esercizio abusivo della professione medica un infermiere che aveva praticato un’iniezione di anestetico per via epidurale esclusivamente perché si è ritenuta applicabile la scriminante di cui all’art. 59 c.p. (adempimento di un dovere), anche se l’attività specifica è stata ritenuta illecita in quanto di esclusiva competenza del medico anestesista[82].

In altro caso, proprio a testimoniare la difficoltà di giudizio in particolari circostanze, è stato assolto, in secondo grado, un infermiere di sala operatoria dall’imputazione di esercizio abusivo della professione, reato per il quale era stato, invece condannato in primo grado, poiché egli, in assenza dell’anestesista, ma su richiesta del chirurgo, aveva somministrato una dose di anestetico (peraltro già prescritto dal medico), in quanto il paziente si muoveva, consentendo in tal modo di portare a termine regolarmente l’intervento[83].

In un ulteriore caso, sono stati condannati per esercizio abusivo della professione medica due infermieri di una casa di riposo per aver somministrato a due anziane ospiti farmaci per i quali era necessaria la prescrizione medica[84].

Peraltro, oltre all’esercizio abusivo della professione medica da parte dell’infermiere, la qualificazione normativa attribuita alla professione infermieristica presuppone anche la possibilità del reato di esercizio abusivo di tale professione da parte di soggetti non abilitati. Ad esempio, in un caso è stato ritenuto responsabile del reato ex art. 348 c.p. un biologo per aver eseguito prelievi venosi a fini di analisi, in quanto si tratta di atti riservati ai medici e agli infermieri (sulla base della motivazione che l’esecuzione di interventi invasivi dell’integrità personale e potenzialmente nocivi per la salute possono essere svolti dal medico o da soggetti abilitati)[85].

 

 

3.10     I reati di falsità materiale e ideologica in atto pubblico. La cartella clinica e la cartella infermieristica.

 

Un approfondimento specifico deve essere riservato ai delitti di falso nei quali può incorrere il sanitario.

La falsità potrà concretarsi in una falsità materiale ex art. 476 c.p., che consiste nel fatto del pubblico ufficiale che “nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero”; oppure in una falsità ideologica ex art. 479 c.p., che consiste, invece, nel fatto del pubblico ufficiale il quale, “ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto sia stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”[86].

In merito alla differenza tra le due fattispecie, priva di particolari conseguenze pratiche per la sostanziale equiparazione tra le relative previsioni sanzionatorie (reclusione da uno a sei anni), è stato affermato che “la falsità ideologica si distingue da quella materiale proprio perché in essa l’atto, pur provenendo da chi ne risulta autore e non presentando alterazioni, contiene una attestazione non veridica effettuata al momento della compilazione. Invece, ogni aggiunta successiva all’atto, anche se operata dal suo autore, costituisce falsità materiale, punibile unicamente a tale titolo, sempre che non si identifichi in una mera correzione dell’atto, come tale non punibile”[87].

Per meglio precisare la distinzione si richiamano i due diversi significati che assume, in genere, il termine ‘falso’, e precisamente alla differenza tra ‘non genuinità’ e ‘non veridicità’. Il falso materiale si ha quando il documento non è genuino; il falso ideologico allorché il documento è bensì genuino, ma non è veridico, perché colui che lo ha formato gli fa dire cose contrarie al vero[88].

È necessario, a questo punto, precisare il significato che si deve attribuire all’espressione ‘genuino’. Affinché possa parlarsi di genuinità occorrono due condizioni: 1) che il documento provenga da colui che figura esserne autore; 2) che il documento non abbia subito alterazioni. In tal caso, per ‘alterazioni’ si devono intendere le modificazioni di qualsiasi specie (aggiunte, cancellature, ecc.) che al documento autentico vengono apportate dopo la sua definitiva formazione.

Da ciò si desume che il falso materiale, in quanto esclude la genuinità del documento, può presentarsi solo in due forme: nella forma della contraffazione, la quale si ha allorché il documento è posto in essere da persona diversa da quella da cui appare che provenga, e nella forma dell’alterazione, la quale si verifica quando il documento, redatto dall’autore, ha subito una di quelle modificazioni di cui si è detto[89].

Ciò premesso, le fattispecie penali di falso ideologico e materiale in atto pubblico possono essere applicate anche ai sanitari dipendenti o convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, attesa la qualità di pubblici ufficiali.

Nel contesto della responsabilità sanitaria, dunque, si ritiene che risponda del reato di falso in atto pubblico il sanitario che abbia eseguito manipolazioni, aggiunte od omissioni sulla cartella clinica alterando la valenza probatoria della stessa. La giurisprudenza, infatti, è concorde nel riconoscere la natura di ‘atto pubblico’ alla cartella clinica del paziente redatta dai sanitari di una struttura pubblica o convenzionata, in considerazione della sua funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti[90].

Occorre precisare che il termine cartella clinica deve essere riferito all’intero complesso di atti documentali che riguardano un determinato paziente nel corso della sua degenza ospedaliera, e pertanto esso comprende le generalità complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti e i postumi[91].

Una sintetica, ma esauriente, definizione di cartella clinica è quella di “documento sanitario che costituisce la verbalizzazione dell’attività propria del reparto ospedaliero con riferimento al singolo degente cui tale attività corrisponde”[92].

La cartella clinica rappresenta, quindi, una costante verbalizzazione di ciò che viene rilevato e di ciò che viene praticato, un insieme di documenti nei quali medici ed infermieri registrano un complesso di informazioni (anagrafiche, sanitarie, sociali, ambientali, giuridiche) concernenti uno specifico paziente dal punto di vista diagnostico-terapeutico, al fine di predisporre gli opportuni interventi medici, oltre a servire per svolgere indagini di natura scientifica, statistica e medico-legale.

In relazione all’aspetto medico-legale, la cartella clinica rappresenta un elemento di prova di valore assoluto, talora decisivo, nei procedimenti penali e civili per responsabilità sanitaria, per cui, nella sua redazione, devono essere rispettati alcuni requisiti essenziali che garantiscono la correttezza formale e sostanziale di tale documento, tenendo presente che esso, ove necessario, può essere sottoposto all’esame di magistrati, avvocati, consulenti o periti[93].

La giurisprudenza, come già anticipato, ha, infatti, riconosciuto in termini pacifici alla cartella clinica il carattere di atto pubblico, e tale riconoscimento comporta, innanzitutto, l’attribuzione dell’efficacia prevista dall’art. 2700 c.c.: “L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.

In altri termini, se un paziente, nel corso di un procedimento penale per responsabilità medica, sostiene che una determinata terapia annotata in cartella clinica, in realtà non gli fu mai somministrata, per contestare quanto riportato nella documentazione clinica è obbligato a formulare una querela di falso, che comporta l’avvio di un procedimento penale autonomo, parallelo rispetto a quello in corso per l’accertamento della responsabilità[94].

D’altra parte, come si è già avuto modo di precisare, proprio il riconoscimento alla cartella clinica del carattere di atto pubblico, comporta che nel caso di attestazione di fatti non rispondenti al vero o di alterazione della stessa, si configurino a carico del sanitario i reati di falsità materiale e falsità ideologica.

Nonostante l’importante valore giuridico della cartella clinica, non esistono precise disposizioni circa la sua corretta compilazione tecnica. Alcune indicazioni al riguardo possono trarsi dal Codice deontologico medico, il cui art. 26 prevede che: “la cartella clinica deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto della buona pratica clinica e contenere, oltre a ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate”.

Anche la giurisprudenza si è pronunciata, più volte, su questioni inerenti la corretta compilazione della cartella clinica, indicando alcuni requisiti formali e sostanziali che la stessa deve possedere[95]:

– veridicità: proprio per la sua funzione di comprovare fatti corrispondenti alla realtà e dotati di valore giuridico pubblico, la cartella clinica deve contenere, in maniera assolutamente rispondente al vero, esatta e completa, la verbalizzazione delle procedure assistenziali attuate sul malato. Occorre tener presente che anche l’incompletezza della verbalizzazione può essere ritenuta costitutiva di falso, se relativa all’omissione di informazioni non superflue, bensì degne di un certo rilievo in relazione ai fatti che esse devono comprovare. A tal proposito, è stato affermata la responsabilità del sanitario per falso ideologico in atto pubblico per aver omesso di annotare in cartella clinica un primo intervento di amniocentesi risultato nettamente ematico, annotando esclusivamente il secondo intervento descritto come limpido[96];

– chiarezza e comprensibilità: proprio per il fatto che la cartella clinica possa essere oggetto di esame da parte di soggetti diversi dai redattori (es. paziente, avvocati, magistrati) i contenuti devono essere chiari, sia in riferimento alla grafia che alla terminologia adottata. Le eventuali correzioni (modificazioni e aggiunte), poi, devono essere apportate lasciando inalterate le precedenti annotazioni, evitando il ricorso a cancellature o sbianchettature. Al riguardo, è stato affermato che commette il reato di falso materiale in atto pubblico chi modifica le annotazioni di una cartella clinica, anche se le modifiche corrispondono a verità o a precisazione o specificazione di un’annotazione troppo generica, perché un atto pubblico, allorché perfettamente formato, può essere modificato solo per mere correzioni di errori materiali[97].

– tempestività e contestualità: la verbalizzazione delle procedure attuate deve essere contestuale, cioè le annotazioni devono essere contemporanee all’evento descritto, compatibilmente con le esigenze dell’attività assistenziale. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che: “la cartella clinica, della cui regolare compilazione è responsabile il primario, adempie alla funzione di diario della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui annotazione deve quindi avvenire contestualmente al loro verificarsi, uscendo al tempo stesso dalla disponibilità del suo autore ed acquistando il carattere di definitività, per cui tutte le successive modifiche, aggiunte, alterazioni e cancellazioni integrano falsità in atto pubblico”[98].

Dal D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, relativo all’ordinamento interno dei servizi ospedalieri, si desume che la responsabilità della regolare compilazione, della tenuta e della custodia della cartella clinica, fino alla consegna all’archivio centrale, spetta al primario del reparto (attualmente direttore di struttura complessa). Egli deve anche vigilare sull’esattezza dei contenuti tecnici della cartella, sull’aderenza alla realtà obiettiva  di quanto vi è riportato e deve verificare la correttezza degli accertamenti richiesti, della diagnosi formulata e della terapia prescritta e praticata. Si tratta, dunque, di una corresponsabilità in quanto l’obbligo giuridico del primario è quello di vigilare che la compilazione della cartella, che avviene ad opera di medici e infermieri, sia sostanzialmente e formalmente regolare[99].

Dopo le dimissioni del paziente, la cartella clinica viene trasferita e conservata presso l’archivio centrale, e da quel momento la vigilanza e l’eventuale rilascio di copia agli aventi diritto spettano al direttore sanitario[100].

Parte integrante della cartella clinica è, inoltre, la cartella infermieristica, quale strumento operativo gestito dall’infermiere per la raccolta di tutte le informazioni utili riguardanti il paziente. Di regola, fanno parte di questa cartella il piano di assistenza infermieristica, il diario infermieristico, le schede della terapia, dei parametri vitali e degli esami diagnostici, ed altre schede accessorie. Si sottolinea, tra questi elementi costitutivi, l’importanza del diario infermieristico, rappresentato da una scheda all’interno della quale vengono quotidianamente aggiornati i dati soggettivi e oggettivi afferenti alla salute del paziente, che possono essere trattati direttamente dall’infermiere o derivanti da prescrizioni mediche[101].

È appena il caso di rilevare che il riconoscimento del carattere di atto pubblico alla cartella clinica deve essere esteso anche al diario infermieristico, in quanto gli infermieri rientrano tra i soggetti incaricati di un pubblico servizio, e il codice penale, segnatamente l’art. 493 c.p., estende la disciplina delle falsità documentali, ivi compresa quella che attiene agli atti pubblici, ai documenti redatti dagli incaricati di pubblico servizio, nell’esercizio delle loro mansioni. Ne discende che, laddove sia prevista la compilazione del diario infermieristico, anche agli infermieri, sussistendone i presupposti, possono essere applicate le fattispecie penali di falso ideologico e falso materiale, di cui agli artt. 476 e 479 c.p.[102].

 

 

3.11     I delitti contro la libertà personale

 

Durante l’esercizio dell’attività professionale possono configurarsi a carico del personale sanitario alcuni reati che rientrano nei c.d. delitti contro la libertà personale, come la violenza privata, l’incapacità procurata mediante violenza e il sequestro di persona.

Per quanto riguarda il sequestro di persona, in base all’art. 605 c.p., si rende responsabile di questo reato “chiunque priva taluno della libertà personale”, la quale va intesa come libertà di movimento fisico[103].

In ambito sanitario, il reato in oggetto può essere commesso da medici o infermieri soprattutto a danno di pazienti psichiatrici, geriatrici o tossicodipendenti, qualora, ad esempio, la degenza venga attuata forzatamente senza il rispetto dei requisiti previsti dalla legge, ovvero, se nel corso di una degenza disposta legittimamente vengano adottate, in maniera ingiustificata, procedure limitative della libertà personale, come la contenzione fisica[104].

La violenza privata, prevista dall’art. 610 c.p., consiste, invece, nel fatto di colui che, “con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”. Scopo della norma è la necessità di tutelare la possibilità di determinarsi autonomamente, secondo motivi propri, che rappresenta uno degli aspetti essenziali della libertà personale e che generalmente viene detta libertà morale[105].

Si tratta di un reato che, sotto il profilo sanitario, consiste nell’esercitare costrizione fisica o psicologica su di un’altra persona, costringendola a fare o tollerare procedure indesiderate, e si realizza, ad esempio, quando, l’operatore imponga ad un paziente un intervento terapeutico contra la sua volontà[106].

Lo stato di incapacità procurata mediante violenza, infine, si realizza, secondo il disposto dell’art. 613 c.p., allorquando l’agente “mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere o di volere”.

Tale reato può realizzarsi in ambito sanitario, qualora, ad esempio, il paziente venga sottoposto ad un’anestesia o ad una sedazione farmacologica, senza il suo consenso e in assenza di giustificate necessità assistenziali[107].

 

 

3.11.1    L’infermiere e la contenzione fisica del paziente

 

Le fattispecie di reato di cui si è detto al paragrafo precedente possono trovare peculiare applicazione in ambito psichiatrico e geriatrico, specie in relazione ad una ingiustificata o scorretta adozione della c.d. contenzione fisica.

Occorre premettere che la diffusione dei mezzi di contenzione fisica (ad esempio, cintura per sedia, bracciali a polsi e caviglie, corpetti con bretelle e cinture, spondine complete per letto) rappresenta un aspetto assai dibattuto dell’assistenza alle persone non autosufficienti ed è tra le problematiche che riguardano anche il personale infermieristico[108].

È necessario, innanzitutto, partire dalla definizione di contenzione: essa è un atto sanitario-assistenziale che utilizza, con o senza il consenso della persona interessata o dei familiari, mezzi fisici o meccanici applicati al corpo e allo spazio circostante la persona per limitarne i movimenti. Il concetto di atto sanitario-assistenziale richiama quelli di prevenzione e cura: l’obiettivo che si prefigge la contenzione deve essere esclusivamente l’aiuto assistenziale, ovvero la salvaguardia dell’integrità psicofisica del paziente. Scopi diversi dalla tutela del paziente ‘fragile’, portatore di deficit cognitivi, o di patologie di rilevanza psichiatrica (le situazioni cliniche più frequenti sono legate al disorientamento nel tempo e nello spazio, alla iperattività associata a stato confusionale, alla prevenzione delle cadute accidentali, al trasporto in barella), rendono l’uso della contenzione illecito, anche penalmente[109].

Si pensi alla contenzione come mero strumento di riduzione del lavoro assistenziale, o per sopperire a carenze organizzative, o addirittura dettata da motivazioni di carattere punitivo: in questi casi, si possono configurare a carico del sanitario i reati di violenza privata, maltrattamenti, incapacità procurata mediante violenza, e persino sequestro di persona.

In proposito, si cita il caso deciso dal Tribunale di Napoli nel quale rimase uccisa, vittima di un incendio, una donna costretta in un letto di contenzione. Le indagini appurarono che il ricorso al letto di contenzione non era giustificato da alcun interesse terapeutico o di tutela del paziente, bensì al solo scopo di garantire “sonni tranquilli ai sanitari e alle vigilatrici”. Si era rilevato, inoltre, che spesso tale pratica veniva attuata nei confronti di tutti i pazienti del manicomio durante le ore notturne, anche se, ovviamente, non ve ne era alcuna traccia nelle cartelle cliniche[110].

Poiché la contenzione fisica e/o farmacologica[111], pur finalizzata alla prevenzione e alla salvaguardia della salute, priva il paziente di un bene fondamentale quale la libertà personale, dovranno essere preventivamente valutati tutti i possibili provvedimenti sostitutivi e/o alternativi alla contenzione: l’obiettivo deve essere quello di una riduzione dell’uso dei mezzi di contenzione, in quanto allo stato non pare possibile una loro completa abolizione. In breve, la contenzione deve essere misura eccezionale o di emergenza, cioè l’unica misura che, in rapporto allo specifico paziente ed al contesto in cui lo stesso è inserito, consenta di tutelare al meglio la sua integrità psicofisica, impedendo che il comportamento del paziente costituisca un pericolo per sé o per altri: è il caso, ad esempio, dei pazienti non autosufficienti ad elevato rischio di subire fratture a seguito di cadute, oppure da sottoporre a trattamenti terapeutici intensivi e continuativi[112].

Al di fuori dei casi in cui la contenzione risulti essere la sola misura idonea a salvaguardare l’integrità psicofisica del paziente, “l’applicazione di misure di contenzione fisica diventa impropria, perdendo il significato di prevenzione per assumere quello di ingiustificato strumento di limitazione dei diritti (inviolabili) della persona”[113].

Significativa in proposito l’indicazione contenuta nel previgente Codice deontologico degli infermieri: “L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione fisica e farmacologica sia evento straordinario e motivato, non metodica abituale di accadimento. Considera la contenzione una scelta condivisibile quando si configuri l’interesse della persona e inaccettabile quando sia una implicita risposta alle necessità istituzionali” (art. 4, comma 11). La recente versione del Codice deontologico (2009), inoltre, legittima l’uso della contenzione non solo dietro prescrizione medica, ma anche in seguito a documentate valutazioni assistenziali.

Da ciò si evince che nel caso di contenzione fisica (o farmacologica) la posizione dell’infermiere non è più quella di ‘spettatore’ della decisione medica ed esecutore di prescrizioni (com’era, invece, al tempo del mansionario). Al contrario, anche l’infermiere si assume la responsabilità di codefinire la contenzione, nel senso che anch’egli partecipa alla scelta del medico rispetto alla quale, come si deduce dal Codice deontologico, può essere dissenziente: in questa ipotesi, l’infermiere può riportare per iscritto nella cartella del paziente il proprio dissenso[114].

Naturalmente, la prescrizione dei mezzi di contenzione è di esclusiva competenza medica, alla stregua di qualsiasi altro intervento terapeutico: la prescrizione dei mezzi di contenzione deve riportare la motivazione, la scelta del tipo di contenzione, la durata e il tempo di rivalutazione della sua reale necessità.

Laddove sia concretamente possibile, è necessario spiegare all’assistito e ai suoi familiari, e ciò vale sia per il medico che per l’infermiere, lo scopo della contenzione, la procedura e la durata dell’intervento, al fine di ottenere un consenso informato dal paziente: l’eventuale dissenso espresso da quest’ultimo deve essere annotato nella cartella clinica o in un modulo allegato ad essa, sottoscritto dal paziente e dal medico. Ovviamente il professionista, in collaborazione con lo staff del reparto ove il paziente è ricoverato, deve procedere all’elaborazione di strategie alternative al fine di evitare la realizzazione di quel rischio che, attraverso l’applicazione delle misure di contenzione, si voleva evitare.

Viceversa, se il paziente è legalmente interdetto, il consenso e/o dissenso sarà manifestato dal tutore oppure, se nominato, dall’amministratore di sostegno che sia stato all’uopo autorizzato dal giudice tutelare[115].

Le situazioni più delicate sono indubbiamente quelle ‘limite’, ovvero dove il paziente, ad esempio, affetto da demenza, sia però ancora in grado di valutare correttamente una situazione e prendere, quindi, una decisione al riguardo. Spetterà al medico assumersi la responsabilità di vagliare, volta per volta, le capacità decisionali e di comprensione del paziente, e nel dubbio fare ricorso al giudice tutelare.

L’applicazione delle misure di contenzione richiede, inoltre, da parte dell’infermiere l’adozione di tutte quelle regole di prudenza e diligenza atte ad evitare che il paziente subisca danni fisici dall’uso degli stessi, come lesioni traumatiche (ematomi, abrasioni), asfissia, patologie funzionali ed organiche (lesioni da decubito, infezioni, ecc.): in difetto, si profila a carico dell’infermiere una responsabilità per le lesioni arrecate al paziente[116].

Fermo restando che l’uso dei mezzi di contenzione deve costituire ipotesi eccezionale, limitata quanto più possibile nell’arco della giornata o del tempo successivo, sia che si tratti di provvedimento episodico, sia che riguardi un intervento programmato, va osservato che solo in caso di emergenza, in assenza del medico, l’infermiere può decidere in via autonoma di applicare temporaneamente una misura di contenzione, che dovrà comunque essere ratificata dal medico nel più breve tempo possibile[117].

Un aspetto di particolare rilievo su cui è bene insistere è che “l’adozione di un trattamento che contempli una pratica di contenzione non dovrebbe essere ‘improvvisata’, ma dovrebbe configurarsi come punto di arrivo di un percorso scientifico e pragmatico, sempre rigorosamente documentato e motivato, quanto a presupposti, tipo di contenzione e durata: la necessità di prolungare l’uso della contenzione deve avvenire solo dopo la verifica delle condizioni del malato, e in ogni caso durante il periodo di contenzione è necessario effettuare frequenti controlli sul paziente, anche per valutare gli eventuali effetti dannosi direttamente attribuibili ai mezzi utilizzati (ad esempio, abrasioni o ulcere da decubito). In definitiva, durante tutto il periodo in cui viene ‘contenuto’, il paziente deve essere assistito in maniera continuativa e personalizzata: la contenzione, al pari di qualsiasi altro atto sanitario, non è mai un processo statico ma è dinamico, in quanto l’applicazione della misura deve essere rivalutata sia nel perseguimento degli obiettivi, sia nei suoi standard procedurali”[118].



[1] FIANDACA G. – MUSCO E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, Zanichelli, Bologna, 2011. In argomento cfr. anche RAMACCI F., I delitti di omicidio, Giappichelli, Torino, 1997; MARINI G., voce Omicidio, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Utet, Torino, 1994; MARINI G., Delitti contro la persona, Giappichelli, Torino, 1996.

[2] ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte speciale – I, Giuffrè, Milano, 2008, p. 43. Cfr. anche MANTOVANI F., Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Cedam, Padova, 2005; PALAZZO F.C., Persona (delitti contro la), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIII, Giuffrè, Milano, 1983; PANNAIN R., I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, Utet, Torino, 1965; PATALANO V., I delitti contro la vita, Cedam, Padova, 1984.

[3] VIGANO’ F. – PIERGALLINI C., Reati contro la persona e il patrimonio, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da PALAZZO F. – PALIERO C.E., Giappichelli, Torino, 2011. Sulla questione circa la natura del bene vita, l’opinione più risalente ritiene che la vita è da considerarsi protetta “non solo nell’interesse dell’individuo, ma anche nell’interesse della collettività”, in quanto “l’ordinamento giuridico attribuisce alla vita del singolo anche un valore sociale, e ciò in considerazione dei doveri che all’individuo incombono verso la famiglia e verso lo Stato” (ANTOLISEI F., op. cit., 2008, pp. 43-44). L’argomento normativo adottato a sostegno di tale impostazione risiede nella constatazione dell’indisponibilità del bene vita da parte del suo titolare, che si ricava dalla punibilità anche dell’omicidio di persona consenziente (art. 579 c.p.). Al contrario, la dottrina più recente ritiene che il bene giuridico vita vada letto in una dimensione individuale, e sottolinea come “l’indisponibilità dell’interesse alla vita da parte del suo titolare “non rappresenta altro che una caratteristica dell’oggetto della tutela, destinata ad incidere sul piano della disciplina applicabile, ma non è in grado di porre in discussione la dimensione esclusivamente individuale di tale interesse” (VENEZIANI P., I delitti contro la vita e l’incolumità individuale – II. I delitti colposi, in Trattato di diritto penale parte speciale, diretto da MARINUCCI G. – DOLCINI E., Cedam, Padova, 2009, p.11).

[4] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche MAIELLO V., voce Vita e incolumità individuale (delitti contro la), in Enciclopedia del diritto, vol. XLVI, Giuffrè, Milano, 1993; PATALANO V., voce Omicidio (diritto penale), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIX, Giuffrè, Milano, 1979; MANTOVANI F., op. cit., 2005.

[5] ANTOLISEI F., op. cit., 2008, p. 44. Si osserva, però, che se da un lato si registra un’ampia convergenza di vedute circa il fatto che il momento a partire dal quale viene ad esistenza una persona umana coincide con l’inizio del distacco del feto dall’utero, tale espressione “risulta ancora troppo generica e necessita di essere meglio specificata. Ed è proprio in sede di ulteriore specificazione di tale concetto che si profilano soluzioni diverse, che assumono a riferimento vuoi il momento in cui hanno inizio le doglie, vuoi quello in cui avviene la rottura del sacco delle acque” (VENEZIANI P., op. cit., 2009, p. 19).

[6] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011. Tale equiparazione, pur essendo riferita al fatto della madre commesso in condizioni di abbandono materiale e morale, riveste carattere generale, non essendo concepibile che il legislatore abbia voluto lasciare impuniti altri casi di feticidio, anche più gravi di quello espressamente tipizzato dall’art. 578 c.p.

[7] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[8] In argomento cfr. MANTOVANI F., voce Morte, in Enciclopedia del diritto, vol. XXVII, Giuffrè, Milano, 1977;  MANTOVANI F., op. cit., 2005.

[9] Si veda la letteratura generale citata supra, note 1 e 2.

[10] Si veda la letteratura generale citata supra, note 1 e 2. Nell’ambito della letteratura più recente cfr. VENEZIANI P., op. cit., 2009; VENEZIANI P., Regole cautelari “proprie” e “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Cedam, Padova, 2003; DASSANO F., La responsabilità medico-chirurgica: i limiti del penale, Giappichelli, Torino, 2003.

[11] In argomento v., nell’ambito della letteratura più recente, CAGLI S., Delitto preterintenzionale e principio di colpevolezza, in Casi e materiali di diritto penale. Parte generale, a cura di CADOPPI A. – CANESTRARI S., Giuffrè, Milano, 2002; MAGLIO M.G. – GIANNELLI F., La preterintenzione, in Rivista penale, La Tribuna, Piacenza, 2001.

[12] Cassazione penale, sez. IV, 30 settembre 2008, n. 37077, in www.altalex.com

[13] Cassazione penale, sez. V, 4 marzo 1992, Massimo, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1993, n. 2. Cfr. anche VIGANO’ F., Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2004, n. 3; MANNA A., Trattamento sanitario arbitrario: lesioni personali e/o omicidio, oppure violenza privata?, in L’Indice penale, Cedam, Padova, 2004, n. 2; EUSEBI L., Sul mancato consenso al trattamento terapeutico, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 1995, n. 3. Per un quadro di sintesi degli attuali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali v. VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[14] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011, p. 26.

[15] Art. 582 c.p. (Lesioni dolose): “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni (…)”.

Art. 590 c.p. (Lesioni colpose): “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309 (…)”.

[16] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011. Cfr. anche ZAGREBELSKY V., voce Lesioni personali e percosse, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990; BAIMA BOLLONE P. – ZAGREBELSKY V., Percosse e lesioni personali, Giuffrè, Milano, 1975; GALLISAI PILO M.G., voce Lesioni personali e percosse, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VII, Utet, Torino, 1993; MIRRI M.B., voce Vita e incolumità individuale (delitti contro la), in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXXII, Roma, 1994.

[17] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011, p. 63. Cfr. anche MANTOVANI F., op. cit., 2005.

[18] Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, vol. II, p. 379, in ANTOLISEI F., op. cit., 2008. È questa anche la nozione adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione: cfr., ad esempio, Cassazione penale, sez. VI, 16 marzo 1971, n. 343 e Cassazione penale, sez. V, 2 febbraio 1984, n. 5258, in CED Cassazione.

[19] ANTOLISEI F., op. cit., 2008, p. 78.

[20] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011, p. 64. Cfr. anche ANTOLISEI F., op. cit., 2008; MARINI G., op. cit., 1996; MANZINI V., Trattato di diritto penale italiano, vol. VIII, Utet, Torino, 1964; PANNAIN R., voce Lesioni e percosse, in Novissimo Digesto italiano, vol. IX, Utet, Torino, 1963; DOMENICI F., La medicina legale per il medico pratico, Wassermann, Milano, 1961; MACCHIARELLI L. – FEOLA T., Medicina legale, vol. I, Minerva Medica, Torino, 1995.

[21] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche BAIMA BOLLONE P., Medicina legale, Giappichelli, Torino, 2005.

[22] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche BAIMA BOLLONE P., op. cit., 2005.

[23] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche GALIANI T., voce Lesioni personali e percosse, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, Giuffrè, Milano, 1974.

[24] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche GALIANI T., op. cit., 1974.

[25] BAIMA BOLLONE P., op. cit., 2005.

[26] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011.

[27] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011. In argomento cfr. anche SCOLOZZI A., Sull’abbandono di persone minori o incapaci, in La Giustizia penale, 1986, n. 2; PANNAIN R., Abbandono di persone minori o incapaci, in Novissimo Digesto Italiano, vol. I, Utet, Torino, 1957; FIERRO CENDERELLI F., Abbandono di persone minori o incapaci, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. I, Utet, Torino, 1987.

[28] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche MANTOVANI F., op. cit., 2005.

[29] ANTOLISEI F., op. cit., 2008.

[30] PAPI L., Elementi di medicina legale per infermieristica, Edizioni Plus, Pisa, 2009. Cfr. anche BARBIERI G. – PENNINI A., La responsabilità dell’infermiere. Dalla normativa alla pratica, Carocci Faber, Roma, 2008.

[31] Cassazione penale, sez. V, 22 giugno 1990, n. 290, in  BENCI L., Aspetti giuridici delle professioni infermieristiche, McGraw Hill, Milano, 2011.

[32] Tribunale di Genova, 26 settembre 2006, in BENCI L., op. cit., 2011.

[33] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. In argomento cfr. anche GEBBIA M., voce Omissione di soccorso, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di CASSESE S., Giuffrè, Milano, 2006; CADOPPI A., Il reato di omissione di soccorso, Cedam, Padova, 2003; REINOTTI P.V., voce Omissione di soccorso, in Enciclopedia del diritto, vol. XXX , Giuffrè, Milano, 1980.

[34] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011, p. 86.

[35] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche MANTOVANI F., op. cit., 2005.

[36] ANTOLISEI F., op. cit., 2008, p. 126. Secondo una interpretazione più estensiva, sostenuta da un parte della dottrina e dalla giurisprudenza meno recente, il concetto di ritrovamento non presuppone necessariamente un contatto fisico diretto con la persona in pericolo: l’obbligo di soccorso sorgerebbe anche se la presa di conoscenza della situazione tipica avviene per via indiretta e mediata.

[37] PAPI L., op. cit., 2009. In tali casi, però, se il responsabile è un professionista sanitario, tale comportamento, anche se non punito penalmente, potrebbe configurare una violazione del Codice deontologico.

[38] ANTOLISEI F., op. cit., 2008, p. 127.

[39] ANTOLISEI F., op. cit., 2008, p. 127. Cfr. anche MUSCO E., voce Omissione di soccorso, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. III, Utet, Torino, 1994.

[40] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche CRISTIANI A., Le omissioni del medico ed il giudizio penale, Giappichelli, Torino, 2006.

[41] MANTOVANI F., op. cit., 2005.

[42] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche PAGLIARO A., Principi di diritto penale, parte speciale. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1994.

[43] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche ROMANO M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Giuffrè, Milano, 2006.

[44] Cassazione penale, sez. VI, 19 maggio 2005, Modenese, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2005, n. 39.

[45] Cassazione penale, sez. VI, 19 maggio 2005, Modenese, in op. cit., 2005.

[46] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche BONELLI A. – GIANNELLI A., La responsabilità del medico per omissione o rifiuto di assistenza urgente in riferimento anche al D.P.R. 27 marzo 1992, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 1992, n. 14.

[47] Cassazione penale, sez. VI, 27 settembre 2006, n. 39486, in BENCI L., op. cit., 2011.

[48] Corte di Appello di Caltanisetta, 19 giugno 2000, n. 248, in BENCI L., op. cit., 2011.

[49] PAPI L., op.cit., 2009. Cfr. anche BIRKHOFF J. M., Nozioni di medicina legale, FrancoAngeli, Milano, 2011;  RODRIGUEZ D. – APRILE A., Medicina legale per infermieri, Carocci Faber, Roma, 2004; BAIMA BOLLONE P., op. cit., 2005.

[50] V. MARINUCCI G. – DOLCINI E., Codice penale commentato, Ipsoa, Milano, 2011.

[51] A tal proposito cfr. FALLANI M., Medicina legale e delle assicurazioni, Esculapio, Bologna, 1988; BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011; DE PIETRO O., Il sanitario e il referto, Ambrosiana, Milano, 1986; ADAMO M. – BARNI M. – DELL’ERBA A. – QUERCI V. – FABRONI F. – FORNARI A. – BARGAGNA M., Manuale di medicina legale e delle assicurazioni, Monduzzi, Bologna, 1989.

[52] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche FIORI A., La medicina legale della responsabilità medica, Giuffrè, Milano, 1999.

[53] BAIMA BOLLONE P., op. cit., 2005.

[54] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011. Cfr. anche PANNAIN R., Referto (Omissione di), in Novissimo Digesto Italiano, vol. XIV, Utet, Torino, 1967; BASILE L., Il referto nella pratica medico-legale, in Rivista di medicina legale, Minerva medica, Torino, 1962, n.1.

[55] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche CAZZOLA M. – CHILIN G., L’infermiere e la legge, Maggioli, Rimini, 2008; RODRIGUEZ D. – APRILE A., op. cit., 2004.

[56] V. MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2011.

[57] PAPI L., op. cit., 2009. V. anche BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011.

[58] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011; BAIMA BOLLONE P., op. cit., 2005; STRADA L. – VIOLANTE P., Omissione di referto ed omissione di rapporto, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 1982, n. 12; FIORI A., op. cit., 1999.

[59] V. MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2011.

[60] PAPI L., op. cit., 2009.

[61] In argomento cfr. PORTIGLIATTI BARBOS M., Il medico tra riservatezza e informazione, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 1995, n. 4; BERTI V., Del segreto professionale in genere e di quello medico in specie, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 1964; PISA P., voce Segreto: II) Tutela penale del segreto, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1992.

[62] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011.

[63] ANTOLISEI F., op. cit., 2008, p. 270.

[64] ANTOLISEI F., op. cit., 2008.

[65] FALLANI M., op. cit., 1988, p. 26.

[66] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche FIORI A., op. cit., 1999.

[67] PAPI L., op. cit., 2009.

[68] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011.

[69] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011. Cfr. anche BENCI L., Manuale giuridico professionale per l’esercizio del nursing, McGraw Hill, Milano, 2001.

[70] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche RODRIGUEZ D. – APRILE A., op. cit., 2004.

[71] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011.

[72] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011; PAPI L., op. cit., 2009.

[73] Cfr. PAGLIARO A., op. cit., 1994.

[74] PAGLIARO A., op. cit., 1994.

[75] Cassazione penale, sez. VI, 26 marzo 1996, n. 2029, in BENCI L., op. cit., 2011.

[76] Cfr. BENCI L., op. cit., 2011.

[77] Per quanto riguarda la professione infermieristica le norme di abilitazione all’esercizio professionale sono presenti in una serie di leggi, tra cui, in particolare, la legge 42/1999, la legge 251/2000 e la legge 43/2006. V. Cap. II.

[78] CONTIERI E., Esercizio abusivo di professioni, arti e mestieri, in Enciclopedia del diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano, 1966, p. 606. In argomento cfr. anche MINNELLA M., Professioni (esercizio abusivo di), in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XV, Roma, 1966; BONESSI E., Professione (esercizio abusivo di), in Digesto delle discipline penalistiche, Vol. X, Utet, Torino, 1995.

[79] Cassazione penale, sez. VI, 7 maggio 1985, n. 4349, in BENCI L., op. cit., 2011.

[80] V. Cap. II.

[81] BENCI L., op. cit., 2011

[82] Pretura di Grosseto, 29 gennaio 1999, in PAPI L., op. cit., 2009.

[83] Corte d’ Appello di Cagliari, 14 novembre 2008, n. 653, in BENCI L., op. cit., 2011.

[84] Tribunale di Trento, 6 febbraio 2008, in BENCI L., op. cit., 2011.

[85] Cassazione penale, sez. V, 21 febbraio 1997, n. 1632, in PAPI L., op. cit., 2009.

[86] V. MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2011.

[87] Cassazione penale, sez. III, 15 maggio 1986, Reina, in CED Cassazione.

[88] MANZINI V., Trattato di diritto penale italiano, vol. V, Utet, Torino, 1986. Cfr. anche RAMACCI F., Le falsità documentali, Cedam, Padova, 2001; RAMACCI F., La falsità ideologica nel sistema del falso documentale, Jovene, Napoli, 1965; MALINVERNI A., Teoria del falso documentale, Giuffrè, Milano, 1958; NAPPI A., Falso e legge penale, Giuffrè, Milano, 1999. In particolare v. NAPPI A., Il falso ideologico del medico convenzionato, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 1989, n. 2.

[89] ANTOLISEI F., op. cit., 2008. Cfr. anche CATELANI G., I delitti di falso, Giuffrè, Milano, 1989; DE MARSICO A., voce Falsità in atti, in Enciclopedia del diritto, vol. XVI, Giuffrè, Milano, 1967.

[90] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., La responsabilità medica, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2011. Per la giurisprudenza v. Cassazione penale, sez. V, 16 giugno 2005, n. 22694, in CED Cassazione; Cassazione penale, sez. V, 8 novembre 2004, Sella, in CED Cassazione; Cassazione penale, sez. un., 27 maggio 1992, Delogu, in CED Cassazione.

[91] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011. Cfr. anche BUCCI O., La cartella clinica, Maggioli, Rimini, 1999.

[92] BARGAGNA M. – MERUSI M., La cartella clinica, Giuffrè, Milano, 1978, p. 20.

[93] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche DI LUCA M.M. – LA ROCCA D. – CAVALLI A., Profili medico legali e giuridici della cartella clinica nell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, in Jura Medica, Colosseum, Roma, 1990, nn. 1-3; APPENDINO E. – CALDARARO M. – FIORDALISI D. – GATTO S. – NIZZA V.,  Responsabilità civile e penale e cartella clinica nell’attività medico chirurgica, Giappichelli, Torino, 2006.

[94] PAPI L., op. cit., 2009.

[95] BARGAGNA M. – MERUSI M., op. cit., 1978. Cfr. anche DE PIETRO O. – ANCORA L., La cartella clinica, problemi procedurali ed aspetti medico-legali, Martinucci, Napoli, 1985; BUZZI F. – SCLAVI C., La cartella clinica, atto pubblico, scrittura privata o tertium genus?, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 1997, n. 19.

[96] Cassazione penale, sez. V, 19 ottobre 2005, n. 22694, in DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011.

[97] Cassazione penale, sez. V, 11 luglio 2005, n. 35167, in CED Cassazione.

[98] Cassazione penale, sez. V, 30 settembre 2005, Cesqui, in Responsabilità e Risarcimento, Il Sole 24 Ore, Milano, 2005, n. 10.

[99] PAPI L., op. cit., 2009.

[100] Le modalità di conservazione della cartella clinica sono previste e regolamentate dalla circolare del Ministero della Sanità n. 280 del 19 dicembre 1986, da cui risulta che presso l’archivio delle istituzioni pubbliche e delle case di cura private la cartella deve essere conservata per un periodo di 40 anni, venendo poi trasferita in una sezione separata dello stesso, dove permane per tempi illimitati.

[101] CANTARELLI M., Il modello delle prestazioni infermieristiche, Masson, Milano, 2006. Cfr. anche SIMONI A., La cartella dell’infermiere, in Tempo Medico, Masson, Milano, 2000, n. 679; BENCI L., op, cit., 2001; GERMINI F., La cartella infermieristica. Teoria e pratica, Carocci Faber, Roma, 2006.

[102] V. Cassazione penale, sez. V, 17 maggio 2005, n. 22694, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2005, n. 11. In argomento cfr. FRESA R., La colpa professionale in ambito sanitario, Utet, Torino, 2008; BUCCI O., op. cit., 1999; CASATI M., La documentazione infermieristica, McGraw Hill, Milano, 2005.

[103] ANTOLISEI F., op. cit., 2008.

[104] PAPI L., op. cit., 2009. Cfr. anche RODRIGUEZ D. – APRILE A., op. cit., 2004; BENCI L., op. cit., 2011.

[105] ANTOLISEI F., op. cit., 2008.

[106] PAPI L., op. cit., 2009.

[107] BIRKHOFF J. M., op. cit., 2011.

[108] Sul tema cfr. CALAMANDREI C. – D’ADDIO L., Commentario al nuovo Codice Deontologico dell’Infermiere, McGraw Hill, Milano, 1999; CESTER A. – GUMIRATO G., I percorsi della contenzione, dal caos al metodo, Edizioni Vega, Treviso, 1997; BENCI L., Assistere o contenere? Problemi del nursing geriatrico, in L’Arco di Giano, FrancoAngeli, Milano, 1997, n. 14; CUTANEI R. – TRICCOLI G. –CARABELLESE F., La contenzione in psichiatria: profili di responsabilità professionale, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 2001, n. 25.

[109] FRESA R., op. cit., 2008.

[110] Tribunale di Napoli, 17 giugno 1977, in BENCI L., op. cit., 2011.

[111] Per contenzione farmacologica si intende l’utilizzo di psicofarmaci non aventi lo scopo di trattare la causa del disturbo manifesto, ma di controllare i comportamenti disturbanti e/o dannosi per il paziente e per coloro che lo circondano.

[112] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche BENCI L., op. cit., 2011; CAVAZZUTI F. – CREMONINI G., Assistenza geriatrica oggi, Ambrosiana, Milano, 2004; MISLEY M. – BICEGO L., Assistenza e diritti. Critica alla contenzione e alle cattive pratiche, Carocci Faber, Roma, 2007.

[113] FRESA R., op. cit., 2008, p. 459.

[114] RODIGUEZ D. – APRILE A., op. cit., 2004. Cfr. anche CRAVEN R.F. – HIRNLE C.J., Principi fondamentali dell’assistenza infermieristica, Ambrosiana, Milano, 2004; CALAMANDREI C. – D’ADDIO L., op. cit., 1999.

[115] FRESA R., op. cit., 2008.

[116] Sul tema cfr. POLI N. – ROSSETTI A.M.L., Linee guida per l’uso della contenzione fisica nell’assistenza infermieristica, in Nursing Oggi, Lauri Edizioni, Milano, 2001, n. 4.

[117] RODIGUEZ D. – APRILE A., op. cit., 2004.

[118] FRESA R., op. cit., 2008, p. 461.

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