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Riportiamo in questo articolo un’importantissima e recente massima (commentata) in tema di diritto di difesa e ruolo del difensore.
Come è noto, il diritto di difesa è un diritto costituzionale assolutamente centrale ed è dettagliatamente illustrato e riconosciuto dal combinato disposto degli art. 24 e 111 della Costituzione (in particolar modo dal primo dei due articoli).
Peraltro, l’estensione e l’effettivo riconoscimento del diritto di difesa (e del principio di con colpevolezza) sono il metro di misura dell’evoluzione di una società civile.
La persona accusata di aver commesso un reato ha il diritto di essere assistita tecnicamente da un difensore in ogni stato e grado del procedimento penale: dalla prima contestazione delle accuse, successivamente durante le indagini preliminari, nel corso della fase dell’accertamento del merito e poi durante tutta la fase esecutiva dell’ eventuale condanna.
Ovviamente, il diritto di difesa può essere esercitato dal titolare anche prima della instaurazione di un procedimento penale (ad esempio in sede di indagini investigative difensive preventive o, semplicemente, in occasione di una consulenza) e senza limitazione alcuna (come vedremo) che non sia espressamente prevista dalla Legge.

 

Il binomio difensore-assistito contraddistingue l’esercizio ed il riconoscimento del diritto di difesa ed anche dal punto di vista lessicale il termine ad-vocatus (che significa “chiamato con”) sottolinea come il ruolo del difensore imponga che l’avvocato sia sempre “al fianco” dell’accusato qualunque sia l’accusa mossa all’imputato ed il reato di cui si è macchiato (e mi sia concesso osservare che in questo ruolo sta la profonda nobiltà di questa professione vecchia quasi quanto l’uomo).
Del resto, l’alto tecnicismo della difesa (anche in materia di diritto civile ma ancor di più in quella penale ove sono in gioco diritti primari dell’individuo quali la libertà personale e la reputazione) impone che sia un professionista a coadiuvare e dirigere l’imputato/indagato nell’esercizio del diritto di difendersi.

Ma fino a che punto potrà spingersi il difensore nella propria attività defensionale a tutela dell’assistito?
Il tema è, ovviamente, di grandissima importanza sia per il professionista che per il diretto interessato.
Innanzitutto – come detto – i limiti dell’attività defensionale sono tracciati dalla procedura e ed anche dal diritto penale: è il Legislatore che ha vietato espressamente alcune iniziative e condotte dell’avvocato (così come ha riconosciuto anche particolari garanzie per la migliore tutela dell’attività del difensore in tema di intercettazioni e perquisizioni) che, in ogni caso, come ogni cittadino, è soggetto a tutte le leggi.
Secondariamente, è il codice deontologico di categoria che detta fondamentali principi e che deve essere sempre un punto di riferimento del difensore in tema di rapporti con i colleghi, i magistrati e gli assistiti.
Legge (e con tale termine intendiamo anche la Giurisprudenza) e codice deontologico devono essere sempre i punti di riferimento del difensore nell’esercizio dei suoi doveri, diritti e facoltà e a tali insopprimibili canoni devono essere affiancate anche le linee guida dettate dall’unione delle Camere penali in tema di indagini investigative difensive.

La sentenza in commento affronta il difficile capitolo delle informazioni che il difensore può passare al proprio assistito finalizzate a frustrare le iniziative investigative del PM e, in generale, ogni altra iniziativa giudiziaria in danno dell’assistito.
Ebbene (direi, fortunatamente), la recentissima Sentenza riconosce (sul solco di quelle che l’hanno preceduta) al difensore il diritto-dovere di informare il proprio cliente di ogni potenziale risoluzione dannosa dei Magistrati purché l’informazione sia stata legittimamente acquisita.
Se l’informazione è stata appresa dal difensore legittimamente (eventualmente anche fortuitamente), il professionista (già nominato dall’accusato, evidentemente) può informare il proprio assistito assicurandone (come è suo preciso compito) la migliore difesa.
Al contrario, se l’avvocato è venuto a conoscenza della notizia in maniera non legittima – ovvero non nell’esercizio di quelle funzioni riconosciutegli dall’ordinamento per la migliore amministrazione della giustizia e la tutela dei diritti fondamentali del cittadino – il professionista che passerà l’informazione al proprio cliente compirà atti astrattamente riportabili nello schema del favoreggiamento.

Vediamo il testo ed il commento della Sentenza n. 35327 emessa dalla VI^ Sezione della Corte di Cassazione 18 luglio – 22 agosto 2013 pubblicati su “Guida al diritto” n. 43 del 26 ottobre 2013:
“…….Non integra il delitto di favoreggiamento personale la condotta del difensore che, avendo “fortuitamente” acquisito la notizia dell’emissione nei confronti del proprio assistito di una misura cautelare, lo informi, consentendo così la sua latitanza, atteso che non esorbita dalla funzione del difensore partecipare al proprio assistito quanto possa aiutarlo a mantenere la propria libertà personale (nella specie, la Corte ha peraltro ritenuto corretta l’affermazione di responsabilità dell’imputato, sul rilievo che era risultato, in fatto, che questi non aveva affatto, avuta fortuita conoscenza dell’ordinanza, ma l’aveva avuta per il tramite di un operatore della polizia – separatamente giudicato – coinvolto nelle attività prodromiche all’esecuzione dell’ordinanza stessa, in ragione del legame di amicizia e di favori reciproci che intercorrevano tra quest’ultimo e il legale: così dovendosi escludere che l’informazione all’assistito fosse da ricondurre al legittimo esercizio del mandato del difensore)…..”

Il commento:
Si tratta di una importante decisone che affronta la questione del rapporto tra difensore e assistito ai fini della possibile configurabilità del reato di favoreggiamento personale. In proposito, è principio condiviso – recepito anche qui dalla Cassazione – quello secondo cui il reato di cui all’art. 378 del cp., in tanto è configurabile in quanto il difensore abbia travalicato la funzione affidatagli, avendo acquisito o attraverso la consumazione di veri e propri reati (rivelazione di segreto di ufficio e quant’altro di simile) o fraudolentemente notizie la cui comunicazione al cliente sia idonea a intralciare le indagini. In termini, di recente, si è pronunciata la sezione VI^, 18 maggio, 2010, Valentino, che, nello specifico ha escluso il reato valorizzando le circostanze “fortuite” dell’acquisizione della notizia poi rivelata all’assistito: così escludendo il reato di favoreggiamento in una vicenda in cui il difensore aveva casualmente captato l’informazione, intravedendola sullo schermo di un computer della procura , che un addetto stava adoperando per compilare un certificato da lui richiesto.
Non si era trattato quindi di una informazione, pur indubbiamente segreta, che era stata “fraudolentemente carpita dal difensore”, vertendosi nell’ipotesi di un’acquisizione della notizia dovuta a un caso fortuito, causata forse dall’infelice posizionamento dello schermo o all’errore di interrogazione del cervello elettronico da parte dell’impiegato.
In una simile ipotesi (in quella cioè di un’acquisizione fortuita di un’informazione, analoga all’ipotesi del ritrovamento di un documento smarrito per distrazione) non esorbitava certamente dalla funzione dell’avvocato partecipare all’assistito quanto possa aiutarlo a mantenere la propria libertà personale, essendo anche questo e soprattutto questo, il fine proprio della difesa. Nella vicenda qui esaminata le risultanze fattuali deponevano, invece, per una diversa ricostruzione delle modalità di acquisizione della notizia. Invero, era risultato, in fatto, che il legale non aveva affatto avuta fortuita conoscenza dell’ordinanza, ma l’aveva avuta per il tramite di un operatore della polizia – separatamente giudicato – coinvolto nelle attività prodromoche all’esecuzione dell’ordinanza stessa, in ragione del legame di amicizia e di favori reciproci che intercorrevano tra quest’ultimo e il legale: così dovendosi escludere che l’informazione all’assistito fosse da ricondurre al legittimo esercizio del mandato di difensore.
La sentenza è stata però annullata con rinvio per una più esauriente motivazione in ordine alla ravvisata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 378 del cp. (relativa all’ipotesi in cui il reato “favorito” sia quello di cui all’art. 416-bis del cp.).

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