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La vittimologia è la scienza che si occupa delle violazioni dei diritti umani (anche) a causa di eventi criminosi, che danno origine all’individuazione della parte offesa (o vittima, appunto) del reato ed alla reazione di questa e, più ingenerale, alla interazione tra autore e vittima del reato.

La finalità principale della vittimologia è quella di prevenire avvenimenti lesivi, determinando l’esistenza di predisposizioni nelle vittime ad essere tali attraverso l’individuazione e lo studio di “fattori di rischio o di vulnerabilità”. Si tratta di caratteristiche socio-demografiche o riconducibili allo stile di vita che possono in qualche modo esporre al rischio di subire episodi criminosi. La letteratura in questo senso ha permesso di individuare alcune categorie sociali più esposte al rischio di subire reati: i minori, le donne, le persone mentalmente ritardate, gli immigrati (le minoranze in generale) e le persone anziane.

Con riferimento a questa ultima categoria, spesso l’età anagrafica è caratterizzata da debolezza sia fisica che psicologica a volte resa viepiù invalidante da un livello di istruzione basso o medio/basso. Si tratta di fattori di vulnerabilità che espongono più facilmente la persona a una serie di violenze: reati comuni contro il patrimonio come scippi, borseggi, frodi, ma anche ad altri fenomeni criminosi come inadempienze nelle cure da parte di terzi, trascuratezza, maltrattamenti, abbandono ed isolamento.

La maggior parte di questi episodi avvengono tra le mura domestiche, dimensione che avvicina molto la categoria vittimologica in questione a quelle delle donne e dei minori. Rimangono però delle differenze nel caso delle persone in età avanzata, nel senso che in quest’ultimo caso l’ambiente domestico può essere teatro di violenza sia quando i crimini vengono compiuti dai familiari delle vittime (o da coloro che se ne dovrebbero prendere cura: badanti, infermieri etc.) come nelle fattispecie in danno dei minori e delle donne; sia da terzi estranei alla vita familiare della persona anziana (eventualità piuttosto rara nel caso delle altre “fasce deboli”).
Infatti, è proprio lo stile di vita delle persone seriamente anziane (e spesso anche disagiate o affette da handicaps fisici e mentali anche livi ma incidenti sulla qualità della vita) a spingerle ad una progressiva diradazione dei rapporti con terzi ovvero a ridurre drasticamente la cerchia delle persone frequentate e, più in generale, di tutti i rapporti interpersonali svolti all’estreno delle mura domestiche e l’offender – sempre più spesso – entra in contatto con la vittima avvicinandola nel luiogo ove la stessa si sente maggiormente al sicuro: la propria abitazione.
Particolarmente difficile è una stima reale ed attendibile della dimensione della vittimizzazione in danno alle persone di terza età: soprattutto se avviene all’interno della cerchia familiare o all’interno degli istituti di cura, l’abuso spesso non viene denunciato e rimane una realtà sommersa.

I comportamenti che può subire la persona in questi contesti (ovvero in un quadro di assistenza negata sia specialistica che “familiare”) vanno dalla violenza fisica (percosse, spintoni, schiaffi…), alla violenza psicologica (insulti, ingiurie, moritifcazioni della natura più varia, atteggiamenti e frasi dileggianti etc.), all’omissione pura e semplice che si tramuta in un danno (non fornire cibo, abiti, medicine, assistenza che sarebbe invece necessarie per la persona accudita etc.).

Queste condotte sono penalmente rilevanti e integrano le fattispecie di abuso dei mezzi di correzione e disciplina (art 571 c.p.) e maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 572 c.p.), ma presentano delle difficoltà di accertamento non indifferenti. Infatti, spesso, la vittima tende a giustificare soprattutto i reati di omissione che subisce sia per il peculiare rapporto di dipendenza che si instaura col caregiver (è un termine inglese che indica coloro che si occupano di offrire cure ed assistenza ad un’altra persona) sia per la difficoltà pratica di rivolgersi a terzi (soprattutto nel caso di anziani non autosufficienti e/o colpiti da infermità fisiche e/mentali). Quando i caregiver sono familiari o esercenti una funzione professionale di assistenza il reato in danno delle persone anziane loro affidate è, invero, tanto grave quanto di difficile accertamento posto che molto spesso le vittime nutrono sentimenti contrastanti di timore e riverenza nei confronti di coloro dai quali (anche a prezzo di vere e proprie sofferenze) dipendono.
Quando il reato è commesso da caregiver che non è un familiare della vittima ma un collaboratore domestico (ad esempio il c.d. badante) si verifica – rispetto al familiare offender – una maggiore probabilità che la vittima riferisca di eventuali abusi subiti (magari proprio a componenti della propria famiglia e non direttamente alle forze dell’ordine) poichè la vittima (soprattutto all’inizio del rapporto professionale del collaboratore) risulta essere meno psicologicamente influenzabile.

Tuttavia, anche quando il potenziale offender è persona a cui è affidata la cura della persona anziana (eventualmente non del tutto autosufficiente), la vittimizzazione presenta comunque un numero oscuro elevatissimo dal momento che particolarmente difficile è il raggiungimento della prova e la valida proposizione di una denuncia querela a seguito di una condotta maltrattante (anche solo dal punto di vista psicologico) esercitata su un soggetto che ha difficoltà ad orientarsi nello spazio e nel tempo e che non ha praticamente contatti con l’esterno.

A ciò si aggiunga la difficoltà di soggetti ricoverati presso apposite strutture poichè non più autosufficienti a comunicare con l’esterno e a denunciare condotte criminose che non hanno lasciato tracce dal punto di vista medico/scientifico.

Ed ancora, spesso le effettive rimostranze della vittima vengono sottovalutate dai familiari (non conviventi) preso effettivamente atto del fenomeno non occasionale di modificazione della realtà da parte della vittima affetta da patologie legate alla senilità.

Altre tipologie di reati che colpiscono le persone anziane (soprattutto presso le loro abitazioni) sono le truffe perpetrate con raggiri da persone esterne alla famiglia.

L‘offender trae in inganno il malcapitato nei modi più vari ma sempre approfittando della sua buona fede, dell’ingenuità, e facendo affidamento sulle (anche solo parzialmente) compromesse capacità di reazione e di critica.

Gli artifizi utilizzati sono di diversissima natura; gli autori dei predetti reati si fingono amici dei figli (dei quali conoscono il nome, il lavoro e l’eta!) o del parroco mandati per richiedere somme di denaro, fino a spacciarsi per esponenti delle forze dell’ordine (in possesso dei relativi segni distintivi), impiegati delle aziende telefoniche, del gas o del Comune. Lo scopo è quello di penetrare nel domicilio della vittima e, dopo averla distratta, sotrargli beni o preziosi oppure il progetto criminoso è quello di indurla a consegnare essa stessa beni e preziosi.

Tali tristi episodi trovano spesso risonanza nei media ma – sebbene in misura minore rispetto ai maltrattamenti di cui sopra – è ritenuto che vi sia una sostanziale sottostima degli episodi criminosi.

Invero, nel caso di truffe perpetrate con i raggiri evidenziati ovvero facendo leva sulla ridotta reattività (fisica e psichica) della vittima, spesso si assiste ad un comprensibile ma ingiustificato sentimento di vergogna di colui che è stato raggirato che omette di rivolgersi alle forze del’ordine ed ai familiari temendo di essere giudicato non più in grado di badare a se stesso.

Nel complesso, la vittimizzazione (intra o etero familiare, in danno della persona o del patrimonio) subita da questa categoria di persone è una realtà in buona parte ancora sommersa che le statistiche ufficiali e anche le indagini epidemiologiche fanno particolarmente fatica a rendere nota per la difficoltà a raggiungere e intervistare le vittime così come per la scarsa propensione delle stesse a parlare degli eventuali episodi criminosi subiti.

Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di violenza psicologica domestica (agita sia da familiari che da terzi delegati per l’accudimento) la percezione degli eventi è particolarmente falsata dalla tendenza della vittima a giustificare l’accaduto.

Anche l’accertamento penale di questi fatti di reato presenta numerose difficoltà ed è quindi necessario utilizzare una modalità di indagine che permetta di ottenere informazioni quanto più accurate possibili. Ad esempio, nel caso di sospetto reato commesso da caregiver, la vittima deve essere ascoltata senza la presenza di familiari o congiunti, con un approccio fondato sulla percezione di sicurezza che la vittima ha all’interno della propria abitazione e caratterizzato da domande volte ad individuare la natura del rapporto con la persona che si occupa delle necessità della supposta vittima nonchè la percezione che della stessa ha l’intervistato cercando di approfondire identificando le caratteristiche salienti del sospetto abuso.

Particolarmente illuminanti sono da questo punto di vista le domande di screening proposte dall’American Medical Association volte a sondare le possibili forme di abuso: qualcuno le ha fatto fare delle cose che lei non voleva fare? È stato toccato da qualcuno senza il suo consenso? Qualcuno ha preso delle cose sue senza chiedere il suo consenso? L’hanno minacciato o rimproverato? Ha firmato dei documenti che di cui non capiva il significato? Ha paura di qualcuno a casa? Resta solo per molto tempo? Qualcuno non l’ha aiutato quando lei aveva bisogno di aiuto in casa?

La medesima accortezza avrà il difensore nell’eventuale svolgimento della linea difensiva in favore del potenziale offender cercando di avere un approccio il più possibile non giudicante, considerando anche lo stress psicologico  e le difficoltà pratiche che la cura dell’anziano – magari non più autosufficiente – genera nel caregiver e le possibili conseguenze che tale difficile vissuto (caratterizzato anche da episodi grandemente crudi e stressanti legati alle più naturali e delicate esigenze fisiche) ha esercitato sulla condotta oggetto di giudizio.

Non dimenticando, peraltro, che proprio l’eventuale deficit cognitivo della vittima potrebbe averla portata ad incolpare ingiustamente l’indagato o a riferirne i comportamenti in maniera più o meno distorta.

È utile, inoltre, in sede di indagini investigative difensive, raccogliere informazioni da più fonti, in modo da avere una visione complessiva ed accurata della situazione che ha portato al sospetto abuso e, possibilmente, reperire elementi a discarico intervistando secondo le dispiszioni del codice di procedura penale anche conoscenti, parenti o vicini di casa a contatto con il caregiver e con l’anziano.

Nella medesima ottica è, altresì, fondamentale documentarsi accuratamente su quelle che sono le condizioni di vita della vittima, visitando la casa in cui vive e reperendo anche informazioni che ne attestino lo stato di salute. È infatti uno screening medico che permetterà di appurare eventualmente la presenza di lesioni, di cicatrici, uno stato di denutrizione o disidratazione o condizioni igieniche non idonee.

E’ di fondamentale importanza che tale tipo di indagine si estenda anche ad un esame dello stato mentale della asserita vittima dal momento che in assenza di riscontri medico/scientifici la versione della vittima sarà la prova principale (se non l’unica) a carico dell’incolpato.

BIBILIOGRAFIA:
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Decalmer, P., e F. Glendenning., (1997), The mistreatment of elderly people, London, SAGE Publications.
Rossi, E., (2009), Paure e bisogni di sicurezza degli anziani, Milano, Mondadori.

Sgritta, G.B., e F. Deriu., (2009), La violenza occulta. Violenze e maltrattamenti contro le persone anziane, Roma, Edizioni Lavoro.

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