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Profili di responsabilità penale dell’infermiere

 

 4.1         Gli elementi costitutivi del reato

Prima di affrontare gli aspetti peculiari in ambito di responsabilità penale del sanitario, appare utile introdurre, schematicamente, gli elementi costitutivi essenziali del reato. I cenni contenuti nei prossimi paragrafi sono volutamente incompleti e parziali in quanto serviranno solo a sottolineare i punti utili per inquadrare il reato ai fini della responsabilità professionale.

Gli elementi essenziali del reato sono l’elemento oggettivo e l’elemento soggettivo, cioè la materialità del fatto integrativo della fattispecie di reato e l’atteggiamento psicologico che è richiesto per la punibilità[1].

L’elemento oggettivo è costituito da una condotta, da un evento e da un nesso causale che lega quell’evento a quella condotta.

Al centro di ogni fatto penalmente rilevante vi è, innanzitutto, una condotta umana, che può consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione. A seconda, poi, del tipo di reato descritto dalla norma incriminatrice dalla condotta umana può discendere, come risultato, un evento (ad esempio, morte nell’omicidio). In tal caso, perché l’evento possa essere attribuito ad un soggetto è necessario che esso sia la conseguenza della sua condotta (attiva od omissiva); occorre, cioè, che tra la condotta e l’evento vi sia un rapporto di causalità.

Dopo che sia stata accertata l’esistenza di un fatto di reato, la legge penale richiede un ulteriore elemento perché all’agente possa essere mosso un rimprovero per aver commesso il fatto. Si tratta dell’elemento soggettivo (o psicologico), che il codice penale individua nel dolo, nella colpa o nella preterintenzione.

 

4.2         L’elemento oggettivo: la condotta


Tra gli elementi oggettivi del reato figura sempre la condotta, ovvero il comportamento umano, che può consistere tanto in un’azione (reati commissivi) quanto in un’omissione (reati omissivi).

Le azioni penalmente rilevanti sono quelle poste in essere in violazione di divieti di agire e individuate dalle singole norme incriminatrici.

In alcune ipotesi, è necessario che l’azione sia compiuta con determinate modalità, e si parla in questo caso di reati a forma vincolata: l’azione concreta sarà rilevante solo se corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto dalla norma incriminatrice. In altre ipotesi, invece, può essere attribuita rilevanza ad ogni comportamento umano che abbia causato, con qualsiasi modalità, un determinato evento: si parla, in tal caso, di reati a forma libera (ad esempio, le norme sull’omicidio e sulle lesioni danno rilevanza rispettivamente a qualsiasi condotta “che cagiona la morte di un uomo” e “che cagiona ad alcuno una lesione personale”)[2].

La condotta omissiva penalmente rilevante, invece, si caratterizza per il mancato compimento di un’azione che si ha l’obbligo giuridico di compiere. In altre parole, un dato comportamento assume la qualifica della omissione penalmente rilevante solo in relazione ad una norma giuridica che impone ad un soggetto l’obbligo di attivarsi[3].

Occorre specificare che nei reati omissivi, a seconda che si richieda o meno, oltre all’omissione, la presenza di un evento, si distingue tra reati omissivi propri (o di mera omissione) e reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione).

Sono reati omissivi propri quelli nei quali viene incriminato il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa, indipendentemente dal verificarsi o meno di un evento come conseguenza dell’omissione. Così, ad esempio, la fattispecie di omissione di soccorso (art. 593 c.p.) incrimina la semplice omissione dell’assistenza occorrente ad una persona che si trova in pericolo: se ne consegue la morte del soggetto bisognoso d’aiuto, l’omittente non risponde di omicidio, ma si applica soltanto una circostanza aggravante (art. 593 comma 3 c.p.). Ulteriori reati di pura omissione sono, ad esempio, quelli previsti agli artt. 328 e 361 c.p., che disciplinano rispettivamente l’omissione di atti d’ufficio e l’omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale[4].

Va sottolineato che il compimento dell’azione comandata presuppone che il soggetto abbia la possibilità di agire nel senso normativamente richiesto. In altre parole, l’obbligo giuridico di agire presuppone il potere materiale di compiere l’azione doverosa. Pertanto, ad esempio, non si può sostenere che omette di soccorrere chi si trova a grande distanza dal luogo del soccorso o è obiettivamente privo dei mezzi necessari per prestare aiuto[5].

Sono reati omissivi impropri, invece, quelli nei quali viene incriminato il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento. In tal caso, il dovere giuridico di agire ha un’estensione più ampia rispetto a quella che caratterizza i reati omissivi propri, includendo nel suo oggetto anche l’impedimento dell’evento[6]. Si pensi al caso di un bambino che corre pericolo di affogare in una piscina, sotto gli occhi del bagnino e di un amico di quest’ultimo, anche lui esperto nuotatore. Se entrambi rimangono inerti e il bambino muore, il bagnino, ch ha il dovere giuridico di proteggere la vita dei bagnanti impedendone la morte, realizzerà un fatto di omicidio, mentre l’amico risponderà di omissione di soccorso.

Inoltre, a differenza dei reati omissivi propri, per lo più i reati omissivi impropri non sono configurati attraverso specifiche norme di parte speciale. La loro previsione è il risultato del combinarsi di una disposizione di parte generale, l’art. 40 comma 2 c.p., e di norme incriminatrici di parte speciale che vietano la causazione di un evento: l’art. 40 comma 2 c.p. dispone infatti che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”; combinandosi tale disposizione, ad esempio, con la norma che vieta di cagionare la morte di un uomo (art. 575 c.p.), ne risulta una norma incriminatrice del seguente tenore: “chiunque non impedisce la morte di un uomo, avendo l’obbligo giuridico di impedirla, è punito…”[7].

La rilevanza penale dell’omesso impedimento di un evento, secondo il dettato dell’art. 40 comma 2 c.p., è subordinata alla presenza di un obbligo giuridico di impedirlo: un obbligo che fa del suo destinatario il garante dell’integrità di uno o più beni giuridici.

A fondamento del meccanismo di responsabilità in esame sta “la necessità, riconosciuta dall’ordinamento, di assicurare a determinati beni una tutela rafforzata, stante l’incapacità, totale o parziale, dei loro rispettivi titolari a proteggerli adeguatamente: da qui l’attribuzione a taluni soggetti, diversi dai rispettivi titolari, della speciale posizione di garanti dell’integrità dei beni che si ha interesse a salvaguardare”[8].

Il problema diventa, dunque, quello di individuare gli obblighi giuridici che discendono dalle c.d. posizioni di garanzia, e la cui violazione consenta l’affermazione di responsabilità penale.

Il contenuto e i presupposti degli obblighi giuridici possono essere desunti solo dalle singole norme giuridiche che fondano l’obbligo di impedire questo o quell’evento. In base ad una classificazione funzionale di queste norme si possono individuare due diverse classi di obblighi: obblighi di protezione e obblighi di controllo.

Gli obblighi di controllo sono quelli aventi per oggetto la neutralizzazione di pericoli derivanti da una determinata fonte, in funzione di tutela di chiunque possa essere messo a repentaglio da quella fonte di pericolo. Ad esempio, il proprietario di un edificio pericolante ha l’obbligo di impedire il verificarsi di eventi dannosi a carico di tutti i soggetti che possono trovarsi nelle vicinanze dell’edificio medesimo

Si parla, invece, di obblighi di protezione quando l’obbligo giuridico riguarda la tutela di uno o più beni che fanno capo a determinati soggetti nei confronti di una gamma più o meno ampia di pericoli. Un obbligo di protezione, ad esempio, è quello previsto dall’art. 147 c.c., che impegna i genitori a garantire la vita e l’integrità fisica dei figli minori, così che il padre e la madre che non alimentano il figlio neonato risponderanno di omicidio doloso o colposo, a seconda dei casi, quando la mancata alimentazione abbia provocato la morte. Un obbligo di protezione è quello che assume il medico o l’infermiere nei confronti del paziente, e cioè di proteggere la salute e la vita di colui che è affidato alle sue cure[9].

A tal proposito, si può, sin da ora, far notare che nell’ambito della responsabilità sanitaria prevalgono i reati di tipo omissivo in quanto la maggior parte delle imputazioni a carico di medici o infermieri riguardano proprio la mancata esecuzione di attività alle quali il sanitario era obbligato.

 

 

4.2.1        L’evento

Spesso la norma incriminatrice di una fattispecie di reato richiede il verificarsi di un evento quale risultato di una condotta, cioè “di un accadimento temporalmente e spazialmente separato dall’azione e che da questa deve essere causato”[10]. Così, ad esempio, nei reati di omicidio (artt. 575 e 589 c.p.) compete il nome di evento alla morte cagionata dall’agente. Evento costitutivo dei delitti di lesione personale (artt. 582 e 590 c.p.), invece, è la malattia nel corpo o nella mente, mentre nel delitto di violenza privata (art. 610 c.p.) la costrizione quale conseguenza della violenza o della minaccia. In tutti questi casi si parla di reati d’evento.

Si parla, invece, di reati di mera condotta quando il fatto di reato si esaurisce nel compimento di una o più azioni: in tal caso è irrilevante che all’azione descritta dalla norma incriminatrice consegua il verificarsi di uno o più eventi, nel senso che le eventuali conseguenze dell’azione non sono elementi costitutivi del fatto. Ad esempio, nel delitto di falsità materiale in atto pubblico (art. 476 comma 1 c.p.), reato di mera azione, la formazione di un atto falso o l’alterazione di un atto vero da parte del pubblico ufficiale integrano il fatto di reato, senza che sia necessaria l’induzione in errore di uno o più tra i potenziali destinatari o utilizzatori dell’atto[11].

 

 

4.2.2        Il nesso causale

Quando tra gli estremi del fatto di reato compare un evento, l’evento rileva se e in quanto sia stato causato dall’azione: tra l’azione e l’evento deve sussistere un rapporto di causalità. Questo legame causale è espressamente richiesto dalla legge: l’art. 40 comma 1 c.p. dispone, infatti, che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”[12].

Il problema cruciale al quale si deve dare risposta è che cosa sia necessario per poter affermare che un dato evento è conseguenza di una data azione.

Occorre premettere che, nell’ambito del presente lavoro, i necessari approfondimenti dei problemi legati al rapporto di causalità fra condotta ed evento verranno svolti trattando della causalità nel settore sanitario, anche al fine di evidenziare alcuni aspetti peculiari. In questa sede, pertanto, ci si limita a richiamare alcune nozioni di base in tema di nesso causale, con alcuni cenni generali su punti che saranno oggetto di specifica disamina nel prosieguo della trattazione.

Pare utile, dunque, ricordare come sia ormai largamente acquisita la nozione, elaborata dalla c.d. teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non), secondo cui, al fine di stabilire se una condotta (attiva) sia o meno causa di un certo evento (nella prospettiva dell’omicidio: evento-morte) si debba ricorrere ad un processo di ‘eliminazione mentale’: occorre cioè eliminare mentalmente l’azione che in effetti si è verificata nella realtà, e chiedersi se, nell’ipotesi in cui questa non vi fosse stata, l’evento si sarebbe prodotto ugualmente, oppure no. Qualora a tale domanda si debba rispondere negativamente, e cioè se si concluda che l’evento non si sarebbe prodotto in mancanza di quell’azione, il nesso di causalità sussiste. Il rapporto causale va invece escluso qualora si possa dire che l’evento si sarebbe verificato comunque, anche se il soggetto agente non avesse posto in essere la condotta de qua[13].

Anche in rapporto ai reati omissivi impropri si utilizza un giudizio controfattuale, così come avviene nelle ipotesi di condotta attiva. Ma mentre quando la condotta è attiva ci si chiede, con procedimento logico di eliminazione mentale, se l’evento si sarebbe verificato ugualmente se non ci fosse stata l’azione, in caso di condotta omissiva (ossia di omesso impedimento dell’evento) si procede, invece, ad un’aggiunta mentale (si aggiunge mentalmente l’azione comandata, ed in realtà non eseguita). Quindi, verificatosi l’evento morte, occorre chiedersi che cosa sarebbe successo se il soggetto obbligato (ossia il garante) avesse posto in essere la condotta attiva comandata. Quella morte si sarebbe verificata ugualmente se il soggetto obbligato avesse tenuto il comportamento doveroso? In caso di risposta negativa, il nesso di causalità sussiste. In caso di risposta affermativa, non sussiste[14]. A tal proposito, si osserva che “i problemi più delicati nascono laddove non sia possibile fornire a tale quesito una risposta in termini così netti e precisi (sì/no), ma solo in chiave probabilistica (forse sì, o forse no, con una certa probabilità)”[15].

Per poter affermare che una certa azione od omissione rappresenti effettivamente una condizione necessaria rispetto al prodursi di un determinato evento lesivo, è indispensabile, come è stato chiarito in via definitiva (vedi, in particolare, Cassazione penale, sez. un., 11 luglio 2002, Franzese), ricorrere a leggi scientifiche di copertura, cioè “enunciati che esprimono successioni regolari di accadimenti, frutto dell’osservazione sistematica della realtà fisica o psichica”[16].

Va precisato che le leggi scientifiche utilizzabili dal giudice per la spiegazione causale dell’evento possono essere o leggi universali o leggi statistiche.

Sono leggi universali quelle in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento: si tratta di enunciati che asseriscono regolarità senza eccezioni e, proprio per questo, soddisfano al massimo livello le esigenze di certezza[17].

Difficilmente però il giudice può utilizzare leggi di questa struttura; molto più spesso deve ricorrere invece a leggi statistiche, le quali si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi: “tali leggi sono tanto più dotate di validità scientifica, quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili”[18].

Un ultimo aspetto relativo alla complessa tematica del nesso causale riguarda il problema del c.d. concorso di cause, che trova espressa disciplina nell’art. 41 c.p. Il primo comma stabilisce che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”: il che equivale a dire che per la sussistenza del rapporto di causalità basta che l’agente abbia posto in essere uno solo degli antecedenti necessari dell’evento. Così, ad esempio, non è escluso il rapporto di causalità se la morte di una persona vittima di una lesione personale è dovuta alla sua particolare vulnerabilità conseguente ad emofilia.

Il rapporto di causalità non è escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto all’azione dell’uomo consiste in un fatto illecito di un terzo (comma 3).

Il secondo comma stabilisce, invece, che “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”. In tal caso, tra l’azione e l’evento si è inserita una serie causale autonoma, la quale fa sì che quell’azione rappresenti non una condizione necessaria dell’evento, ma solo un suo antecedente temporale. Così, se Tizio avvelena Caio, il quale muore investito da un’automobile prima che il veleno faccia effetto, Tizio non avrà causato l’evento morte, e quindi non potrà rispondere di omicidio doloso consumato, ma soltanto di tentato omicidio[19].

 

 

4.3         L’elemento soggettivo: il dolo

Perché un soggetto possa essere ritenuto responsabile di un fatto di reato occorre che egli abbia agito tenendo l’atteggiamento psicologico previsto dalla norma incriminatrice; in altri termini, deve sussistere l’elemento psicologico (o soggettivo) del reato, che il codice penale individua nel dolo, nella preterintenzione e nella colpa.

Di regola, il criterio di attribuzione della responsabilità richiesto dal legislatore per i delitti è il dolo, mentre la preterintenzione e la colpa rilevano solo in via di eccezione espressa. Stabilisce infatti l’art. 42 comma 2 c.p. che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.

La realizzazione con dolo di un reato comporta la forma più grave di responsabilità penale. Per l’esistenza del dolo si richiede, infatti, un duplice coefficiente psicologico: la rappresentazione e la volizione del fatto antigiuridico. In particolare, l’art. 43 c.p. stabilisce che “il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”[20].

Perché sorga una responsabilità dolosa occorre, dunque, in primo luogo che il soggetto si sia rappresentato il fatto antigiuridico. Il dolo, cioè, esige “la conoscenza effettiva di tutti gli elementi rilevanti del fatto concreto che integra una specifica figura di reato”[21]. In altre parole, l’agente deve aver avuto ben chiaro dinanzi agli occhi il fatto antigiuridico (ad esempio, nell’ipotesi di omicidio: la morte di un uomo) nel momento in cui ha iniziato l’esecuzione dell’azione tipica[22].

Il dolo non si esaurisce, però, nella rappresentazione del fatto, non essendo sufficiente che il soggetto abbia agito nonostante la previsione dell’evento. Perché sia in dolo, “il soggetto deve aver voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che si era preventivamente rappresentato, cioè deve aver deciso di realizzarlo in tutti i suoi elementi”[23]. Così, ad esempio, per il dolo di omicidio è necessario, ma anche sufficiente, che l’agente abbia scientemente voluto cagionare la morte di un uomo.

La risoluzione di realizzare l’azione può essere la conseguenza di un improvviso impulso ad agire (si parla in questo caso di dolo d’impeto, che si manifesta nei casi in cui la spinta ad agire ha radici affettive, come l’ira o la gelosia) ovvero può essere presa e tenuta ferma fino al compimento dell’azione per un certo lasso di tempo: si parla allora di dolo di proposito, che per taluni reati, tra cui l’omicidio e le lesioni personali, viene designato come premeditazione e integra una circostanza aggravante[24].

Occorre, inoltre, precisare che, a seconda dell’intensità tanto del momento rappresentativo, quanto del momento volitivo, il dolo può assumere tre gradi: il dolo intenzionale, il dolo diretto, il dolo eventuale.

Il dolo intenzionale si configura quando il soggetto si rappresenta come certo o probabile il verificarsi del fatto e agisce proprio allo scopo di realizzare tale fatto (ad esempio, spara e uccide, avendo di mira la morte di quell’uomo).

Il dolo diretto si configura, invece, quando l’agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o probabile al limite della certezza l’esistenza dei presupposti della condotta illecita ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione.

Il dolo eventuale si ha, infine, quando il soggetto si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza dei presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza della sua azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi[25].

Occorre precisare che il dolo eventuale va nettamente distinto dalla colpa con previsione dell’evento (o c.d. colpa cosciente). I due criteri di imputazione della responsabilità penale hanno in comune l’elemento della previsione dell’evento, ma presentano tratti diversi. Nella colpa con previsione l’agente si rappresenta il possibile verificarsi di un evento, ma ritiene per colpa che non si realizzerà nel caso concreto, e ciò in quanto, per leggerezza, sottovaluta la probabilità del verificarsi dell’evento ovvero sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo. Viceversa, come si è detto, agisce con dolo eventuale chi ritiene seriamente possibile la realizzazione del fatto e agisce accettando tale eventualità[26].

Per quanto riguarda i reati omissivi la configurazione del dolo presenta alcune peculiarità, sotto il profilo della rappresentazione e volizione del fatto di reato.

Quanto al momento rappresentativo, il soggetto che ha l’obbligo di agire deve, innanzitutto, essere a conoscenza, anche in forma dubitativa, dei presupposti di fatto dai quali scaturisce il dovere di agire (il dolo di omissione di soccorso, ad esempio, esige che il soggetto si renda conto di trovarsi di fronte ad una persona ferita o altrimenti in pericolo) e, in secondo luogo, deve sapere qual è l’azione da compiere.

Nei reati omissivi impropri il garante deve inoltre rendersi conto che il compimento dell’azione per lui doverosa potrebbe impedire il verificarsi dell’evento.

Quanto al momento volitivo del dolo, è necessario che il soggetto decida di non compiere l’azione doverosa; nei reati omissivi impropri, inoltre, il momento volitivo esige che il soggetto abbia posto a base di quella decisione l’intenzione di non impedire l’evento o la certezza o l’accettazione dell’eventualità del verificarsi di un evento che sarebbe stato impedito dal compimento dell’azione doverosa[27].

 

 

4.3.1        La preterintenzione

In base alla definizione contenuta nell’art. 43 c.p. “il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente” [28].

L’unica figura di reato che il legislatore ha espressamente qualificato come preterintenzionale è l’omicidio di cui all’art. 584 c.p.: risponde di tale delitto chi, con atti diretti a percuotere o a cagionare una lesione personale, cagiona la morte di un uomo.

Pur in mancanza di un’espressa qualificazione legislativa, ha comunque la struttura del delitto preterintenzionale anche la figura di aborto prevista dall’art. 18 comma 2, legge 22 maggio 1978, n. 194: risponde di tale delitto “chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna”.

Quanto alla specifica natura dell’elemento soggettivo, di fronte alla dibattuta alternativa se la preterintenzione configuri un’ipotesi di dolo (relativo al reato-base di percosse o lesioni) misto a responsabilità oggettiva o a colpa, tende oggi a prevalere la soluzione più compatibile col principio di colpevolezza, che è ovviamente l’ultima. In questo senso, anche secondo parte della giurisprudenza più recente, per accollare all’autore delle percosse o delle lesioni pure l’evento letale non voluto (morte) non basta che quest’ultimo ne sia conseguenza dal punto di vista puramente causale: occorre, altresì, che il giudice accerti che l’evento stesso fosse in concreto prevedibile[29].

In definitiva, il delitto preterintenzionale “deve essere modellato secondo lo schema della responsabilità colpevole, subordinando l’applicazione della norma incriminatrice alla possibilità di rimproverare a colpa dell’agente la causazione dell’evento: chi con atti diretti a cagionare percosse o lesioni ha provocato la morte di un uomo risponderà di omicidio preterintenzionale solo se un uomo ragionevole poteva rappresentarsi l’intervento del fattore causale (ad esempio, un vizio cardiaco) che ha fatto degenerare le percosse o le lesioni nella morte della vittima”[30].

 

 

4.3.2        La colpa

 

La definizione legislativa di colpa è contenuta nell’art. 43 c.p., il quale stabilisce che “il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

La colpa consta, dunque, di un requisito negativo e di un requisito positivo. Il primo è l’assenza di dolo: il fatto, cioè, deve essere stato realizzato involontariamente; e l’eventuale presenza della previsione dell’evento compare nella definizione legislativa della colpa solo per evocare l’ipotesi aggravata della colpa con previsione, che dà vita ad una circostanza aggravante (art. 61 n. 3 c.p.). Ciò che individua la colpa in modo peculiare, però, è il suo requisito positivo, che la legge descrive come “negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

In altre parole, la colpa si caratterizza, in positivo, per la violazione di regole cautelari la cui finalità è quella di evitare che dalla condotta dell’agente possano derivare eventi dannosi o pericolosi prevedibili[31].

Alla base delle norme cautelari, si tratti di norme di diligenza, prudenza o perizia, tendenti a scongiurare i pericoli connessi allo svolgimento delle diverse attività umane, stanno regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguenze: da questo punto di vista, le regole di diligenza vigenti nei vari contesti sociali di riferimento rappresentano “la cristallizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo”[32].

Se così è, proprio ‘la prevedibilità e l’evitabilità’ dell’evento costituiscono i criteri di individuazione delle misure precauzionali da adottare nelle diverse situazioni concrete, una volta che sia insorta o stia per insorgere una situazione di pericolo.

In primo luogo, le regole di diligenza, prudenza e perizia possono essere codificate, cioè contenute in norme di fonte giuridica: a ciò allude l’art. 43 c.p. quando parla di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (c.d. colpa specifica). Anzi, nel mondo moderno si assiste al fenomeno di una “crescente positivizzazione delle regole di prudenza, intesa a disciplinare le situazioni di pericolo più tipiche, e praticamente più rilevanti (si pensi, ad esempio, al settore della circolazione stradale)”[33].

Per leggi si intendono sia le leggi in senso formale, sia gli atti equiparati; per regolamenti si intendono gli atti amministrativi aventi carattere normativo; per ordini, invece, si intendono provvedimenti specifici, rivolti a soggetti determinati; per discipline, infine, si intendono atti emanati sia da autorità pubbliche che private, diretti a regolamentare determinate attività, all’interno di una certa struttura[34].

Va sottolineato che rientrano nel concetto di leggi (regolamenti, ordini o discipline) la cui inosservanza dà vita a colpa non tutte le leggi, ma soltanto le leggi che impongono o vietano una data condotta all’esclusivo scopo di neutralizzare, o ridurre, il pericolo che da quella condotta possano derivare eventi dannosi o pericolosi rilevanti ai sensi di una fattispecie di reato colposo[35].

Accanto alle regole codificate, residua un ampio spazio per regole di condotta non scritte, cioè non predeterminate dalla legge o da altra fonte giuridica, ma ricavate dall’esperienza della vita sociale: è lo spazio della c.d. colpa generica, quella che il codice penale designa come colpa per negligenza o imprudenza o imperizia.

Per negligenza si intende una trascuratezza in rapporto ad una regola di condotta che prescrive di attivarsi in qualche modo; l’imprudenza, invece, si ha quando la regola cautelare richiede di astenersi dall’agire, ovvero di agire osservando determinati accorgimenti, mentre in realtà il soggetto agisce in luogo di astenersi, ovvero agisce senza le debite cautele; l’imperizia, infine, consiste in una carenza di cognizioni o abilità esecutive nello svolgimento di attività tecniche o professionali (come, ad esempio, l’attività medica)[36].

Ciò premesso, si pone il problema di stabilire quale sia lo standard alla luce del quale si deve formare il giudizio di prevedibilità ed evitabilità, che a sua volta condiziona il contenuto stesso della regola di diligenza.

A questo proposito, due sono gli orientamenti fondamentali che si contrappongono.

Da un lato, vi è chi afferma che le regole di condotta, di qualsivoglia natura, debbano essere individuate mediante il criterio oggettivo della prevedibilità ed evitabilità secondo la miglior scienza ed esperienza del momento storico, in quello specifico settore[37].

Secondo una diversa impostazione, il parametro oggettivo in base al quale formulare le regole di diligenza, prudenza e perizia è quello del c.d. homo eiusdem professionis et condicionis: si fa riferimento, cioè, ad una astratta  figura di agente-modello, esperto ed accorto, che ipoteticamente svolga quello stesso tipo di attività posta in essere dall’agente concreto[38].

Occorre precisare che si farà riferimento “ad una pluralità di agenti modello, differenziati a seconda del tipo di attività in cui si lascia suddividere la vita di relazione”[39], sicché il modello cambia di pari passo con il mutare del tipo di attività svolta, e può assumere una fisionomia particolare, tenuto conto delle figure specifiche che si rinvengono nei singoli settori di attività (ad esempio nell’attività ospedaliera: l’infermiere, il medico internista, il radiologo, l’ortopedico, l’anestesista, etc.).

Quanto al contenuto del dovere di diligenza, si individua, innanzitutto, quello che impone al soggetto di astenersi dal compiere una determinata azione, poiché il compierla porterebbe con sé un rischio troppo elevato di realizzazione della fattispecie colposa (ad esempio, l’automobilista che incontra sul proprio percorso un semaforo rosso deve arrestare la propria corsa). In altri casi, invece, il dovere di diligenza impone di realizzare l’azione in questione adottando determinate misure cautelari (ad esempio, l’automobilista deve moderare la velocità quando la strada è ghiacciata o innevata)[40].

Nei reati colposi d’evento, come, ad esempio l’omicidio e le lesioni personali, la violazione del dovere di diligenza deve caratterizzare come colposa non solo l’azione, ma anche l’evento che è conseguenza dell’azione stessa. Tra la condotta colposa e l’evento, dunque, deve sussistere un nesso (c.d. causalità della colpa)[41].

Il nesso che intercorre tra colpa ed evento è duplice. In primo luogo, “l’evento concreto deve essere realizzazione del pericolo che la norma cautelare violata mirava a prevenire, cioè l’evento verificatosi nella realtà deve rientrare tra quegli eventi che la norma violata mirava a prevenire”[42]. Ad esempio, la regola di diligenza che impone all’automobilista di fermarsi al semaforo rosso ha la finalità esclusiva di evitare la collisione con altri veicoli o l’investimento dei pedoni nell’area dell’incrocio. Manca, perciò, il nesso tra colpa ed evento se l’automobilista, investe ed uccide un pedone che, cento metri oltre l’incrocio, ha improvvisamente attraversato la strada.

Accertato che l’evento è la realizzazione del pericolo colposamente creato dall’agente, bisogna individuare il secondo nesso, che consiste “nell’appurare se la condotta rispettosa delle regole di diligenza, quella che viene designata come condotta alternativa lecita, avrebbe evitato nel caso concreto il verificarsi dell’evento”[43]. Si pensi, ad esempio, ad un anestesista il quale somministri al paziente un anestetico diverso da quello prescritto dalle regole dell’arte medica, cagionando la morte del paziente. Si accerta però che, per un vizio occulto e non conoscibile, quel paziente non tollerava nessun tipo di anestetico: la sua morte non potrà essere perciò rimproverata per colpa dell’anestesista perché l’evento non sarebbe stato evitato in concreto neppure se fossero state rispettate le regole dell’arte medica.

Come meglio si vedrà più avanti, a sua volta il nesso tra colpa ed evento può assumere un rilievo differente, a seconda che venga in considerazione una condotta attiva od omissiva. In quest’ultimo caso, infatti, l’accertamento di tale nesso viene in pratica a coincidere con quello del rapporto causale in senso stretto, nel reato omissivo improprio.

 

 

 

 

4.4         La colpa in ambito sanitario: tipologia e contenuto delle regole cautelari

 Si tratta, a questo punto, di analizzare i profili di colpa peculiari dell’attività sanitaria, con particolare riferimento ai reati di omicidio e lesioni personali, in quanto rappresentano l’oggetto più frequente delle imputazioni a carico del personale sanitario[44].

Per poter essere qualificata come colposa la condotta del sanitario deve violare una regola cautelare, sia essa non codificata (colpa generica), sia essa specificata in leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica).

Nel settore dell’attività sanitaria l’elemento normativo ‘colpa’ richiama tradizionalmente paradigmi di colpa generica, per cui l’erroneità della condotta del professionista troverebbe fondamento nella violazione di regole di diligenza, prudenza e perizia non codificate [45].

Una caratteristica peculiare dell’attività sanitaria, che la contraddistingue rispetto ad altri settori (si pensi alla circolazione stradale o alla materia antinfortunistica) è la presenza, oltre che di regole di comune diligenza e prudenza, di regole tecniche (le c.d. leges artis) in prevalenza non scritte, la cui violazione può essere ricondotta al concetto  di imperizia. Ne deriva che il contenuto di tali regole sarà destinato ad emergere in sede processuale attraverso gli strumenti della perizia e della consulenza tecnica, di cui si avvale il giudice allo scopo di valutare la condotta del professionista nel singolo caso in esame[46].

Le regole di condotta non scritte pongono il problema di quali siano i criteri preposti alla loro individuazione: tradizionalmente dottrina e giurisprudenza utilizzano i criteri della prevedibilità e della evitabilità dell’evento, a loro volta rapportati al parametro oggettivo dell’agente modello, ovvero dell’homo eiusdem professionis et condicionis. Colui che pone in essere una determinata condotta, attiva od omissiva, l’agente reale, per individuare quale sia il comportamento diligente doveroso, si deve chiedere come si sarebbe comportato nella situazione concreta l’agente modello che svolga il suo stesso tipo di attività (homo eiusdem professionis: l’automobilista esperto, il medico esperto,..), ovvero che possegga le capacità di prevedere i rischi e di evitarne la realizzazione esigibili da un uomo medio ragionevole (homo eiusdem condicionis)[47].

In ambito sanitario è possibile rinvenire una pluralità di figure modello a seconda della specifica professione di riferimento, ad esempio medico cardiologo, anestesista, odontoiatra, infermiere, ecc. In proposito, è stato affermato che la colpa del sanitario ha come caratteristica l’inosservanza di regole di condotta, le leges artis, che hanno per fine la prevenzione del rischio non consentito, vale a dire l’aumento del rischio; quanto al parametro della prevedibilità, si precisa che esso consiste nella “possibilità di prevedere l’evento che conseguirebbe al rischio non consentito, e che la prevedibilità deve essere commisurata al parametro del modello di agente, cioè dell’homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze dell’agente concreto”[48].

La finalità delle regole cautelari di riduzione e/o di contenimento del rischio in ambito sanitario è stata ben delineata dalla Suprema Corte: “Ai fini della punibilità dell’esercente la professione sanitaria, quando la condotta sia censurata per imprudenza o negligenza, è sufficiente la omissione della diligenza comune, rapportata, cioè, al grado medio di cultura e capacità professionale, ovvero la violazione delle norme tecniche generalmente accolte e pertanto risponde a titolo di colpa il sanitario quando non valuti le possibili conseguenze di ogni suo atto e non riduca al minimo i rischi di ogni terapia e dei possibili interventi”; e ancora, “le leges artis hanno per fine la prevenzione del rischio non consentito ovvero dell’aumento del rischio”[49].

L’inosservanza delle regole cautelari da parte del sanitario può determinare l’insorgenza di una situazione di pericolo per l’incolumità individuale, o addirittura per la stessa vita del paziente; oppure può comportare, come si è già anticipato, la mancata eliminazione o riduzione di un rischio per tali beni giuridici tutelati: rischio non prodotto dall’operatore sanitario, ma derivante da altri fattori (come la patologia di cui è affetto il paziente) che lo stesso operatore, in virtù della sua posizione di garanzia, dovrebbe fronteggiare, ponendo in essere, con la necessaria diligenza, prudenza e perizia, la condotta più adeguata[50].

Per quanto riguarda il contenuto delle regole cautelari, si individuano innanzitutto quelle che impongono al sanitario il dovere di astenersi, poiché la sua eventuale azione determinerebbe un rischio non tollerabile, per la salute o la stessa vita del paziente. Si pensi alle ipotesi in cui difetti un valido consenso informato; ovvero ai casi in cui il sanitario ricorra a procedure per le quali non possiede adeguata preparazione ed esperienza; o ancora al sanitario che, in assenza di una situazione di emergenza, intervenga in un caso che esula dalle sue competenze.

In questi casi è possibile ravvisare la colpa per imprudenza, in quanto il sanitario agisce con avventatezza, eccessiva precipitazione, omettendo di adottare le cautele indicate dalla comune esperienza o interviene nonostante la carenza di idonee condizioni soggettive od oggettive.

Ciò che accomuna tutte queste ipotesi, in ogni caso, è il fatto che la situazione di pericolo non preesiste alla condotta del sanitario, ma deriva proprio dall’azione di quest’ultimo, che anziché astenersi dall’agire, ha colposamente esposto il paziente con la sua condotta commissiva ad un rischio non consentito[51].

Vi sono poi regole cautelari che, al contrario, impongono al sanitario un dovere di attivarsi, o comunque di agire nell’osservanza di determinate modalità, imposte dai doveri elementari  verso il paziente, o da specifiche tecniche e procedure.

Anche in questo caso il sanitario, che agisce nell’adempimento dell’obbligo di attivarsi, ma in violazione di leges artis, o di regole di comune diligenza, pone in essere una condotta attiva, creando un concreto pericolo per l’incolumità o la vita del paziente. Si pensi al chirurgo che dimentichi un corpo estraneo nell’addome del paziente (ad esempio, una garza) cagionando una grave infezione; allo scambio di una sacca di sangue con un’altra, di gruppo incompatibile con quello del paziente sottoposto a trasfusione; o ancora all’errore nella dose o nella via di somministrazione di un farmaco[52].

In tali ipotesi, la condotta del sanitario risulta improntata a leggerezza, trascuratezza e superficialità, dando origine alla colpa per negligenza.

Rispetto alle regole che prescrivono un obbligo di attivarsi, adottando una serie di misure cautelari, la condotta del sanitario può essere anche di natura omissiva. Più esattamente, come spesso accade, il sanitario pone in essere un comportamento, dunque una condotta attiva, la quale, tuttavia, per la sua contrarietà a regole cautelari, risulta inadeguata a fronteggiare il rischio di cui il paziente è già portatore, e che può degenerare nell’evento di danno[53].

Ad esempio, il medico non omette di visitare il paziente, di effettuare la diagnosi, di prescrivere la terapia, ecc., ma effettua queste attività non secondo le leges artis, e perciò sbaglia: prescrive una terapia antibiotica anziché operare d’urgenza il malato; rassicura il paziente circa i dolori al petto da questi lamentati, lasciandolo morire d’infarto di lì a poco; dimette il ricoverato, non accorgendosi che è in atto una gravissima emorragia interna, ecc[54].

In tali ipotesi, “la condotta del medico non è omissiva dal punto di vista naturalistico (il medico, in effetti, pone in essere una certa condotta), ma lo è dal punto di vista normativo: ciò che conta, in realtà, è che il medico non ha fatto quello che in base alle regole cautelari avrebbe dovuto fare”[55].

Qui, dal punto di vista naturalistico, è la patologia in atto a cagionare la morte o la malattia del paziente. Al tempo stesso, dal punto di vista del rimprovero colposo non rileva il comportamento attivo del sanitario, bensì rileva il mancato compimento della condotta doverosa prescritta dalle leges artis, la cui osservanza mirava a impedire proprio quell’evento in concreto verificatosi[56].

Infine, per completare il quadro delle tipologie colpose, sussiste imperizia quando la condotta del sanitario è caratterizzata dal difetto di quel patrimonio minimo di cognizioni scientifiche (ignoranza), o da insufficiente preparazione tecnica e abilità operativa (inabilità), che dovrebbero costituire il bagaglio culturale di tutti gli operatori sanitari in forza degli studi, del tirocinio e della abilitazione professionale. Si pensi alla esecuzione errata di una iniezione endovenosa che provochi la paralisi del nervo sciatico, alla somministrazione di un farmaco in dose tossica, alla esecuzione di un intervento chirurgico con tecnica non corretta[57].

 

 

4.4.1        La colpa per violazione di protocolli

Se è vero che la violazione delle leges artis in ambito sanitario sembra principalmente ricollegata a parametri di colpa generica, destinati ad emergere in sede processuale attraverso lo strumento della perizia e della consulenza tecnica, occorre, tuttavia, avvertire che, in tempi recenti, anche in tale settore si è registrata una tendenza a mettere per iscritto le regole dell’arte, individuando delle c.d. linee guida (ovvero protocolli o codici di comportamento)[58].

Le linee guida sono state definite come “raccomandazioni di comportamento clinico prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere medico e paziente nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze”[59].

L’utilizzo delle linee guida dovrebbe, in sostanza, “costituire garanzia di buona pratica clinica nonché dell’osservanza delle regole dell’arte, in quanto codificate sulla base dell’evidenza scientifica con l’obiettivo di guidare il medico nello svolgimento della professione, riducendo al minimo quella parte di variabilità nelle scelte cliniche legate alla carenza di conoscenze e alla soggettività dei criteri di scelta delle strategie assistenziali”[60].

Anche per la professione infermieristica è stata sostenuta la necessità di una pratica basata sulla ‘evidenza’, la c.d. evidence based nursing. Più esattamente, “la pratica basata sui fatti si concentra sulla produzione, la sintesi e l’uso dei dati nell’assistenza al paziente. Pratica basata sui fatti, significare usare coscienziosamente le conoscenze o i fatti disponibili per prendere le decisioni giuste nella cura del singolo paziente, di gruppi di pazienti o di una intera popolazione (…). Significa che gli infermieri svolgono ricerche, studiano e valutano i problemi infermieristici, sviluppano e usano un linguaggio standardizzato per descrivere i problemi, gli interventi e i risultati  importanti per loro stessi”[61].

Per questa ragione sono stati elaborati anche per il personale infermieristico protocolli operativi, ovvero linee guida il cui scopo è quello appunto di ridurre al minimo il rischio di errori. Ad esempio, per una più razionale e puntuale svolgimento dei compiti, sono state individuate le seguenti fasi dell’assistenza infermieristica: 1) la raccolta e la classificazione dei dati del paziente, al fine di conoscere la storia clinica attraverso la documentazione cartacea ed il colloquio diretto; 2) la identificazione dei bisogni di assistenza infermieristica, a seconda del tipo di patologia di cui il paziente è portatore; 3) la formulazione degli obiettivi, rapportati alle esigenze del paziente; 4) la scelta e la attuazione delle azioni infermieristiche, fatta in piena autonomia (che ovviamente non esclude la collaborazione) rispetto al personale medico; 5) la valutazione dell’assistenza infermieristica, svolta in modo periodico per effettuare eventuali aggiustamenti degli obiettivi[62].

In definitiva, una corretta ed efficace organizzazione delle fasi dell’assistenza infermieristica, una diagnosi clinica per quanto possibile precisa, una puntuale registrazione degli atti e delle azioni infermieristiche, oltre che a costituire una buona pratica professionale di elevato livello, possono contribuire a salvaguardare la salute del paziente e tutelare l’operatore sanitario da eventuali azioni giudiziarie[63].

Sotto quest’ultimo profilo, lo scopo delle linee guida, nell’applicazione giudiziaria per i casi di colpa sanitaria, è quello di sostituire il parametro dello standard medio di diligenza, cioè della persona ragionevole, con un parametro molto più specifico ed analitico, costituito da procedure sperimentate e convalidate per l’esercizio di una corretta pratica clinica e assistenziale[64].

Circa la natura e l’efficacia giuridica delle linee guida si registrano opinioni differenti, sostenendosi che: 1) i protocolli potrebbero rientrare nella nozione di discipline di cui all’art. 43 c.p., e dunque costituire il presupposto per un addebito di colpa specifica; 2) oppure, volendo escludere una loro valenza quali discipline, detti protocolli, suggerendo, ma non imponendo, determinati standard comportamentali, potrebbero comunque essere utilizzati come criterio per valutare l’esistenza o meno della colpa generica.

La dottrina e la giurisprudenza sembrano aderire a questa seconda impostazione, sul presupposto che la colpa va sempre accertata ex ante, al momento in cui l’agente ha posto in essere la sua condotta, e sulla base delle circostanze da lui conosciute e/o conoscibili[65].

A tal proposito, si avverte che “la valenza delle cosiddette linee guida, quali parametro di riferimento della corretta condotta medica, non è assoluta, poiché esse fissano sì linee di riferimento del contegno medico perito e diligente, ma si tratta di parametri prevalentemente generali, la cui applicazione concreta deve essere personalizzata avuto riguardo alle condizioni del singolo paziente. Sicché esse non possono essere vincolanti perché nella maggior parte dei casi il principio professionale resta quello dell’adeguamento del trattamento alla situazione specifica del paziente considerate le sue condizioni psicofisiche e cliniche”[66].

In definitiva, nonostante il diffondersi delle linee guida, si deve ritenere che il paradigma dell’homo eiusdem professionis et condicionis costituisca l’irrinunciabile parametro di valutazione della condotta nell’attività sanitaria (specialmente quella medico-chirurgica), poiché le stesse linee guida, per quanto specifiche e dettagliate, non possono essere del tutto esaustive, tenuto conto delle peculiarità che può avere il singolo caso, e delle differenti caratteristiche di ogni singolo paziente. Nel settore sanitario, quindi, l’osservanza di determinate regole dettate per l’esercizio di una certa attività non basta ad escludere la colpa, occorrendo, comunque e in ogni caso, il rispetto delle regole cautelari non scritte di diligenza, prudenza e perizia[67].

 

 

4.5         Il nesso di causalità in ambito sanitario

L’accertamento del nesso causale in materia di colpa sanitaria è il passaggio cruciale, e forse più delicato e complesso, dei processi per responsabilità professionale sanitaria.

A fronte di un evento lesivo subito dal paziente, che nell’ambito delle figure delittuose di cui agli artt. 589 e 590 c.p. è rappresentato dalla morte o dalla malattia, si pongono sotto il profilo della causalità diverse questioni rilevanti: innanzitutto, individuare la causa dell’evento sotto il profilo meramente naturalistico (causalità materiale); successivamente, accertare se la condotta, commissiva od omissiva, posta in essere dal sanitario abbia in qualche modo interferito nel rapporto materiale, contribuendo anch’essa alla produzione dell’evento (causalità della condotta); da ultimo, tenuto conto che l’addebito mosso al sanitario è, comunemente, di carattere colposo, verificare se la ipotizzata violazione della regola cautelare possa avere cagionato, anche come concausa, l’evento lesivo (causalità della colpa)[68].

La causalità materiale evoca un rapporto di causa/effetto di tipo naturalistico: un determinato evento si verifica in tempi successivi rispetto a un fatto naturale, che costituisce il precedente che ha provocato, quale effetto materiale, il predetto evento (ad esempio, l’infarto che causa la morte del paziente).

Occorre precisare che non sempre l’individuazione del rapporto di causalità materiale si presenta così agevole, sia perché i fattori naturali eziologici di una patologia possono essere plurimi, sia perché non sempre si può avere  una completa conoscenza dell’intero meccanismo eziologico, ovvero delle singole fasi intermedie attraverso le quali si produce l’evento finale[69].

Dopo aver individuate la causalità materiale bisogna procedere ad una successiva verifica: se ed in quale misura la condotta umana abbia inciso nella produzione dell’evento, poiché in assenza di interferenza da parte dell’opera dell’uomo la relazione causale è, dal punto di vista giuridico, indifferente.

Ci si deve, pertanto, chiedere se il soggetto, con la sua condotta commissiva od omissiva, abbia contribuito al verificarsi dell’evento, nel senso che, senza il suo intervento, l’evento medesimo non si sarebbe verificato oppure si sarebbe verificato ma con differenti modalità. Ad esempio, il paziente si è sottoposto ad un intervento chirurgico, nel corso del quale per intervenute complicanze è deceduto: ricostruita la dinamica causale dal punto di vista naturalistico, si deve accertare se il chirurgo, inseritosi con la sua condotta nella sequenza causale materiale, abbia contribuito a determinare l’evento morte, sicché, in quella circostanza, il paziente non sarebbe deceduto se il chirurgo non avesse deciso di intervenire[70].

La causalità della condotta (o causalità giuridica) ha fini in parte diversi rispetto alla causalità materiale, perché non svolge soltanto una funzione conoscitiva (cioè sapere se un evento possa essere fatto risalire a un altro fatto o evento naturale), ma funge da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto. Talvolta, la causalità materiale e la causalità della condotta possono anche coincidere, qualora il fatto materiale che, dal punto di vista naturalistico ha cagionato l’evento, sia costituito dall’opera dell’uomo: si pensi al chirurgo che con il bisturi recida un vaso arterioso, o che suturi in modo errato la ferita operatoria, causando una letale emorragia[71].

Una ulteriore ricerca deve essere compiuta nei reati colposi, e, cioè, se la violazione di una determinata regola cautelare abbia cagionato l’evento in concreto verificatosi. Riprendendo l’esempio fatto poc’anzi, se un’emorragia determina il decesso del paziente dopo un intervento chirurgico, sussiste il nesso di causalità con la condotta del chirurgo se questi ha suturato la ferita con negligenza o imperizia, violando cioè quelle regole cautelari finalizzate a prevenire l’evento ‘emorragia’, e la cui osservanza da parte del chirurgo ne avrebbe impedito il verificarsi[72].

Il meccanismo cui si ricorre per la ricostruzione del fenomeno causale è quello della condicio sine qua non, integrata dalla individuazione di leggi scientifiche di copertura. Come si è già anticipato, sussiste il nesso di causalità se, e soltanto se, la condotta si pone come condizione necessaria dell’evento in concreto verificatosi. Per poter stabilire se una condotta sia o meno condizione necessaria di un certo evento si ricorre ad un giudizio controfattuale: quando la condotta è attiva ci si chiede, attraverso un procedimento di eliminazione mentale, se l’evento si sarebbe verificato ugualmente se non ci fosse stata l’azione (se il chirurgo non avesse colposamente reciso l’arteria il paziente sarebbe sopravvissuto?); quando, invece, la condotta è omissiva occorre chiedersi, attraverso un processo di aggiunta mentale, che cosa sarebbe successo se il soggetto obbligato (garante) avesse posto in essere la condotta comandata (se il medico avesse somministrato la terapia farmacologica adeguata, il paziente si sarebbe salvato?)[73] [74].

Il giudizio controfattuale che accerta l’esistenza, o l’esclusione, del nesso causale, deve essere condotto sulla base di leggi scientifiche (leggi universali e statistiche), idonee a spiegare che la realizzazione di un dato atto è seguita dal verificarsi di un certo evento.

Pare utile sottolineare che le leggi scientifiche di natura universale, le quali consentono di affermare che da un dato antecedente deriva sempre una determinata conseguenza, raramente trovano applicazione nei processi per responsabilità sanitaria colposa: in tale ambito, il riferimento è, in genere, alle leggi statistiche, con cui si può affermare che da una data condotta consegue, non sempre, ma solo in una certa percentuale di casi, un evento[75].

 

 

4.5.1        Gli orientamenti giurisprudenziali

L’accertamento del rapporto di causalità nei casi di responsabilità colposa in ambito sanitario ha sempre posto particolari problemi interpretativi in giurisprudenza.

È appena il caso di rilevare che ricostruire il nesso causale in termini di certezza in un settore come quello medico, strutturalmente carente di regole cautelari la cui osservanza garantisce con un corrispondente livello di sicurezza la probabilità di evitare l’evento, risulta assai difficile, per cui si è costretti a ricorrere a criteri probabilistici[76].

Tanto premesso, si tratta a questo punto di esaminare i diversi orientamenti assunti dalla giurisprudenza sulla spinosa questione della causalità nel settore sanitario, in particolare sull’accertamento del grado di probabilità richiesto per ritenere esistente il rapporto di causalità tra condotta ed evento. Occorre, sin d’ora, anticipare “come il versante senz’altro più controverso della causalità, sul quale si è concentrata l’attenzione, è quello omissivo, mentre non si pongono quesiti particolari, ovvero specifici del settore qui considerato, laddove risulti chiaro che il medico, o un suo ausiliario, abbiano senz’altro materialmente cagionato, con una condotta palesemente attiva, la morte o le lesioni personali del paziente (ad esempio: somministrando per errore protossido d’azoto anziché ossigeno, o iniettando per disattenzione una sostanza nociva anziché il farmaco, ecc.)”[77].

Secondo un primo orientamento sussiste il nesso causale tra la colposa omissione del sanitario e la morte o lesione del paziente anche quando l’esatta e tempestiva opera del sanitario (che in realtà non vi è stata) avrebbe potuto evitare l’evento con un livello basso (o medio-basso) di probabilità. Particolarmente significativa in proposito è una sentenza della Corte di Cassazione che, confermando la sentenza di condanna dei giudici di merito per omicidio colposo,  aveva affermato che: “ nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento, in materia di responsabilità per colpa professionale sanitaria, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tali effetti, anche limitata, e della idoneità della condotta a produrli; quindi il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata, con una certa probabilità, salvata”[78] (nella specie, si trattava di omicidio colposo per tardiva diagnosi di infezione tetanica in una donna sottoposta a taglio cesareo; i giudici di merito avevano ritenuto il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento letale, sussistendo la probabilità del 30% che un corretto e tempestivo intervento terapeutico avrebbe avuto esito positivo).

In altre sentenze, la sussistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento è stata ravvisata in presenza di un livello probabilistico medio, o medio alto: è stata, per esempio, confermata la condanna di un imputato in un caso in cui le probabilità di salvezza del paziente erano dell’ordine del cinquanta per cento; altrove, si rivengono livelli più elevati, del settanta/ottanta per cento[79].

Altre volte ancora, la Cassazione ha adottato formule vaghe, che non consentono di individuare il livello probabilistico richiesto ai fini della sussistenza della causalità. Spesso ricorre il riferimento a (non meglio precisate) ‘serie ed apprezzabili possibilità di successo’. Esemplari le seguenti massime:

– “il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del medico, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata”[80];

– “in tema di responsabilità per colpa medica, quando questa sia costituita dalla mancata attuazione di interventi diagnostici o terapeutici e si verta, quindi, in ambito di causalità omissiva, la ritenuta sussistenza del nesso causale tra condotta colposa ed evento non può che fondarsi su di un criterio probabilistico. Ciò significa che l’affermazione di responsabilità per un verso, non può basarsi su di un mero giudizio di possibilità; per altro verso può invece fondarsi sulla riconosciuta esistenza di quelle che, tradizionalmente, vengono definite come serie ed apprezzabili probabilità che la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi dell’evento”[81];

-“in tema di colpa professionale del medico, sussiste sempre il nesso di causalità allorché il tempestivo e corretto intervento sanitario sarebbe stato idoneo a produrre serie ed apprezzabili possibilità di successo per salvare la vita del paziente”[82].

In tempi recenti, un filone della giurisprudenza di legittimità ha cercato di superare il precedente orientamento probabilistico, recependo l’opinione secondo cui, nella prospettiva dell’accertamento della causalità, il procedimento da utilizzare per stabilire se l’omissione sia o meno causale è identico a quello cui si ricorre in caso di causalità attiva. Sia in caso di condotta attiva, che in caso di condotta omissiva, il giudice deve avvalersi del modello della sussunzione sotto leggi scientifiche (universali o statistiche) ed accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, con alto grado di probabilità razionale[83].

L’espressione ‘alto grado di probabilità razionale’ deve essere intesa, secondo i giudici di legittimità, nel significato logico-scientifico. A tal proposito, si afferma che “per la scienza non vi è alcun dubbio che dire ‘alto grado di probabilità’, ‘altissima percentuale’, ‘numero sufficientemente alto di casi’ voglia dire che in tanto il giudice può affermare che un’azione o un’omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che ‘enunci una connessione fra eventi in una percentuale vicina a cento’, espressione che, come può notarsi, equivale a quella che usa la dottrina che, in tema di causalità omissiva, ritiene che il giudice può ravvisare il nesso causale se l’azione doverosa avrebbe impedito l’evento con una probabilità vicina alla certezza: è, infatti, difficile negare che sul piano logico, l’espressione vicina alla certezza voglia dire qualcosa di diverso dalla espressione vicina a cento”[84].

Pertanto, si è ritenuto che: “in tema di causalità omissiva, è possibile ravvisare il nesso causale se l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento con alto grado di probabilità logica ovvero con elevata credibilità razionale, cioè con una probabilità vicina alla certezza che può ritenersi raggiunta quando, sulla base di una legge universale o di una legge statistica, sia possibile effettuare il giudizio controfattuale (supponendo realizzata l’azione doverosa omessa e chiedendosi se in tal caso l’evento sarebbe venuto meno) con una percentuale vicino a cento”[85].

Per dirimere l’evidente contrasto determinatosi nel tempo all’interno della giurisprudenza di legittimità, in ordine alla prova del nesso causale, si è reso necessario l’intervento della Corte di Cassazione a Sezioni unite. In particolare, il contrasto che ha determinato tale intervento è stato ravvisato tra l’orientamento tradizionale e maggioritario, secondo cui sono sufficienti serie ed apprezzabili probabilità di successo del comportamento alternativo lecito, e l’orientamento più recente, secondo cui la condotta osservante delle regole cautelari (e in realtà omessa) dovrebbe caratterizzarsi per un’efficacia impeditiva dell’evento prossima alla certezza (quasi prossima a cento)[86].

Nella famosa sentenza Franzese, le Sezioni unite hanno affrontato il problema dell’accertamento del nesso causale, innanzitutto, prendendo posizione sugli orientamenti in conflitto.

Nella suddetta pronuncia, i giudici di legittimità criticano, in primo luogo, l’indirizzo interpretativo  secondo cui, nella prospettiva del rapporto di causalità, sono sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ del comportamento alternativo lecito, affermando che tale soluzione “pur se rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale e prevalente orientamento della Sezione Quarta, finisce per basarsi su coefficienti di probabilità indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui”[87].

Le Sezioni unite rifiutano anche la tesi opposta, secondo cui, per la prova del nesso di causalità, possano venire in considerazione solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimono un coefficiente probabilistico prossimo alla certezza, quanto all’efficacia del comportamento alternativo lecito. Ciò in considerazione del fatto che nell’ambito della medicina biologica e clinica non è possibile esigere (tassativamente) la certezza, ovvero un grado di probabilità confinante con la certezza, proprio in quanto la scienza medica solo raramente è in grado di suggerire programmi di comportamento di sicura efficacia. Secondo le Sezioni unite, “il giudice, dunque, non dovrebbe mai limitarsi a considerare il livello probabilistico espresso dalla legge; infatti, un livello probabilistico basso non sarebbe incompatibile con l’affermazione della causalità in rapporto al caso concreto, e all’opposto, un livello probabilistico alto potrebbe non supportate adeguatamente l’affermazione della causalità nella singola ipotesi considerata”[88].

Dopo aver criticato entrambi gli orientamenti, le Sezioni unite enucleano i criteri validi, ovvero criteri-guida, per ricostruire il nesso causale tra omissione ed evento lesivo, che così possono essere sintetizzati:

a) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza, o di una legge scientifica, universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, impeditiva dell’evento hic et nunc verificatosi, questo non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva;

b) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia escluso altresì l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’;

c) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio[89].

Alla luce di quanto affermato nella sentenza Franzese, si può osservare che, nell’accertamento del nesso causale, le leggi statistiche continuano a costituire, quando esistano, il punto di partenza dell’indagine del giudice penale. Egli dovrà, poi, verificare se la legge sia adattabile al caso esaminato, prendendo in esame tutte le caratteristiche specifiche che potrebbero minare la validità della legge di copertura (ad esempio, età, sesso, condizioni generali del paziente, presenza o assenza di altri processi morbosi interagenti, sensibilità individuale a determinati farmaci, ecc).

Il giudice non può, quindi, sostenere automaticamente l’ipotesi accusatoria sulla esistenza del nesso causale in base al coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, ma è tenuto a verificarne la validità al caso concreto, alla luce di quanto acquisito al processo (prove e/o indizi), al fine di dimostrare che la condotta omissiva del sanitario è stata condizione necessaria dell’evento con alto o elevato grado di probabilità razionale o di probabilità logica, vale a dire oltre ogni ragionevole dubbio.

Pertanto, anche criteri medio-bassi di probabilità per tipi di evento, se corroborati dal positivo riscontro probatorio possono essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di causalità[90].

Al contrario, se il quadro probatorio relativo alla ricostruzione del nesso causale si presenta insufficiente e/o contradditorio, e dunque vi sia il ragionevole dubbio sulla efficacia causale della condotta omissiva, s’impone il proscioglimento dell’imputato per insussistenza del fatto, mancando la prova di un elemento costitutivo del reato[91].

La giurisprudenza penale, successiva alla sentenza Franzese, sembra confermare l’indirizzo sostenuto dalle Sezioni unite, statuendo che: “per poter affermare sussistente il nesso causale, è necessaria al riguardo la certezza processuale, che deve essere desunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto, secondo un procedimento logico, analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal comma 2 dell’art. 192 c.p.p., che consenta di poter ricollegare un evento a una condotta omissiva al di là di ogni ragionevole dubbio”[92].

 

 

4.6         La responsabilità penale nell’attività sanitaria in équipe

Un aspetto del tutto particolare nel quadro della responsabilità penale è quello relativo alla responsabilità nell’attività sanitaria svolta nella forma d’èquipe, evenienza, questa, di sempre più frequente ricorrenza, ove si consideri che tale attività implica oggi un approccio al paziente da parte di plurime e diverse professionalità.

In linea generale, “si può definire attività in équipe, quella contraddistinta dalla partecipazione e collaborazione tra loro di più medici e sanitari, che interagiscono per il raggiungimento di un obiettivo comune, ovvero la cura del paziente”[93].

Giova premettere che l’espressione attività in équipe viene impiegata non solo per far riferimento alla équipe in senso stretto, cioè al gruppo di sanitari riunito in un unico contesto spazio-temporale (come avviene in sala operatoria), ma anche a tutte le ipotesi in cui all’attività curativa partecipino, in tempi diversi, più sanitari, ciascuno dei quali incaricato di specifici compiti nell’ambito di una cooperazione multiprofessionale[94].

Va, inoltre, precisato che i sanitari che partecipano all’attività curativa possono trovarsi in posizione paritaria, con differenziazione di competenze, oppure inseriti in un organizzazione gerarchica: nella prima ipotesi i sanitari hanno diverse qualificazioni professionali (o eventualmente anche la medesima) senza rapporto di subordinazione gerarchica, e la loro cooperazione dà luogo a un fenomeno di divisione del lavoro in senso orizzontale, nel senso che essi adempiono alle funzioni di loro competenza in piena autonomia e nel rispetto delle leges artis della propria specializzazione; nella seconda ipotesi, invece, tra i sanitari si instaura un rapporto di tipo gerarchico, da cui deriva una divisione del lavoro in senso verticale, ove un medico, per esperienza, anzianità, qualifica professionale o funzionale, assume una posizione di vertice (primario o capo équipe)[95].

L’attività sanitaria svolta nella forma d’équipe può dar luogo ad un concorso di responsabilità colpose che si atteggerà diversamente a seconda che il fatto sia l’esito della condotta di più soggetti che hanno agito indipendentemente l’uno dall’altro, ovvero della cooperazione consapevole di più persone.

Nel primo caso, si è in presenza di un concorso di fatti colposi indipendenti che hanno concorso a determinare un evento in relazione al quale ciascuno sarà chiamato a rispondere delle proprie omissioni diverse tra di loro ma aventi analoga efficacia concausale. In tale ipotesi, l’evento è cagionato da una mera coincidenza di azioni od omissioni non collegate da alcuna comune rappresentazione dell’evento e la responsabilità di ciascuno consegue al principio generale in tema di rapporto di causalità, di cui all’art. 41 c.p.[96].

Nella seconda ipotesi, invece, si è in presenza della c.d. cooperazione nel delitto colposo, definita dall’art. 113 c.p., il quale dispone che: “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”. Tale ipotesi differisce dal concorso di cause indipendenti, proprio per la peculiarità dell’atteggiamento psicologico dell’agente che, nel contesto delineato dal citato art. 113 c.p., deve avere contezza dell’esistenza dell’azione degli altri soggetti che apportano un contributo alla verificazione dell’evento[97].

Al riguardo, la Corte di Cassazione si è espressa affermando che “la cooperazione nel delitto colposo si caratterizza per un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, nel senso che ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con quella altrui, senza però che tale consapevolezza investa l’evento richiesto per l’esistenza del reato: ed è questo legame che consente di distinguere la cooperazione dal concorso di cause colpose indipendenti, ipotesi nella quale più soggetti contribuiscono colposamente a cagionare l’evento, senza tuttavia la consapevolezza di contribuire alla condotta altrui”[98].

Ciò premesso, la cooperazione di più sanitari in un unico contesto spazio-temporale, oppure in una sequenza di fasi interdipendenti, tutte dirette a salvaguardare la salute del paziente, pone il problema di stabilire, fermo restando il dovere di rispettare le leges artis del proprio ambito di competenza, se ed a quali condizioni il singolo operatore, in quanto partecipe dell’équipe (in senso lato) risponda dei comportamenti colposi riferibili agli altri componenti[99].

La dottrina prevalente ha riconosciuto l’operatività del c.d. principio di affidamento, in base al quale ogni componente del ‘gruppo’ non è tenuto a regolare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, ben potendo fare affidamento sulla circostanza che gli altri soggetti agiscano nell’osservanza delle regole di diligenza proprie. Tale principio consente di porre un limite alla estensione del dovere di diligenza dei sanitari che collaborano nell’attività terapeutica, dando la possibilità a ciascuno di dedicarsi, con la dovuta esclusività e concentrazione, ai compiti di sua specifica competenza, senza essere distratto dalla preoccupazione di controllare l’operato altrui[100].

Tuttavia, l’operatività del principio di affidamento non è assoluta ma incontra alcuni precisi limiti. Essi vengono ravvisati, innanzitutto, nella posizione apicale e gerarchicamente sovraordinata di un sanitario, il primario o il capo équipe, che fa sorgere a suo carico un obbligo di vigilare e sorvegliare l’operato dei suoi collaboratori. Inoltre, nell’esistenza di circostanze di fatto percepite o percepibili dai componenti del gruppo, che facciano venire meno l’iniziale aspettativa di una condotta altrui corrispondente ai doveri di diligenza, prudenza e perizia, come nei casi in cui, a causa dell’altrui comportamento colposo, sia già in atto una situazione pericolosa per un paziente, oppure vi sia ragionevole motivo di ritenere che essa possa realizzarsi (ad esempio per le condizioni di salute non buone di un collega, la sua giovane età, la sua inesperienza o la distrazione)[101].

Il principio di affidamento viene meno in quei casi in cui vi sia la possibilità, da parte di ciascun membro del gruppo, di rendersi conto dell’errore del collega, in altri termini, di apprezzare il venir meno della diligenza altrui. Tale apprezzamento è, in ogni caso, circoscritto all’errore evidente, e come tale riscontrabile con l’ausilio delle conoscenze del professionista medio (non certo riferibili a campi altamente specialistici). Una volta percepito l’errore, subentra l’obbligo di richiamare l’attenzione del collega affinché si corregga, o, se questi persista nella sua condotta, di intervenire, ove possibile, per porre rimedio.

Come rilevato dalla dottrina, nel lavoro d’équipe vale, in sostanza, il principio di affidamento c.d. relativo: “il componente del gruppo può fare legittimo affidamento sul comportamento conforme alle regole cautelari degli altri operatori fino a quando, alla luce delle circostanze concrete e del patrimonio di conoscenze di ogni sanitario, dotato di media capacità e preparazione, non si evidenzi una loro condotta  non corretta o pericolosa; nel qual caso diventa operativo il dovere di vigilanza e di intervento per prevenire o eliminare l’errore del collega”[102].

A tale riguardo si richiama una sentenza che, occupandosi del caso di una morte di un neonato nell’imminenza del parto, in conseguenza di una grave crisi respiratoria, ha ritenuto responsabili sia il ginecologo, che aveva avuto in cura la donna prima del parto, per non essersi accorto di una situazione di sofferenza fetale (non infrequente e di agevole diagnosi) che avrebbe dovuto indurre ad operare il parto cesareo, sia altro medico, benché non specialista che, intervenuto per assistere il collega, del pari avrebbe dovuto agevolmente rendersi conto della situazione critica, caratterizzata nel caso di specie da sintomi evidenti, ed analogamente intervenire per affrontare una situazione che non richiedeva necessariamente la presenza di cognizioni particolarmente specialistiche. I giudici di legittimità hanno confermato la condanna dei due medici per il delitto di omicidio colposo, a titolo di cooperazione ex art. 113 c.p., perché l’errore commesso dal ginecologo non era ‘settoriale’, cioè relativo ad una specialità medica, ma emergeva dalle circostanze di fatto ed era percepibile anche da qualunque medico con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche[103].

Né sembra essere concesso troppo spazio al principio di affidamento in caso di successione temporale nella posizione di garanzia (c.d. passaggio di consegne). In proposito, l’orientamento della giurisprudenza è piuttosto rigoroso: da un lato, colui che subentra nella posizione di garanzia non può ritenersi sollevato dall’obbligo di eliminare situazioni di rischio preesistenti; dall’altro, chi vede altri subentrare nella posizione di garanzia non può ritenersi sollevato da responsabilità in relazione alla concretizzazione di un rischio, che egli stesso avrebbe dovuto eliminare[104].

Sul punto, la Cassazione ha affermato che: “in tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio all’omissione; sì che ove, anche per l’omissione del successore, si produca l’evento che una certa azione avrebbe potuto e dovuto impedire, l’evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l’evento”[105].

Ovviamente, se la situazione di rischio diviene percepibile solo dopo il passaggio di consegne da un sanitario all’altro, la responsabilità concerne soltanto il successore.

In ogni caso, in sede di passaggio di consegne, sussiste il dovere per il sanitario di informare colui che interviene nella cura del paziente, subentrando nella posizione di garante. È stato, quindi, affermato che il sanitario “che termina il suo turno di lavoro ha lo specifico dovere di fare le consegne a chi gli subentra, in modo da evidenziare a costui la necessità di un’attenta osservazione e di un controllo costante dell’evoluzione della malattia del paziente che sia soggetto a rischio di complicanze”[106]. La violazione di tale dovere, infatti, può essere alla base di una responsabilità per omicidio colposo in caso di morte del paziente.

A conclusioni, almeno parzialmente, diverse deve giungersi allorché intercorrano, tra più sanitari che cooperino tra loro, rapporti di tipo gerarchico, come quelli che vigono tra il primario e il personale del reparto di cui è responsabile, o quelli tra il capo di un équipe chirurgica e i componenti della stessa. In tal caso, infatti, si è ritenuto che, a carico di coloro che si trovano in una posizione di vertice, si configuri, quale contraltare del diritto/dovere di dirigere e coordinare l’altrui attività, un obbligo di controllo dell’operato dei sanitari medesimi[107].

Per quanto riguarda la figura del primario pare utile, in primo luogo, richiamare quanto disposto dall’art. 63 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali), proprio in quanto, nell’esame delle problematiche connesse all’attribuzione della responsabilità dell’attività del reparto ospedaliero, continua ad essere il principale riferimento normativo.

Tale articolo recita: “il medico appartenente alla posizione apicale svolge attività e prestazioni medico-chirurgiche, attività di studio, di didattica e di ricerca, di programmazione e di direzione dell’unità operativa o dipartimentale, servizio multizonale o ufficio complesso affidatogli. A tale fine cura la preparazione dei piani di lavoro e la loro attuazione ed esercita funzioni di indirizzo e verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura, nel rispetto dell’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli, impartendo all’uopo, istruzioni e direttive ed esercitando la verifica inerente all’attuazione di esse.

In particolare, per quanto concerne le attività in ambito ospedaliero, assegna a sé e agli altri medici i pazienti ricoverati e può avocare casi alla sua diretta responsabilità, fermo restando l’obbligo di collaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali.

Le modalità di assegnazione in cura dei pazienti devono rispettare criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza”.

La giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che tale disposizione di legge abbia natura di fonte di obblighi di garanzia per il primario, da cui potrebbero derivare per lo stesso addebiti di responsabilità a titolo omissivo. Il primario, dunque, potrebbe essere chiamato a rispondere di eventuali comportamenti di operatori a lui subordinati, che abbiano cagionato eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica o psichica del paziente, in concorso o cooperazione con essi e, appunto, a titolo omissivo, per non aver impedito il verificarsi di tali comportamenti che egli avrebbe avuto il dovere giuridico di impedire[108].

È stato, infatti, affermato che “il primario di un reparto è titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti, alla quale non può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo nei casi di particolare difficoltà o complicazione: ciò dovendolo desumere dall’art. 7, 3° comma del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, secondo cui “il primario vigila sull’attività e sulla disciplina del personale sanitario, ha la responsabilità dei malati, definisce i criteri diagnostici e terapeutici che devono essere eseguiti dagli aiuti e dagli assistenti, formula la diagnosi definitiva”; nonché dall’art. 63, comma 5, del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, in forza del quale “il medico appartenente alla posizione apicale esercita funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura, nel rispetto dell’autonomia professionale operativa del personale assegnatogli, impartendo all’uopo istruzioni e direttive ed esercitando la verifica inerente all’attuazione di esse”[109].

Per quel che qui interessa, il primario ha il dovere di vigilare sull’operato dei sanitari a lui subordinati per evitare che da azioni da essi compiute possano derivare lesioni alla salute dei pazienti. Per svolgere tale funzione, egli è fornito dalla legge di specifici poteri giuridici impeditivi, consistenti in particolare: nella possibilità di fornire indicazioni vincolanti per i collaboratori circa l’indirizzo terapeutico degli interventi da eseguire; nella possibilità di ripartire il lavoro secondo criteri che egli ritenga opportuni; nella possibilità di avocare a sé casi al suo diretto intervento ove lo ritenga necessario[110].

Tuttavia, l’obbligo di garanzia del primario non può essere considerato assoluto; egli, infatti, non può essere chiamato a rispondere di qualsiasi evento lesivo occorso nella struttura da lui diretta. Al contrario, il primario dovrà essere chiamato a rispondere solo se l’evento lesivo sarebbe stato impedito dal corretto svolgimento dei poteri impeditivi assegnatigli. Di qualsiasi altra attività che abbia cagionato un danno, ma che non rientri nella sfera di controllo circoscritta dai predetti poteri, il primario non potrà essere ritenuto responsabile.

A conferma di ciò, si riporta un caso deciso dalla Suprema Corte che riguarda la morte di due pazienti causata da un’infermiera che, per errore, somministrava agli stessi una sostanza tossica (nella specie, sodio azide, un conservante delle urine che risulta tossico se ingerito), nella convinzione che si trattasse di solfato di magnesio. Inizialmente venivano chiamati a rispondere del reato, oltre all’infermiera stessa, anche il primario del reparto e la caposala: il primo in virtù del dovere, assegnatogli dalla D.P.R. n. 761/1979, di direzione e organizzazione del reparto a lui affidato; la seconda poiché proprio all’infermiere caposala il D.P.R. n. 128/1969 affidava l’onere della custodia dei veleni.

La Corte, però, se ritiene effettivamente sussistente la responsabilità della caposala in virtù della norma citata, di contro nega che del reato possa rispondere il primario, poiché quello di custodia dei veleni esula dai compiti che la legge assegna al medico in posizione apicale[111].

In relazione agli obblighi di garanzia di cui si è detto, il primario può incorrere sostanzialmente in due forme di colpevolezza: la culpa in eligendo e la culpa in vigilando.

La culpa in eligendo del primario attiene al compito di divisione del lavoro all’interno del reparto ospedaliero che la legge gli assegna, cioè gli fa carico di affidare ai collaboratoti suoi subordinati i compiti e le mansioni che essi dovranno svolgere.

Egli dovrà, quindi, innanzitutto, selezionare i compiti che ritenga di poter delegare. Inoltre, dovrà scegliere tra i suoi collaboratoti quelli che ritenga in grado di svolgere tali compiti adeguatamente. Se dal comportamento del delegato dovesse derivare un evento lesivo alla salute del paziente, al superiore potrà essere mosso un addebito di colpa per aver errato nella scelta della persona affidataria dell’incarico. In ciò, appunto, si concreta la culpa in eligendo: è “colpa consistente nella cattiva scelta del preposto”[112].

La culpa in vigilando del primario attiene, invece, ai compiti di verifica sulla prestazione, nel reparto da lui diretto, dei servizi di diagnosi e cura, e di verifica del rispetto, da parte dei suoi collaboratori, delle direttive da lui impartite. Egli è colpevole se omette di esercitare tali verifiche, o meglio, quelle verifiche che sarebbero risultate idonee a impedire il verificarsi di eventi dannosi per i pazienti[113].

Per quanto riguarda, infine, la figura del capo dell’équipe, strettamente intesa, ovvero come équipe chirurgica, numerose sono le indicazioni giurisprudenziali circa l’esistenza di un dovere di controllo sull’operato dei collaboratori. Ad esempio, in una pronuncia della Suprema Corte, è stato affermato che “il capo dell’équipe operatoria è titolare di un’ampia posizione di garanzia nei confronti del paziente che si estende sino alla fase dell’assistenza post-operatoria, che egli ha il dovere di controllare e seguire direttamente, oppure attraverso interposta persona”[114].

Tale assunto è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in un’altra sentenza, dove si legge quanto segue: “il chirurgo capo équipe, una volta concluso l’atto operatorio in senso stretto, qualora si manifestino circostanze denunzianti possibili complicanze, tali da escludere l’assoluta normalità del decorso post-operatorio, non può disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha l’obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che un’attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull’operato dei collaboratori. Ne consegue che il chirurgo predetto, il quale tale doverosa condotta non abbia tenuto, qualora, per complicanze insorte nel periodo post-operatorio e per carenze di tempestive, adeguate, producenti cure da parte dei suoi collaboratori, un paziente venga a morte, in forza della regola di cui al capoverso dell’art. 40 c.p., risponde, a titolo di colpa (ed in concorso con i detti collaboratori), della morte dello stesso”[115].

Come soggetto in posizione apicale, dunque, al capo équipe spetta l’organizzazione, il coordinamento e la sorveglianza sull’attività dei collaboratori: egli potrà quindi essere ritenuto responsabile degli errori colposi commessi da questi ultimi, se potevano essere da lui previsti ed evitati.

Tuttavia, l’imprescindibile obbligo di controllo a carico del capo équipe non può comportare un totale annullamento del legittimo affidamento sulla correttezza della condotta degli altri sanitari. Il dovere di controllo andrebbe inteso in senso limitato, ovvero “come obbligo di verifica della inesistenza di circostanze di fatto, oggettivamente rilevabili, che facciano supporre, in rapporto al caso concreto, come prevedibile, o altamente probabile, il prodursi di una negligenza di un componente dell’équipe[116]. E, quindi, “una volta che il capo équipe (prima dell’inizio dell’intervento chirurgico o del trattamento terapeutico) abbia ictu oculi constatato l’assenza di comportamenti colposi già in atto e le buone condizioni psico-fisiche di tutti i componenti l’équipe, egli può invero concentrarsi indisturbato sul corretto svolgimento delle proprie mansioni senza dover controllare l’operato degli altri”[117].

A tal punto, sia pure in sintesi, occorre esaminare, nella prospettiva del rapporto gerarchico, la responsabilità dei sanitari (medici e non medici) in posizione subalterna. A tale proposito ci si domanda se la struttura e l’organizzazione gerarchica incidano sulla attribuzione della responsabilità penale; in altre parole, se il personale sanitario che rivesta una posizione funzionale subordinata sia titolare di una posizione di garanzia eguale, o invece minore per contenuti, rispetto a quello del primario (o capo èquipe).

Per quanto riguarda i rapporti tra primario, assistente e aiuto[118], la giurisprudenza ha manifestato orientamenti di una certa rigidità, che possono apparire in contrasto con quanto appena affermato in relazione alla posizione apicale: a prescindere dai rapporti di subordinazione tra i professionisti, che, in ogni caso, non devono essere intesi in maniera rigorosamente gerarchica, le qualifiche funzionali dei medici non influiscono  sulle rispettive posizioni di garanzia, che risultano pertanto del tutto equivalenti.

Ne consegue, allora, che l’esistenza di rapporti di subordinazione tra assistente, aiuto e primario di un reparto ospedaliero non incide in maniera sostanziale sull’accertamento della cooperazione nella condotta colposa (art. 113 c.p.), atteso che “il rapporto in oggetto non può essere in nessun caso considerato tanto assoluto e vincolante da far ritenere che il sottoposto, nell’uniformarsi alle disposizioni del superiore, che concretizzino una condotta colposa, non vi cooperi volontariamente, e da esonerarlo, conseguentemente, dalla responsabilità per l’evento derivante da quella condotta”[119].

Così, l’assistente o l’aiuto, i quali, nelle opzioni di diagnosi o terapia effettuate dal primario, riconoscano (o possano riconoscere con l’ordinaria diligenza) elementi di dubbio o di rischio per il paziente, in ragione dell’autonomia professionale di cui godono, hanno il dovere di attivarsi presso il primario per manifestare le loro diverse valutazioni e se necessario il proprio motivato dissenso. Diversamente, in caso di atteggiamento di totale sudditanza, i sanitari subordinati potranno essere ritenuti responsabili, in cooperazione con il primario, dell’esito negativo del trattamento terapeutico[120].

È stato, infatti, affermato che: “nell’ambito di una équipe medico-chirurgica, nel caso in cui l’assistente (o l’aiuto) non condivida le scelte terapeutiche del primario che non abbia esercitato il suo potere di avocazione, il medico in posizione inferiore, che ritenga il trattamento terapeutico disposto dal superiore costituire un rischio per il paziente o essere comunque inidoneo per le sue esigenze terapeutiche, è tenuto a segnalare quanto rientra nelle sue conoscenze, esprimendo il proprio dissenso con le scelte dei medici in posizione superiore; diversamente egli potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico, non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento”[121].

Si ritiene che il dissenso debba essere manifestato formalmente: dunque sarà espresso, tendenzialmente, nella cartella clinica, il documento principale che ricostruisce l’iter sanitario di un paziente.

Occorre ricordare che il primario, che non volesse adeguarsi alle critiche mosse alle sue decisioni, può ottenere la collaborazione del subordinato dissenziente, avocando alla propria diretta responsabilità il caso. Ove il primario eserciti il potere di avocazione, infatti, il subordinato non potrà rifiutarsi di collaborare anche ad un intervento che non ritenga corretto. In tal caso, però, quella del subordinato sarebbe ovviamente una collaborazione meramente esecutiva, priva di spazi di autonomia decisionale. Egli, dunque, in caso di esito infausto, non correrebbe il rischio di essere rimproverato, perché, in virtù della suddetta avocazione, unico responsabile rimarrebbe il primario[122].

Analogo discorso può essere ripetuto per il rapporto primario (o responsabile d’équipe) e infermieri. Anche per l’infermiere, infatti, vale il diritto di dissenso a fronte di un ordine illegittimo o illecito impartito dal superiore: ove la disposizione data contrastasse con le più comuni ed elementari cognizioni sanitarie, patrimonio di ogni operatore del settore, anche per l’infermiere deve poter operare il diritto-dovere di dissenso, poiché, in difetto di tale manifestazione di volontà, insorgerebbe la responsabilità per concorso o cooperazione nell’evento lesivo alla salute del paziente[123].

 

 

4.6.1        La cooperazione tra medici e infermieri

Per quanto riguarda i rapporti tra medici e infermieri, soprattutto rispetto al problema della responsabilità in cooperazione, è importante sottolineare come l’evoluzione che ha interessato la professione infermieristica negli ultimi anni, determinando per tale professione la fine della posizione subalterna al medico e il riconoscimento della piena autonomia nell’ambito delle proprie competenze, abbia inciso su tali rapporti.

Nella vigenza della vecchia normativa (rappresentata dal D.P.R. 225/1974, il c.d. mansionario), il rapporto tra medico e infermiere era fondamentalmente analogo a quello intercorrente tra medico di qualifica superiore e medico gerarchicamente subordinato e, in particolare, analoghi erano i possibili rimproveri che potevano essere mossi al medico per eventi infausti cagionati dall’infermiere. La colpa, cioè, da cui avrebbe potuto derivare al medico un addebito di corresponsabilità per il fatto dell’infermiere, poteva consistere in una colpa nella delega, in particolare nella scelta dell’oggetto di essa o nella scelta del destinatario di essa (culpa in eligendo), oppure in una colpa nella sorveglianza sull’operato del destinatario della delega stessa (culpa in vigilando)[124].

Sicuramente colposo sarebbe stato il comportamento del medico che avesse delegato all’ausiliario l’esecuzione di un intervento non previsto dal D.P.R. 225/1974. In questo senso concorde è una decisione della Suprema Corte che tratta il caso di una paziente deceduta per arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio conseguente all’effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la narcosi. In essa  è affermata la responsabilità dell’anestesista, il quale, terminata l’operazione, ometteva di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, delegando tale incombenza ad un’infermiera, per di più non specializzata in anestesia[125].

In realtà, in tal caso, ai fini della sussistenza della colpa in capo all’anestesista, non rilevava che l’infermiera affidataria non fosse specializzata in anestesiologia, quanto l’aver il medico affidato ad un ausiliario un compito che avrebbe dovuto svolgere personalmente.

Al di là del caso di specie, in linea generale, sarebbe stata colposa la condotta del medico che avesse affidato un compito, legittimamente delegabile, ad un ausiliario di specializzazione diversa da quella che il compito stesso avrebbe richiesto. È questa una tipica ipotesi di culpa in eligendo, cioè di colpa nella scelta del preposto[126].

Per quanto riguarda, invece, i doveri di vigilanza del medico sull’operato degli infermieri, la legge stessa indicava in maniera esaustiva tutti quegli interventi che potevano sì essere svolti dal personale ausiliario, ma solo sotto il costante controllo del medico. Dunque, il medico che avesse ordinato all’ausiliario di eseguire uno di detti interventi e poi si fosse assentato, venendo meno al suo dovere di controllo, avrebbe risposto a titolo omissivo, per culpa in vigilando, dell’eventuale esito infausto che si fosse verificato[127].

All’epoca del mansionario, l’infermiere aveva l’obbligo di adempiere (solo) ai compiti in esso espressamente indicati, secondo le indicazioni e direttive del medico: ciò significava per l’infermiere una limitata autonomia operativa e, in caso di addebiti di responsabilità professionale, la consueta tesi difensiva secondo cui egli era un mero esecutore delle indicazioni impartite dal personale medico[128].

Detto ciò, si tratta ora di vedere come si atteggi il rapporto tra medico e infermiere, sempre sotto il profilo della responsabilità, dopo la riforma normativa.

Da tale riforma, infatti, “è derivata la definizione dell’infermiere come figura professionale indipendente rispetto al medico, non solo con specifiche competenze, ma con una sua propria area di competenza nella quale il medico sembra non potersi intromettere”[129]. A questo proposito si cita l’art. 1 del d.m. 739/1994 quando dice che “l’infermiere identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi; pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico”.

Certamente il medico non può più imporre all’infermiere le modalità di svolgimento di un intervento di competenza di quest’ultimo, ma, soprattutto, non può più indicare all’infermiere quali attività compiere per soddisfare i bisogni infermieristici del paziente.

Così stando le cose, sembra che “poco spazio sia rimasto per posizioni di garanzia del medico in quanto tale circa l’operato dell’infermiere. Il medico si è visto sottrarre di mano l’attività infermieristica anche dal punto di vista discrezionale e decisionale. Non rientrando più l’attività infermieristica nella sua competenza decisionale, egli non ne sarà più responsabile”[130].

A questo punto, si tratta di verificare nella pratica quanto appena detto.

Un’ipotesi tipica di situazione collaborativa tra medico e infermiere riguarda la prescrizione diagnostico-terapeutica, con particolare riferimento alla somministrazione di farmaci. Si tratta, infatti, di un ambito dove medico e infermiere necessariamente interagiscono, spettando al primo la prescrizione, al secondo la sua corretta applicazione.

Come statuito dal suo profilo professionale (d.m. 739/1994), l’infermiere è chiamato a garantire la corretta applicazione delle prescrizioni terapeutiche, e non la semplice somministrazione dei farmaci prescritti. Questo implica una costante verifica da parte dell’infermiere del processo terapeutico attraverso le sue varie fasi (prescrizione del farmaco, fornitura e approvvigionamento, conservazione, somministrazione, rilevazione di eventi avversi)[131].

A seguito del decesso di una paziente per una prescrizione sostitutiva di un farmaco non corretta (sia perché verbale sia perché errata nel dosaggio, essendo questo diverso dal farmaco sostituito), la Corte di Cassazione, ha stabilito che, oltre ai precisi obblighi di garanzia del medico rispetto al paziente, l’infermiere è tenuto a chiedere chiarimenti al medico, “essendo esigibile da parte dell’infermiere che l’attività di preparazione del flacone non sia apprestata in modo meccanicistico, ma in modo collaborativo con il medico, non già per sindacare l’efficacia terapeutica del farmaco prescritto, bensì per richiamare l’attenzione sui dubbi avanzati  a proposito del dosaggio in presenza di variazione del farmaco”. In tal caso, il compito gravante sull’infermiere era quello di “attivarsi al precipuo scopo di ottenere una prescrizione per iscritto che valesse a responsabilizzare il medico e ad indurlo ad un’eventuale rivisitazione della precedente indicazione”[132].

Dunque, laddove esistano dubbi o incertezze, l’infermiere deve intervenire contattando il medico e non eseguire passivamente la prescrizione, non essendo, come sottolineato dalla Suprema Corte, “un mero esecutore delle prescrizioni mediche”.



[1] BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, Cedam, Padova, 2001.

[2] MARINUCCI G. – DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2006. Cfr. anche FIANDACA G. – MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2008.

[3] MARINUCCI G.  – DOLCINI E., op. cit., 2006. Cfr. anche FIANDACA G., voce Omissione, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Utet, Torino, 1994.

[4] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008. Cfr. anche CADOPPI A., Il reato omissivo proprio, Cedam, Padova, 1988; MUSCO E., voce Omissione di soccorso, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Utet, Torino, 1994.

[5] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008. MARINUCCI G.  – DOLCINI E., op. cit., 2006.

[6] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006. FIANDACA G., Il reato commissivo mediante omissione, Giuffrè,  Milano, 1979; GRASSO G., Il reato omissivo improprio, Giuffrè, Milano, 1983.

[7] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006.

[8] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008, p. 583.

[9] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008. Cfr. anche FIANDACA G., op. cit., 1979; LEONCINI I., op. cit., 1999; SPASARI M., L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Giuffrè, Milano, 1957.

[10] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 157.

[11] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006.

[12] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006. In argomento cfr. anche AZZALI G., Il problema della causalità in diritto penale, in Indice penale, Cedam, Padova, 1993; SINISCALCO M., voce Causalità (rapporto di), in Enciclopedia del diritto, vol. VI, Giuffrè, Milano, 1960; STELLA F., voce Rapporto di causalità, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXV, Roma, 1991; FIANDACA G., voce Causalità (rapporto di), in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, Torino, 1988; MORSELLI E., Il problema della causalità nel diritto penale, in Indice penale, Cedam, Padova, 1998.

[13] VENEZIANI P., I delitti contro la vita e l’incolumità individuale – II. I delitti colposi, in Trattato di diritto penale parte speciale, diretto da MARINUCCI G. – DOLCINI E., Cedam, Padova, 2009. Cfr. anche FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008; STELLA F., op. cit., 1991.

[14] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche CADOPPI A. – VENEZIANI P., Elementi di diritto penale. Parte generale, Cedam, Padova, 2002; GRASSO G., op. cit., 1983.

[15] VENEZIANI P., op. cit., 2009, p. 47. Cfr. anche STELLA F., Causalità omissiva, probabilità, giudizi controfattuali – l’attività medico chirurgica, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2005, n. 3. Sulle questioni che insorgono circa la causalità omissiva si rinvia, in questo stesso cap., al par. 4.5.

[16] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 161. Cfr. anche STELLA F., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1975, p. 100: “Secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica, la cosiddetta legge generale di copertura, portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto”.

[17] STELLA F., op. cit., 1975.

[18] STELLA F., op. cit., 1975, p. 102. Cfr. anche DI GIOVINE O., Il problema causale tra scienza e giurisprudenza, in Indice penale, Cedam, Padova, 2004; AA. VV., Scienza e causalità, a cura di DE MAGLIE C. – SEMINARA S., Cedam, Padova, 2006.

[19] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006. Cfr. anche DALIA A.A., Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Jovene, Napoli, 1975.

[20] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006. In argomento cfr. anche GROSSO F., voce Dolo, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XII, Roma, 1988; PROSDOCIMI S., voce Reato doloso, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. XI, Utet, Torino, 1996; GALLO M., voce Dolo, in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Giuffrè, Milano, 1964; MARINUCCI G., Finalismo, responsabilità obiettiva, oggetto e struttura del dolo, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2003.

[21] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 248.

[22] Difetta, invece, la rappresentazione del fatto necessaria per la sussistenza del dolo quando l’agente versa in un errore sul fatto (art. 47 c.p.), quando cioè non si rappresenti la presenza di almeno uno degli elementi del fatto come conseguenza o di un’errata percezione sensoriale (errore di fatto) o di un’errata interpretazione di norme giuridiche o sociali (errore di diritto).

[23] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 252. Cfr. anche CERQUETTI G., La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Giappichelli, Torino, 2004; EUSEBI L., Il dolo come volontà, Morcelliana, Brescia, 1993.

[24] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008. Cfr. anche CERQUETTI G., op. cit., 2004; GROSSO F., op. cit., 1988.

[25] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008. Cfr. anche GROSSO F., op. cit., 1988; CANESTRARI S., La definizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2001.

[26] In argomento cfr. CANESTRARI S., Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Giuffrè, Milano, 1999; VENEZIANI P., Dolo eventuale e colpa cosciente, in Studium iuris, Cedam, Padova, 2001, n. 1; FORTI G., Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1999.

[27] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006.

[28] Cfr. CAGLI S., Delitto preterintenzionale e principio di colpevolezza, in Casi e materiali di diritto penale. Parte generale, a cura di CADOPPI A. – CANESTRARI S., Giuffrè, Milano, 2002; MAGLIO M.G. – GIANNELLI F., La preterintenzione, in Rivista penale, La Tribuna, Piacenza, 2001.

[29] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2011. Cfr. Cassazione penale, sez. IV, 11 dicembre 1992, Bonalda, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1993. Sostiene invece la tesi della responsabilità oggettiva l’ANTOLISEI, secondo il quale nel delitto preterintenzionale poiché l’evento morte viene posto a carico dell’agente sulla base del solo nesso di causalità, e cioè prescindendo da ogni indagine di carattere psicologico, è, quindi, indubitabile che ci si trovi di fronte ad un caso di responsabilità oggettiva (ANTOLISEI F., op. cit., 2008).

[30] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 284.

[31] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006. Cfr. FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008, p. 537: “la violazione delle norme a contenuto precauzionale caratterizza il reato colposo sotto un duplice punto di vista: oltre a integrare cioè una specifica forma di colpevolezza, essa rileva già sul piano della tipicità, in quanto ogni illecito colposo si conforma sulla base del rapporto intercorrente fra la trasgressione del dovere oggettivo di diligenza e i restanti elementi della fattispecie incriminatrice. Sicché, il contenuto del dovere di diligenza muta in funzione del tipo di fattispecie che viene in questione”.

[32] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008, p. 538. MANTOVANI F., Diritto penale. Parte generale, Cedam, Padova, 2001. Sui concetti di prevedibilità ed evitabilità v. soprattutto MARINUCCI G., La colpa per inosservanza di leggi, Giuffrè, Milano, 1965; GIUNTA F., Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Cedam, Padova, 1993.

[33] MARINUCCI G., op. cit., 1965, p. 2.

[34] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[35] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006.

[36] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Sui concetti di colpa generica e di colpa specifica cfr. anche FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008; MANTOVANI F., op. cit., 2001; GALLO M., voce Colpa penale (diritto vigente), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1960.

[37] MANTOVANI F., op. cit., 2001.

[38] VENEZIANI P., op. cit., 2009; MARINUCCI G., op. cit., 1965.

[39] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 268.

[40] FIANDACA G. – MUSCO E., op. cit., 2008.

[41] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006. Occorre precisare che il nesso tra la condotta colposa e l’evento è qualcosa di diverso e ulteriore rispetto al nesso di causalità tout court.

Quanto all’accertamento del nesso causale strettamente inteso (c.d. causalità materiale), valgono le regole generali desumibili dalla teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto le leggi scientifiche.

[42] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 276. Cfr. anche PIRAS P.F., Nesso di causalità e imputazione a titolo di colpa, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 1998; FORTI G., La descrizione dell’evento prevedibile nei delitto colposi: un problema insolubile, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1983.

[43] MARINUCCI G. – DOLCINI E., op. cit., 2006, p. 277. Cfr. anche GIZZI L., Il comportamento alternativo lecito nell’elaborazione giurisprudenziale, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2005.

[44] Dall’indagine realizzata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario che ha analizzato i dati forniti da circa ottanta Procure della Repubblica (nel periodo che va dal 1 gennaio 2009 al 31 agosto 2010) emerge quanto segue: il numero complessivo di procedimenti per lesioni colpose è 53741, di cui 901 a carico di personale sanitario (circa l’1,68% del totale); mentre il  numero complessivo di procedimenti per omicidio colposo è 6586, di cui 736 a carico di personale sanitario (circa l’11,18% del totale). www.sanita.ilsole24ore.com

[45] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche FRESA R., La colpa professionale in ambito sanitario, Utet, Torino, 2008; BILANCETTI M., op. cit., 2001.

[46]VENEZIANI P., op. cit., 2009; FRESA R., op. cit., 2008. Sul peso decisivo per l’esito del procedimento penale eventualmente instaurato che assume la valutazione peritale cfr. MAZZACUVA N., Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Rivista italiana di medicina legale, vol. VIII, Giuffrè, Milano, 1984; MUSCOLO P., La responsabilità penale del medico nella lesione e nell’omicidio colposi, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 1983.

[47] Su tali nozioni generali, si rinvia a quanto esposto in questo stesso capitolo al par. 4.3.2.

[48] Cassazione penale, sez. IV, 28 aprile 1994, n. 11007, in Rivista italiana di medicina legale, vol. III, Giuffrè, Milano, 1997.

[49] Cassazione penale, sez. IV, 26 ottobre 1983, n. 8917, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1984 e Cassazione penale, sez. IV, 24 novembre 1999, n. 13389, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 2000. Sul tema, in generale, cfr. VENEZIANI P., Regole cautelari proprie ed improprie, Cedam, Padova, 2003; MILITELLO V., Rischio e responsabilità penale, Giuffrè, Milano, 1988; BONAFEDE M., L’accertamento della colpa specifica, Cedam, Padova, 2005.

[50] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche BILANCETTI M., op. cit., 2001.

[51] FRESA R., op. cit., 2008. V. Cassazione penale, sez. IV, 12 aprile 2007, n. 24859, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2007.

[52] FRESA R., op. cit., 2008.

[53] FRESA R., op. cit., 2008.

[54] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[55] FRESA R., op. cit., 2008, p. 309.

[56] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche MANTOVANI F., op. cit., 2001.

[57] FRESA R., op. cit., 2008.

[58] In argomento cfr. VENEZIANI P., op. cit., 2009; BONANNO A.M., Protocolli, linee guida e colpa specifica, in L’indice penale, Utet, Torino, 2006; GIANNINI R., Linee guida in sanità: gli aspetti medico-legali, in Salute e Territorio, ETS, Pisa, 1997, n. 104; TERROSI VAGNOLI E., Le linee guida per la pratica clinica: valenze e problemi medico-legali, in Rivista italiana di medicina legale, vol. II, Giuffrè, Milano, 1999.

[59] FIELD M.J. – LOHR K.N., Guidelines for Clinical Practice: from development to use, Institute of Medicine, National Academy Press, Washington D.C., 1992.

[60] FRESA R., op. cit., 2008, p. 311.

[61] HELLEVISK M.S., L’evidenza scientifica nell’assistenza infermieristica verso il terzo millennio, in Atti del Convengo “Verso una nuova dimensione culturale infermieristica”, Milano, 2000.

[62] CANTARELLI M., Il modello delle prestazioni infermieristiche, Masson, Milano, 2006. Cfr. anche BENCI L., Manuale giuridico professionale per l’esercizio del nursing, McGraw Hill, Milano, 2001; NUCCHI M., Responsabilità infermieristica ed educazione alla speranza, Giuffrè, Milano, 1996; SPINSANTI S., Management per la nuova sanità, Edises, Napoli, 1997; SOPRANI P., La riduzione dell’errore umano in sanità: indagini, modello teorico di analisi e prevenzione, in Professioni infermieristiche, 2002, n. 4.

[63] FRESA R., op. cit., 2008.

[64] IADECOLA G., Il valore dell’opinione dell’Ordine professionale e delle Società scientifiche nel contenzioso penale, in Rivista italiana di medicina legale, vol. XXIII, Giuffrè, Milano, 2001. Cfr. anche PORTIGLIATTI BARBOS M., Le linee guida nell’esercizio della pratica clinica, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 1996.

[65] FRESA R., op. cit., 2008.

[66] IADECOLA G., op. cit., 2001, p. 13.

[67] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[68] FRESA R., op. cit., 2008. Sulla rilevanza dei tre livelli di causalità cfr. BRUSCO C., La causalità giuridica nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, in La responsabilità penale del medico, a cura di AMMIRATI D., Cedam, Padova, 2004; MONTAGNI A, La responsabilità penale per omissione. Il nesso causale, Cedam, Padova, 2002.

[69] Cfr. FIORI A. – MARCHETTI D., Medicina legale della responsabilità medica, Giuffrè, Milano, 2009; STELLA F., Clinica medica e processo penale: la spiegazione causale di singole malattie, in Rivista italiana di medicina legale, vol. X, Giuffrè, Milano, 1999; BARNI M., Il giudizio medico legale della condotta sanitaria omissiva, in Rivista italiana di medicina legale, vol. VII, Giuffrè, Milano, 1994.

[70] STELLA F., op. cit., 1991.

[71] FRESA R., op. cit., 2008.

[72] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche BENZI M., Scoprire le cause, FrancoAngeli, Milano, 2003; IADECOLA G., In tema di causalità e di causalità medica, in Rivista italiana di medicina legale, vol. XXIII, Giuffrè, Milano, 2001.

[73] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche BRUSCO C., op. cit., 2004; STELLA F., La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1988; MAZZA L., Il nesso di causalità nella responsabilità professionale, in Rivista italiana di medicina legale, vol. XIV, Giuffrè, Milano, 1994.

[74] Ad esempio: nel corso di un intervento il paziente muore per mancato afflusso di sangue al cervello (causa materiale); il mancato afflusso di sangue è stato la conseguenza di una manovra del chirurgo (causalità della condotta); tale manovra è stata compiuta in violazione delle leges artis e questa violazione ha provocato la morte (causalità della colpa). Il giudizio controfattuale dovrà essere compiuto in relazione a tutti e tre i livelli di ricerca della causalità, e se l’esito è positivo si potrà affermare la sussistenza del nesso causale.

[75] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche STELLA F., op. cit., 1975; FROSINI B.V., Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2002; GIORELLO G. – RICCIARDI M., Causalità, necessità, spiegazione, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 1998.

[76] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[77] VENEZIANI P., op. cit., 2009, p. 238. Sul tema della causalità omissiva cfr. anche DONINI M., La causalità omissiva e l’imputazione per aumento del rischio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano 1999; VENEZIANI P., La causalità omissiva, in Casi e materiali di diritto penale. Parte generale, a cura di CADOPPI A. – CANESTRARI S., Giuffrè, Milano, 2002; BARBIERI A., Omissione di interventi diagnostici o terapeutici ed accertamento del nesso causale, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 2001; TURILLAZZI E., Causalità omissiva, leggi di copertura e giudizio medico-legale, in Rivista italiana di medicina legale, vol. XXIII, Giuffrè, Milano, 2001; FINESCHI V., Responsabilità medica per omissione: malintesi e dubbi in tema di nesso di causalità materiale, in Rivista italiana di medicina legale, vol. IV, Giuffrè, Milano, 2000.

[78] Cassazione penale, sez. IV, 12 luglio 1991, n. 371, Silvestri e Leone,  in Il Foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1992.

[79] Cfr. Cassazione penale, sez. IV, 7 marzo 1989, Prinzivalli, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 1990; Cassazione penale, sez. IV, 2 aprile 1987, Ziliotto, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1989.

[80] Cassazione penale, sez. IV, 18 ottobre 1990, Oria, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 1991. Nello stesso senso: Cassazione penale, sez. IV, 13 giugno 1990, D’Erme, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 1991; Cassazione penale, sez. IV, 23 gennaio 1990, Pasolini, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 1991.

[81] Cassazione penale, sez. IV, 19 dicembre 2000, Brignoli e altri, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 2001.

[82] Cassazione penale, sez IV, 5 giugno 1990, n. 8148, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1991.

[83] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche STELLA F., op. cit., 2005; PALIERO C.E., La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 1992; DI MARTINO A., Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 2003.

[84] Cassazione penale, sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, Baltrocchi, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2001.

[85] Cassazione penale, sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, Baltrocchi, op. cit., 2001. Cfr. anche Cassazione penale, sez. IV, 28 novembre 2000, n. 2123, Di Cintio, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2001; Cassazione penale, sez. IV, 10 ottobre 2001, 2001, n. 36519, Ciccarelli, in Il Foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2002. Per un commento di queste sentenze di legittimità, cfr. CENTONZE F., Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2001; PIEMONTESE C., Responsabilità penale del medico e giudizio sul nesso causale, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 2003.

[86] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[87] Cassazione penale, sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 2002.

[88] Cassazione penale, sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, op. cit., 2002. Cfr. VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[89] Così, testualmente, Cassazione penale, sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, op. cit., 2002. In dottrina cfr. FIORI A. – LA MONACA G.– ALBERTACCI G., Le Sezioni unite penali della Cassazione riaffermano l’esigenza di elevata probabilità logica del nesso causale nelle condotte mediche omissive, in Rivista italiana di medicina legale, vol. VIII, Giuffrè, Milano, 2002; DI GIOVINE O., La causalità omissiva in campo medico-chirurgico al vaglio delle sezioni unite, in Il Foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2002; STELLA F., Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, in Rivista di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2002.

[90] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., La responsabilità medica, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2011. V. anche FRESA R., op. cit., 2008, p. 243: “Il ragionamento fondato su criteri probabilistici mantiene perciò la sua validità, fermo restando che i criteri probabilistici non rilevano in sé, quali dati puramente statistici ed espressione di una data percentuale aritmetica, ma sono strumentali al fine di pervenire ad un giudizio di probabilità logica, formato alla stregua di tutti gli elementi processuali acquisiti dal giudice, la cui credibilità razionale si riassume nella formula che l’evento verificatosi in concreto può essere collegato alla condotta dell’agente ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Ecco allora che il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale o di probabilità logica, indicato dalle Sezioni unite, non implica affatto una legge di copertura che esprima un coefficiente di probabilità vicino a 100, proprio perché la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale non si deduce automaticamente dal coefficiente di probabilità indicato dalla legge statistica”.

[91] FRESA R., op. cit., 2008.

[92] Cassazione penale, sez. IV, 3 ottobre 2002, Iannelli, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2003. Cfr. anche Cassazione penale, sez. IV, 11 aprile 2008, n. 15282, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2009.

[93] BUZZONI A., Responsabilità medica in équipe: orientamenti giurisprudenziali, (26 settembre 2006) in www.altalex.com.

[94] VENEZIANI P., op. cit., 2009.

[95] FRESA R., op. cit., 2008.

[96] Art. 41 c.p. (Concorso di cause): “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione od omissione e l’evento.

Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita.

Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”.

[97] BILANCETTI M., op. cit., 2001.

[98] Cassazione penale, sez. IV, 22 novembre 2004, n. 45069, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2005.

[99] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. MARINUCCI G.– MARRUBINI G., Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in équipe, in Temi – Rivista di giurisprudenza italiana, 1968; SEVERINO DI BENEDETTO P., La cooperazione nel delitto colposo, Giuffrè, Milano, 1988; GIZZI L., Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità medica in équipe, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 2006.

[100] Sul principio di affidamento cfr. in particolare MANTOVANI M., Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Giuffrè, Milano, 1997; PALAZZO F., Il fatto di reato, Giappichelli, Torino, 2004; PULITANO’ D., Diritto penale. Parte generale, Giappichelli, Torino, 2005.

[101] BUZZONI A., op. cit., 2006. Cfr. anche MANTOVANI M., Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1999.

[102] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche MANTOVANI M., op. cit., 1997.

[103] Cassazione penale, sez. IV, 18 maggio 2005, n. 18548, in CED Cassazione.

[104] VENEZIANI P., op. cit., 2009. Cfr. anche CORBETTA C., Responsabilità del medico per eventi dannosi subiti dal paziente nel caso di successione nella posizione di garanzia, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 2004; GARGANI A., Ubi colpa, ibi omissio: la successione di garanti in attività inosservanti, in L’indice penale, Cedam, Padova, 2000.

[105] Cassazione penale, sez. IV, 26 maggio 1999, n. 8006, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 2000.

[106] Cassazione penale, sez. IV, 2 aprile 1997, Di Paola, in CED Cassazione.

[107] BILANCETTI M., op. cit., 2001.

[108] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., La responsabilità nel lavoro medico d’équipe. Profili penali e civili, Utet, Torino, 2003. Cfr. anche PARODI C. – NIZZA V., La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Utet, Torino, 1996.

[109] Cassazione penale, sez. IV, 30 gennaio 2001, n. 3468, in Guida al Diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2001.

[110] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003. Cfr. anche IADECOLA G., Il medico e la legge penale, Cedam, Padova, 1993.

[111] Cassazione penale, sez. IV, 26 marzo 1992, Ciccarelli, in CED Cassazione.

[112] MARINUCCI G. – MARRUBINI G., op. cit., 1968. Cfr. anche AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003; LEONCINI I., Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Giappichelli, Torino, 1999.

[113] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003; LEONCINI I., op. cit., 1999.

[114] Cassazione penale, sez. IV, 1 dicembre 2004, Dilonardo, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2005.

[115] Cassazione penale, sez. IV, 7 novembre 1988, Servadio, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1990.

[116] FRESA R., op. cit., 2008, p. 377.

[117] BELFIORE E., Sulla responsabilità colposa nell’ambito dell’attività medico-chirurgica in équipe, in Il Foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1983, p. 299.

[118] Su profili professionali di tali figure v. Cap. I, par. 1.8.

[119] BUZZONI A., op. cit., 2006. Cfr. anche PARODI C. – NIZZA V. , op. cit., 1996; PROTETTI’ C. – PROTETTI’ E., Medici e biologi nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1998.

[120] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003, p. 39: “il subordinato, il quale si trovi in disaccordo con le scelte compiute dal superiore, stante l’autonomia professionale che la legge gli conferisce, seppur vincolata alle direttive ricevute (v. art. 63 del D.P.R. 761/1979), ha il preciso dovere di manifestargli il proprio dissenso, anche se tali scelte si siano concretizzate nell’ordine di esecuzione di un intervento terapeutico. La violazione di questo dovere, ed è evidentemente il caso del medico che, pur in disaccordo, taccia la propria opinione e si adegui supinamente alla volontà del superiore, non potrebbe non provocare un addebito di corresponsabilità a carico del subordinato, il quale è un soggetto professionalmente autonomo e pertanto responsabile del proprio operato”.

[121] Cassazione penale, sez. IV, 19 dicembre 2000, n. 1736, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002.

[122] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003.

[123] FRESA R., op. cit., 2008.

[124] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003. Cfr. anche LEONCINI I., op. cit., 1999.

[125] Cassazione penale, sez. IV, 30 novembre 1992, Aniballi, in Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 1994.

[126] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003.

[127] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003.

[128] FRESA R., op. cit., 2008.

[129] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003, p. 92.

[130] AMBROSETTI F. – PICCINELLI M. – PICCINELLI R., op. cit., 2003, p. 93.

[131] CARLI E., Le regole della professione, in Aggiornamenti professionali, 1999, n. 1. Cfr. anche FEDRIGOTTI COLOMBO A. – CORTESE FAUSTI C., Riferimenti per la nuova assistenza, in Aggiornamenti professionali, 1999, n. 2.

[132] Cassazione penale, sez. IV, 25 ottobre 2000, n. 1878, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2001.

 

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