Bibliografia AA. VV., L’educazione continua in medicina. Una guida per medici, operatori e dirigenti…
Profili di responsabilità civile dell’infermiere
5.1 La responsabilità civile: responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale
L’accertamento di una condotta (per lo più) colposa da parte del professionista sanitario, dalla quale siano conseguiti effetti pregiudizievoli per la salute del paziente, può determinare, oltre che conseguenze penali nel caso in cui il comportamento concretizzi l’ipotesi di un reato, l’obbligo di provvedere al risarcimento dei danni ingiustamente prodotti, nel sistema della responsabilità civile[1].
La responsabilità civile è tradizionalmente distinta in responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale (o aquiliana).
La responsabilità extracontrattuale consegue ad una condotta illecita che abbia determinato un danno ad un interesse giuridico di un terzo, direttamente tutelato, a prescindere da un preesistente rapporto giuridico tra danneggiato e danneggiante: essa deriva dal generale obbligo, imposto a tutti, di non arrecare danno ad altri (c.d. principio del neminem laedere). Trattandosi di un obbligo generale, cioè verso la generalità dei consociati, il diritto leso è di norma un diritto assoluto, attinente, cioè, ai beni fondamentali della persona, quali la vita, l’integrità fisica, la salute, la libertà, l’onore, la riservatezza, ecc[2].
La regola fondamentale in materia è contenuta nell’art. 2043 del codice civile (Risarcimento per fatto illecito), il quale stabilisce che “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Questo articolo sancisce, dunque, un principio di carattere generale ed assoluto, in base al quale chi danneggia ingiustamente un altro soggetto deve provvedere a risarcire il danno prodotto.
La responsabilità contrattuale, invece, presuppone tra il responsabile e il danneggiato un rapporto obbligatorio già precostituito, e può, quindi, derivare da un contratto, dalla legge oppure da un atto unilaterale.
Questa forma di responsabilità trova il suo riferimento normativo nell’art. 1218 del codice civile (Responsabilità del debitore), secondo cui: “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. In questo caso, il diritto leso è un diritto relativo, scaturente da un preciso rapporto insorto tra due soggetti, di cui l’uno (debitore) è tenuto ad un dato comportamento (prestazione) nei confronti dell’altro (creditore)[3].
Nella responsabilità contrattuale, dunque, l’oggetto del risarcimento non consiste nel danno prodotto ad altri, come nell’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c., ma nella inadempienza della prestazione richiesta.
Questa premessa è necessaria in quanto, prima di entrare nel merito delle specifiche problematiche della responsabilità civile in ambito sanitario, è opportuno identificare correttamente la natura del rapporto giuridico che si instaura tra la struttura, il singolo operatore e il paziente.
5.2 La natura del rapporto tra paziente, singolo operatore e struttura sanitaria
La prestazione sanitaria genera tra i vari soggetti interessati diversi rapporti che possono essere così individuati: rapporto operatore sanitario (non dipendente dalla struttura) e paziente; rapporto operatore sanitario (dipendente ospedaliero) e pazienti; rapporto operatore sanitario (dipendente di struttura privata) e paziente; rapporto struttura ospedaliera e paziente; rapporto struttura privata (casa di cura) e paziente; rapporto operatore sanitario e struttura ospedaliera; rapporto operatore sanitario e struttura privata.
5.2.1 Il rapporto tra sanitario libero professionista e paziente
Nel caso di prestazione sanitaria libero-professionale (ad esempio, una visita medica specialistica in ambulatorio privato, una prestazione infermieristica domiciliare in regime libero-professionale), il rapporto che si instaura tra il professionista e il paziente ha, senza dubbio, natura contrattuale[4]. Infatti, in relazione al sanitario libero professionista, che presta la sua opera a favore di terzi, in regime di autonomia, a proprio rischio ed avvalendosi di una sua personale organizzazione di lavoro, si è costantemente ritenuto configurabile un contratto d’opera professionale (art. 2229 c.c.), con la conseguente possibilità di configurare una sua responsabilità contrattuale.
5.2.2 Il rapporto tra sanitario dipendente ospedaliero (o di struttura privata) e paziente: la teoria extracontrattuale
Se non vi sono dubbi nel ricondurre nell’ambito contrattuale il rapporto che sorge tra sanitario libero professionista e paziente, al contrario, per ciò che attiene al rapporto tra sanitario dipendente ospedaliero (o di struttura privata) e paziente, vi sono posizioni apertamente contrastanti che riconoscono a tale rapporto natura ora contrattuale ora extracontrattuale.
Innanzitutto, si deve prendere in esame l’orientamento secondo cui la natura del rapporto è certamente extracontrattuale. Per coloro che sostengono tale posizione “l’inquadramento più corretto della responsabilità personale del sanitario è nel senso della sola applicazione dell’art. 2043 c.c., perché il rapporto contrattuale si instaura quasi sempre direttamente fra l’ente (ospedali e case di cura) ed il paziente, non fra il sanitario e suo cliente”[5].
La giustificazione a tale conclusione viene ravvisata nel fatto che l’accettazione del paziente comporta la conclusione di un rapporto contrattuale tra quest’ultimo e l’ospedale (o casa di cura), che assume verso il malato “l’obbligazione di svolgere attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura”[6].
Poiché a tale rapporto non partecipa il sanitario dipendente che materialmente appresta le cure, si precisa che: “non è configurabile, dunque, una responsabilità contrattuale del medico dipendente da un ente ospedaliero verso il paziente per danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico da lui commesso. Il quale errore, però, in mancanza di un preesistente rapporto tra il medico ed il paziente, rileva quale atto illecito causativo di un evento dal quale sia derivato un danno al paziente: rileva cioè, sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale. Sicché soltanto a questo titolo il medico dipendente è tenuto al risarcimento del danno nei confronti del paziente, e non anche a titolo di responsabilità contrattuale”[7].
In sostanza, dunque, tale orientamento ritiene che la responsabilità del medico dipendente è di tipo extracontrattuale, in quanto egli è legato solo alla struttura sanitaria, ospedale o casa di cura privata, da un rapporto di lavoro subordinato, mentre nessun contratto o accordo lo vincola al paziente. Al contrario, una responsabilità contrattuale sussiste nel rapporto diretto tra struttura sanitaria e paziente, sulla base del fatto che l’accettazione del paziente in ospedale (o casa di cura), ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un vero e proprio contratto.
5.2.3 Segue: la teoria contrattuale
All’orientamento che riconosce natura extracontrattuale al rapporto sanitario dipendente-paziente, si contrappone un diverso orientamento che tenta di far rientrare tale rapporto tra quelli di natura contrattuale.
Un primo indirizzo qualifica in termini contrattuali la responsabilità del sanitario dipendente facendo leva sulla teoria della immedesimazione organica.
In quest’ottica, la Suprema Corte, dopo aver ribadito la natura contrattuale del rapporto ospedale-paziente, afferma che: “la responsabilità dell’ente pubblico gestore del servizio sanitario è diretta, essendo reperibile all’ente, per il principio della immedesimazione organica, l’operato del medico suo dipendente, inserito nell’organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha causato danno al privato che ha richiesto ed usufruito del servizio pubblico. E, per l’art. 28 Cost., accanto alla responsabilità dell’ente esiste la responsabilità del medico dipendente. Responsabilità che hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilità del medico dipendente è, come quella dell’ente pubblico, di tipo professionale; e vanno applicate anche ad essa, analogicamente, le norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d’opera professionale”[8].
Secondo tale indirizzo la responsabilità dell’ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e dell’operatore sanitario suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, inserendosi nell’ambito del rapporto giuridico tra l’ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio, ha natura contrattuale di tipo professionale.
Questo orientamento giustifica la conclusione raggiunta facendo riferimento all’art. 28 della Costituzione secondo cui: “i funzionari e i dipendenti degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
L’estensione della responsabilità contrattuale anche alla figura del medico viene spiegata considerando che entrambe le responsabilità, del sanitario e della struttura, hanno radice nell’esecuzione non diligente della prestazione da parte del medico, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria. Pertanto, stante la comune radice, la responsabilità del sanitario dipendente è, come quella dell’ente pubblico, di tipo professionale contrattuale[9].
La Cassazione, negli anni successivi ha poi ribadito, consolidando il proprio orientamento sul punto, che “in caso di danno alla persona causato dall’imperizia del medico, dipendente di un ente ospedaliero gestore di un servizio pubblico, sia il medico che l’ente ospedaliero rispondono nei confronti del danneggiato a titolo di responsabilità contrattuale”[10].
Per spiegare la natura contrattuale del rapporto, in dottrina, si è ricorsi pure al suo inquadramento tra i contratti con effetti protettivi a favore del terzo. Tale istituto “sarebbe espressione della esigenza di giustizia sociale o di equità, in base alla quale se l’esecuzione di un contratto è pericolosa non solo per il committente ma anche per la sfera dei soggetti che con questi si trovano in una relazione qualificata, esponendoli a identici rischi, l’obbligato deve essere consapevole del suo (ulteriore) dovere di evitare i potenziali danni al committente e ai terzi”[11].
Sulla base di questa figura contrattuale si afferma, quindi, che “il sanitario dipendente oltre a obbligarsi alla prestazione principale nei confronti dell’ente (sulla base del contratto di lavoro), assumerebbe anche un obbligo di protezione, cioè di non arrecare danni ai terzi estranei al contratto, ovvero i pazienti: in caso di inadempimento, la responsabilità del sanitario verso il paziente sarebbe di natura contrattuale, avendo egli violato tale obbligo di protezione derivante dal contratto di lavoro concluso con l’ente ospedaliero”[12].
5.2.4 Segue: la teoria contrattuale da ‘contatto sociale’
Fondamentale nel dirimere in via definitiva la questione della natura della responsabilità dei sanitari dipendenti di struttura (pubblica o privata) è stata la decisione resa dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 589 del 22 gennaio 1999.
In questa fondamentale sentenza, la Corte, in primis, critica la tesi a sostegno della sola responsabilità aquiliana del professionista dipendente di struttura. In particolare, per i giudici di legittimità tale conclusione non risulta soddisfacente per due ordini di motivi: 1) “in senso alla via extracontrattuale anzitutto (…) il medico che si presenta al paziente come apprestatore di cure all’uopo designato dalla struttura sanitaria, viene considerato come l’autore di un qualsiasi fatto illecito (un quisque). L’esito sembra cozzare contro l’esigenza che la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale”; 2) “detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda che non comincia con il danno, ma si struttura prima come rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele”[13].
Ciò premesso, la Corte di Cassazione ritiene che il rapporto sanitario dipendente-paziente debba essere, invece, ricondotto nell’ambito dei rapporti di tipo contrattuale. A tale conclusione, peraltro, la Corte giunge negando le impostazioni tradizionali, di cui si è dato conto nel paragrafo precedente, e affermando, invece, la tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Secondo i giudici di legittimità, infatti, “l’obbligazione del medico dipendente per responsabilità professionale nei confronti del paziente si fonda sul ‘contatto sociale’ caratterizzato dall’affidamento che il malato ripone in colui che esercita una professione protetta che ha per oggetto beni costituzionalmente tutelati. La natura contrattuale di tale obbligazione è individuata con riferimento non alla fonte ma al contenuto del rapporto”[14].
La Suprema Corte, a sostegno della natura contrattuale della responsabilità del sanitario dipendente verso il paziente, richiama la teoria della obbligazione senza prestazione; nel prosieguo del suo ragionamento afferma, infatti, che: “una recente, ma sempre più consistente, orientamento della dottrina ha ritenuto che nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da “un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto”, in quanto, poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale. La soluzione merita di essere condivisa”[15].
La Cassazione, affermando la responsabilità contrattuale del sanitario dipendente, argomenta detta conclusione facendo riferimento alla categoria dei rapporti contrattuali di fatto, ossia quei rapporti non derivanti da contratto ma la cui regolazione è quella propria dei rapporti contrattuali[16].
Il richiamo normativo è all’art. 1173 c.c., secondo cui: “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
In particolare, la Corte ha rilevato che “non si può criticare la definizione come contrattuale della responsabilità del medico dipendente della struttura sanitaria, limitandosi ad invocare la rigidità del catalogo delle fonti ex art. 1173 c.c., che non consentirebbe obbligazioni contrattuali in assenza di contratto. Infatti la più recente ed autorevole dottrina ha rilevato che l’art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o a da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale (tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, può annoverarsi il diritto alla salute), che trascendono singole posizioni legislative”[17].
La Corte giunge ad un ampliamento della portata dell’art. 1173 c.c., ritenendo che un’obbligazione possa sorgere tra sanitario dipendente e paziente, pur senza che tra i due sia stato stipulato un contratto. In particolare, si evidenzia “una possibile dissociazione tra la fonte, individuata secondo lo schema dell’art. 1173 c.c., e l’obbligazione che ne scaturisce. Quest’ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell’obbligazione contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto. In questa prospettiva, quindi, si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui tali soggetti entrino in contatto, senza che tale contatto riproduca note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell’ambito dell’art. 2034 c.c., l’ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale”[18].
La Corte giunge a dette conclusioni in considerazione del fatto che si tratti di una professione c.d. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, v. art. 2229 e art. 340 c.p.), la quale si traduce nell’esercizio di un servizio di pubblica necessità (v. art. 359 c.p.) che non può essere diverso a seconda dell’esistenza o meno di una contratto tra sanitario e paziente[19].
La Cassazione precisa che “la pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall’ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l’opera di quest’ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in contatto con lui (…). L’esistenza di un contratto potrà essere rilevante solo ai fini di stabilire se il medico sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria (salve le ipotesi in cui detta attività è obbligatoria per legge, ad es. art. 593 c.p.). In assenza di dette ipotesi di vincolo, il paziente non potrà pretendere la prestazione sanitaria del medico, ma se il medico in ogni caso interviene (ad esempio perché è tenuto nei confronti dell’ente ospedaliero, come nella fattispecie) l’esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente-medico) non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico. Da tutto ciò consegue che la responsabilità dell’ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi (qualificazione che discende non dalla fonte dell’obbligazione, ma dal contenuto del rapporto)”[20].
Da questa impostazione, fondata, dunque, sull’inquadramento della responsabilità contrattuale da contatto sociale la Cassazione non si è più discostata, giungendo, peraltro, ad estenderla anche al caso dei sanitari dipendenti da strutture sanitarie private[21].
5.2.5 Il rapporto tra struttura sanitaria e paziente: il contratto di spedalità
Quanto al rapporto tra struttura sanitaria (ospedale o casa di cura privata) e paziente, si è definitivamente consolidato l’orientamento giurisprudenziale che inquadra tale rapporto nell’ambito contrattuale. Esso trova il suo fondamento nella seguente constatazione: nel momento in cui il paziente viene accettato nella struttura, automaticamente, tra i due, si perfeziona un vero e proprio contratto[22].
In un primo momento, la giurisprudenza ha fatto riferimento alla conclusione di un contratto d’opera intellettuale (art. 2229 c.c.) tra struttura e paziente, avente ad oggetto l’esecuzione di una prestazione sanitaria.
In una pronuncia, ormai datata, si legge testualmente: “la responsabilità di un ente ospedaliero per i danni causati ad un ricoverato da prestazioni mediche dei sanitari dipendenti, erroneamente e non diligentemente eseguite, ha natura contrattuale: l’ente ospedaliero, infatti, ha concluso con il ricoverato un contratto d’opera intellettuale, obbligandosi ad eseguire le prestazioni mediche necessarie a mezzo dei sanitari suoi dipendenti; e, pertanto, la sua responsabilità discende dall’inesatto adempimento. Responsabilità che è quella tipica del professionista, appunto per inesatto adempimento della prestazione; con la conseguenza che vanno applicati i principi di diritto elaborati ed enunciati nella giurisprudenza da questa Suprema Corte in ordine alla responsabilità del professionista”[23].
Il Supremo Collegio ha ancora di recente ribadito che “il ricovero in una struttura sanitaria deputata a fornire assistenza sanitaria avviene sulla base di un contratto tra il paziente ed il soggetto che gestisce la struttura, e l’adempimento di tale contratto, per quanto riguarda le prestazioni di natura sanitaria, è regolato dalle norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell’ambito del contratto di prestazione d’opera professionale. Il soggetto gestore della struttura sanitaria (pubblico o privato) risponde perciò per i danni che siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme dettate dagli art. 1176, secondo comma, e 2236 c.c.”[24].
Dunque, quanto al rapporto tra struttura sanitaria e paziente, la giurisprudenza ha fatto richiamo alle norme che regolano la responsabilità del contratto d’opera professionale, benché l’attività dell’ente non possa ritenersi identica a quella svolta dal sanitario in essa operante.
Accanto a tale orientamento più tradizionale che, come visto, è stato pure riconfermato dalla recente giurisprudenza, secondo cui la responsabilità della struttura è di origine contrattuale, si è sviluppata un’altra linea di pensiero che, pur riconoscendo un vincolo di natura contrattuale, parla di un contratto atipico, cui viene dato il nome di contratto di spedalità.
Questo indirizzo, seguito anche da una parte della dottrina, mette in luce come la struttura sanitaria assuma una articolata e complessa obbligazione verso il paziente, che comprende oltre alla prestazione sanitaria in senso stretto, una serie di altre prestazioni: ricovero, forniture di servizi infermieristici, ristorazione, prestazioni volte a garantire la sicurezza degli impianti e delle attrezzature nonché la sistemazione logistica, i turni di assistenza e vigilanza, la custodia del paziente[25].
È stato, infatti, affermato che “la prestazione dell’organizzazione sanitaria consiste non soltanto nel fornire la cura al degente, ma anche nel procurargli l’assistenza post-operatoria e tutte quelle prestazioni necessarie ad adempire all’obbligo principale dell’organizzazione sanitaria, ovverosia di curare il malato; obblighi di assistenza e di custodia che possono descriversi come di prestazione rispetto a quello principale (…), e l’art. 19 della l. 132/68, sugli enti ospedalieri, afferma la necessità che l’ospedale abbia servizi adeguati a soddisfare le esigenze dell’igiene e della tecnica ospedaliera”[26].
Ad esempio, nel caso di un’infezione contratta dal paziente per una non perfetta asepsi della camera operatoria e della strumentazione impiegata è stata riconosciuta la responsabilità della struttura, così motivando: “la casa di cura assume nei confronti del ricoverato non solo l’obbligazione principale di curarlo con la diligenza necessaria sulla base della natura dell’attività esercitata, ma anche quelle obbligazioni a carattere accessorio e complementare che si accompagnano e confluiscono nell’obbligazione principale, e che sinteticamente si esprimono nel concetto di obbligo di adottare tutte le cautele necessarie e sufficienti a tutelare l’incolumità del malato”[27].
In sostanza, il rapporto che si instaura tra paziente e struttura sanitaria ha la sua fonte in un contratto atipico, in base al quale l’ente deve fornire al paziente stesso una prestazione assai articolata, definita genericamente di spedalità, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale, una serie di prestazioni accessorie e strumentali a quella. Sicché, “considerate unitariamente, tali prestazioni finiscono con il riferirsi ad un generale concetto di buona organizzazione: ciò consente di affermare la responsabilità contrattuale dell’ente (art. 1218 c.c.) non solo per gli eventi dannosi riferibili a specifici errori od omissioni dei sanitari suoi dipendenti (art. 1228 c.c.), ma anche per quelli riconducibili a carenze organizzative. In tal modo l’efficienza dell’organizzazione, pur continuando a svolgere la funzione di misura della qualità della prestazione di fare, forma oggetto di un vero e proprio obbligo strumentale (ai sensi dell’art. 1175 c.c.), la cui violazione può condurre sia all’inadempimento sia al non esatto adempimento dell’obbligo principale”[28].
È pacifico, dunque, che la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria possa presentarsi sotto due distinti profili e cioè, nel contesto del medesimo rapporto contrattuale ente-paziente, possa conseguire sia all’inadempimento delle obbligazioni che sono poste direttamente a carico dell’ente e sia all’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario (o dall’équipe di sanitari).
In sintesi, le fattispecie di responsabilità contrattuale dell’ente possono essere così distinte:
1) responsabilità per inadempimento degli obblighi relativi ai servizi sanitari non a contenuto strettamente medico-professionale (la c.d. responsabilità per deficit organizzativi e gestionali, ovvero per fatti propri), autonoma da quella eventuale del professionista, ossia più precisamente per:
– carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature tecniche;
– inadempimenti relativi a prestazioni assimilabili a quelle di carattere alberghiero, come la somministrazione di vitto e alloggio, ivi compresa l’inadeguata asepsi degli ambienti (si pensi, ad esempio, al fenomeno delle infezioni nosocomiali);
– mancata custodia e sorveglianza del paziente;
– somministrazione di preparati difettosi e nocivi (si pensi al caso della trasfusione di sangue infetto);
– utilizzo di prodotti scadenti, vetusti e difettosi (come, ad esempio, le protesi)[29].
2) la responsabilità per inadempimenti imputabili, in via esclusiva o in via condivisa, ai medici e/o al personale non medico. In tal caso, secondo l’interpretazione dominante, troverebbe “applicazione la regola posta dall’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”[30].
È ovvio che la struttura sanitaria, stante proprio l’atteggiarsi del contratto di spedalità, possa comunque, ogniqualvolta sussistano i presupposti fattuali, essere chiamata a rispondere contemporaneamente per entrambe le tipologie di inadempimento.
5.3 L’obbligazione sanitaria: l’addio alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato
Posto in evidenza come la giurisprudenza sia oramai concorde nel ricondurre le diverse ipotesi di responsabilità dei sanitari e delle strutture entro il regime di cui agli artt. 1218 e 1228 c.c., si tratta ora di scendere ad esaminare gli elementi costitutivi di questa responsabilità, ossia, in primo luogo, l’inadempimento. Per meglio comprendere quando si possa prospettare un inadempimento nel campo in esame, occorre, innanzitutto, riflettere sulla nozione di obbligazione sanitaria.
Al riguardo, per lungo tempo sono state considerate dalla dottrina e dalla giurisprudenza due contrapposte prospettive:
1) da un lato, la tesi secondo cui “il sanitario sarebbe tenuto a prestare la propria opera intellettuale sì per raggiungere un determinato risultato, ma senza essere gravato, qualsiasi sia il caso, del dovere di conseguirlo (il risultato viene cioè posto fuori dall’obbligazione), con la conseguenza che il sanitario, stante il suo impegno ad attuare esclusivamente una prestazione idonea al conseguimento di un particolare esito (diagnostico, terapeutico od estetico), risponderebbe per il solo caso in cui risulti in difetto quanto alle modalità di esecuzione della prestazione, cioè per non aver operato secondo le regole tecniche di condotta astrattamente funzionali alla realizzazione degli obiettivi finali”[31]; pertanto, in tal caso, l’inadempimento del sanitario sarebbe costituito dalla violazione dei doveri e degli obblighi di cautela e di precauzione inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, ovvero dalla deviazione dagli standard di diligenza qualificata ex art. 1176, secondo comma, e non dal mancato conseguimento del risultato utile; conseguentemente, il sanitario andrebbe esente da responsabilità dimostrando di aver svolto la propria attività con la diligenza e la preparazione imposte dalle regole della sua professione; in questa prospettiva, dunque, il parametro di valutazione dell’inadempimento poggerebbe totalmente sulla diligenza, ancorché qualificata.
2) dall’altro, la tesi secondo cui “il sanitario sarebbe sempre obbligato altresì al raggiungimento del risultato normalmente associabile alla prestazione oggetto dell’incarico professionale”[32]. In base a questa tesi il professionista, nonostante la sua condotta sia stata in tutto e per tutto diligente, sarebbe comunque da ritenersi responsabile ex art. 1218 c.c., qualora non riuscisse a provare che l’esito positivo per il paziente è stato impedito da una causa a lui non imputabile. In questa seconda prospettiva, quindi, il parametro per la valutazione dell’inadempimento andrebbe individuato sul piano del risultato.
Il confronto tra le due diverse prospettive sopra esposte si basa sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi (o di comportamento) e obbligazioni di risultato, che è stata accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza già nella prima metà del secolo scorso[33].
L’opinione dominante, almeno in giurisprudenza, ritiene da sempre che la prestazione sanitaria rientri tra le obbligazioni di mezzi o di comportamento e non, invece, in quelle di risultato. Ciò in quanto “l’obbligazione che il professionista assume verso il cliente, per effetto dell’accettazione dell’incarico conferitogli (conclusione del contratto d’opera professionale), ha per contenuto (prestazione) lo svolgimento dell’attività professionale necessaria ed utile in relazione al caso concreto ed in vista del risultato che, attraverso il mezzo tecnico-professionale, il cliente spera di conseguire (cosiddetta obbligazione di mezzi o di comportamento e non di risultato). Il professionista, dunque, ha il dovere di svolgere l’attività professionale necessaria ed utile in relazione al caso concreto, ed ha il dovere di svolgerla con la necessaria adeguata diligenza”[34].
Dunque, il contenuto dell’obbligazione del professionista è costituito dallo svolgimento dell’attività necessaria in vista del risultato che il cliente spera di conseguire (ossia per il paziente la guarigione): in medicina, il sanitario professionista non si obbliga quindi a garantire o ad assicurare la guarigione, bensì ad attuare con la dovuta diligenza un complesso di cure idonee a guarire il paziente.
Tuttavia, la giurisprudenza più recente ha sottoposto a profonda revisione critica la teoria della dicotomia obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, mettendo in discussione l’utilità di tale distinzione.
In relazione alla responsabilità sanitaria, un importante passo verso l’addio definitivo alla distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazioni di risultato è rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 8826, 13 aprile 2007.
In detta pronuncia, si è, in primo luogo, posto in rilievo come nel rapporto sanitario-paziente vi sia un affidamento del secondo affinché il professionista operi perseguendo un determinato risultato (in senso positivo, in termini di vita o di salute, per il malato): “le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi all’intervento chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato. Affidamento tanto più accentuato, in vista dell’esito positivo nel caso concreto conseguibile, quanto è maggiore la specializzazione del professionista, e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la quale l’attività medica viene dal primo espletata”[35].
Muovendo da tale presupposto i giudici di legittimità hanno rilevato come i contenuti dell’obbligazione sanitaria non possano definirsi solo tramite i parametri della diligenza/negligenza, occorrendo altresì il riferimento al risultato normalmente conseguibile. Si legge testualmente che: “in particolare la Cassazione ha ritenuto di dover porre in rilievo che una limitazione dello sforzo diligente dovuto nell’adempimento dell’obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di relativa mancanza o inesattezza, non può farsi invero discendere dalla qualificazione dell’obbligazione in termini di obbligazione di mezzi, giacché siffatto inquadramento non considera che il professionista, ed il medico specialista in particolare, è tenuto non già ad una prestazione professionale purchessia, bensì impegnato ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza, in vista del conseguimento di un determinato obiettivo dovuto, avuto riguardo al criterio di normalità secondo (…) giudizio relazionale. È infatti proprio la prestazione qualificata dal grado di conoscenza ed abilità tecnica, e la particolare organizzazione di uomini e mezzi della struttura sanitaria specializzata in cui la stessa viene espletata, ad ingenerare nel paziente l’affidamento idoneo a indurlo a sottoporsi ad un particolare tipo di interevento sulla propria persona, che lo espone in ogni caso ad un più o meno alto grado di rischio per la propria incolumità, quando non addirittura sopravvivenza”[36].
Ciò detto, i giudici di legittimità hanno, dunque, superato l’inquadramento tradizionale, ovvero quello che delimitava la prestazione sanitaria ad un’obbligazione di mezzi, senza però arrivare a collocare tale prestazione nella categoria delle obbligazioni di risultato: hanno, più semplicemente, ribadito l’addio alla distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazioni di risultato. Essi, giungono, allora, ad affermare che “per il professionista (e conseguentemente per la struttura sanitaria) non vale dunque invocare, al fine di farne conseguire la propria irresponsabilità, la distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, sostenendo che la propria attività è da ricomprendersi tra le prime, sì da non rispondere in caso di risultato non raggiunto”[37].
Le ragioni addotte dalla sentenza della Cassazione per l’addio alla distinzione tra le due categorie di obbligazioni hanno ricalcato indirizzi dottrinali e giurisprudenziali già da tempo espressisi in questa direzione. In proposito, la Corte osserva che tale distinzione è priva invero di riscontro normativo, oltre ad essere di dubbio fondamento nonché inidonea in tema di prestazione d’opera intellettuale[38].
La Corte, poi, condivide i rilievi posti dalla dottrina secondo cui, da un lato, anche nelle c.d. obbligazioni di mezzi lo sforzo diligente del debitore è in ogni caso rivolto al perseguimento del risultato dovuto; dall’altro, che nelle stesse obbligazioni qualificate di risultato in realtà non vi è una garanzia prestata in questo senso dal debitore, in quanto l’impegno da lui assunto è pur sempre di natura obbligatoria, e non si sostanzia in una vera e propria assicurazione. Tant’è che il medesimo non risponde dell’inadempimento dovuto ad impedimento sopravvenuto non prevedibile né superabile con l’ordinaria diligenza richiesta dal tipo di prestazione.
Sotto quest’ultimo profilo, si rileva altresì che neppure sono fondate le obiezioni secondo cui nelle obbligazioni di risultato non basterebbe all’obbligato per sottrarsi alla responsabilità, dimostrare di aver usato la diligenza, poiché anche nelle obbligazioni di mezzi il debitore inadempiente ha l’onere di provare l’evento impeditivo, cioè di provare l’imprevedibilità e l’insuperabilità di tale evento con l’ordinaria diligenza[39].
Dopo aver concluso per la sostanziale inutilità della distinzione, la Corte, nel passaggio successivo della sentenza, tiene a precisare che “in tema di responsabilità del medico per i danni causati al paziente l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale. L’inadempimento consegue infatti alla prestazione negligente, ovvero non improntata alla dovuta diligenza da parte del professionista (e/o struttura sanitaria) ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, adeguata alla natura dell’attività esercitata e alle circostanze concrete del caso”[40].
La Cassazione, dunque, pur aprendosi espressamente alla soluzione per cui il sanitario risponde per il risultato non raggiunto, precisa che in ogni caso il riferimento al risultato non toglie che l’inadempimento si fondi sempre e comunque sulla sussistenza di un difetto di diligenza qualificata nell’operato del sanitario[41].
Ciò precisato, occorre, a questo punto, comprendere quale sia, in questa nuova impostazione della Suprema Corte, il limite entro cui il sanitario risponde del mancato raggiungimento del risultato su cui fa affidamento il paziente.
La novità, rispetto al passato, di questa impostazione la si coglie soprattutto sul versante della ripartizione degli oneri probatori. Infatti, su questo fronte i giudici di legittimità, superata l’interpretazione precedente, hanno affermato, quale regola probatoria unitaria, il seguente principio: “provati dal paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto, se la prestazione dell’attività non consegue il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso, incombe invero al medico (a fortiori ove trattisi di intervento semplice o routinario) dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza che lo stesso ha impedito di ottenere. E laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., il medesimo rimane soccombente”[42].
Da questo passo della decisione emerge chiaramente come nel nuovo modello i concetti di adempimento, inadempimento e prova liberatoria non prescindano dai parametri della diligenza/negligenza, ma, al contempo, neppure dalla prospettiva del risultato. Infatti, “se il risultato normalmente conseguibile difetta (ossia il danneggiato allega un risultato anomalo), questa mancanza può dare luogo all’imputazione di responsabilità ex art. 1218 c.c.; contemporaneamente, tuttavia, siffatta responsabilità può affermarsi solo a condizione, e qui la centralità della regola di cui all’art. 1176 c.c. è appieno confermata, che da parte del sanitario (o della struttura) non sia stata fornita la prova liberatoria circa il suo esatto adempimento (ovvero la dimostrazione del risultato conseguibile) oppure circa la riconducibilità del mancato raggiungimento a cause imprevedibili o non governabili tramite una prestazione diligente”[43].
In definitiva, si evince una nuova prospettiva dell’obbligazione sanitaria caratterizzata per la sua unitarietà quanto alla distribuzione dell’onere probatorio (cioè non più differenziata a seconda della tipologia dell’obbligazione) e per il suo non prescindere dal profilo del risultato.
Chiaro è che il raggiungimento del risultato non rappresenta un obbligo da considerarsi ulteriore e diverso rispetto all’obbligo di adottare una condotta diligente. Infatti, è altresì evidente che non si ha una responsabilità per il mancato raggiungimento del risultato che prescinda dal parametro della diligenza.
Dunque, è possibile affermare che “di regola si ha l’esatto adempimento della prestazione, ogniqualvolta il sanitario abbia conseguito il risultato esigibile nel caso concreto, ossia abbia raggiunto l’obiettivo che poteva raggiungere, stante le condizioni del paziente, applicando correttamente la sua arte. Del tutto specularmente, l’inadempimento è la mancata realizzazione dell’obiettivo conseguibile nel caso concreto, nei limiti cioè della sua esigibilità. In altri termini, l’inadempimento si sostanzia non già nel mero difetto del risultato, bensì nella mancanza di questo necessariamente da attribuirsi ad uno scarto del modello della condotta diligente”[44].
Pertanto, diligenza e risultato, qualsivoglia sia la prestazione sanitaria, sono entrambi misure imprescindibili per apprezzare l’obbligazione in questione e, dunque, per definire e valutare l’adempimento così come l’inadempimento.
5.4 Il dovere di diligenza
Tra i doveri tipici che connotano l’obbligazione del sanitario assume rilievo centrale il dovere di diligenza. Al riguardo, occorre precisare che, trattandosi di obbligazione professionale, il modello di diligenza cui deve attenersi il sanitario sia quello della diligenza qualificata di cui al secondo comma dell’art. 1176 c.c. Così è stato specificato dalla Cassazione, secondo cui per il sanitario “trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c., parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata”[45].
Tale modello di condotta, sempre secondo l’orientamento della Cassazione, “si estrinseca nell’adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell’attività esercitata, volto all’adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell’interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi”[46]. In particolare, trattandosi di una diligenza qualificata, cioè “specifica del debitore qualificato”, questo modello di condotta “comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione sanitaria”, ossia “implica scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale”[47].
L’attività sanitaria presuppone l’indispensabile conoscenza di regole tecniche per l’esecuzione della prestazione richiesta: il concetto di normale diligenza deve essere quindi inteso come diligenza esigibile dal professionista medio, avuto riguardo alla natura e peculiarità dell’attività esercitata[48].
Nell’ambito della diligenza qualificata, secondo un’interpretazione estensiva della giurisprudenza, sono da comprendere anche la prudenza e la perizia; al riguardo è stato affermato che “l’obbligo di diligente condotta, che deve osservare il medico (…), deve necessariamente adeguarsi ai criteri di prudenza e perizia”[49]; e ancora, “nella diligenza è compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione”[50].
Il modello di diligenza da assumere a riferimento è quello della diligenza in astratto, ma ciò, come precisato dalla Cassazione, “solo per escludere che trattasi di diligentia quam in suis, e cioè la diligenza che normalmente adotta quel determinato debitore”[51]. In realtà, il grado di diligenza deve apprezzarsi con riferimento alla fattispecie concreta, ossia anche tenendo conto del personale, delle caratteristiche e delle dotazioni della struttura sanitaria in cui il professionista si trova ad operare.
A quest’ultimo riguardo, è stato affermato che “la difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello della sua specializzazione ed alle strutture tecniche a sua disposizione”[52]. Da ciò si evince che altro parametro fondamentale in materia è dato dal grado di specializzazione del sanitario: ossia la diligenza esigibile dal professionista, imputato di un danno, va necessariamente rapportata al livello della sua specializzazione.
In particolare, “in giurisprudenza è sì consolidato il principio per cui la diligenza richiesta al sanitario è quella del professionista di preparazione ed attenzione media, ma questo principio va necessariamente coordinato con la regola secondo la quale in tutta una serie di casi (prestazioni particolarmente qualificate) il modello della normale perizia va sostituito o, comunque, integrato con uno standard di condotta particolarmente qualificato”[53].
Infatti, in termini generali, se il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, il debitore dotato di specifica specializzazione deve invece attenersi a un dovere di diligenza particolarmente qualificato, a seconda del diverso grado di specializzazione del proprio settore professionale, cui corrisponde un differente grado di perizia. Tale regola è stata così sintetizzata dai giudici di legittimità: “ai diversi gradi di specializzazione corrispondono diversi gradi di perizia”[54].
Come sopra si è fatto cenno, la diligenza esigibile dal sanitario va valutata in concreto anche in considerazione delle strutture tecniche a sua disposizione. Al riguardo è stato osservato dalla Suprema Corte che “il risultato normalmente conseguibile per i migliori specialisti del settore operanti nell’ambito di una determinata struttura sanitaria ad alta specializzazione tecnico-professionale non può considerarsi tale per chi sia viceversa dotato di minore grado di abilità tecnico-scientifica, ovvero presti la propria attività presso una struttura con inferiore organizzazione o dotazione di mezzi, o in una struttura generica, o, ancora, in un mero presidio di primo intervento, con la conseguenza che anche per il migliore specialista del settore il giudizio di normalità va allora calibrato avuto riguardo alla struttura in cui è chiamato a prestare la propria opera professionale”[55].
In ogni caso, però, le eventuali carenze delle strutture non esonerano automaticamente il sanitario da responsabilità, in quanto questi “deve adottare, inoltre, tutte le misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea”[56].
Ancora, “in relazione a dette strutture tecniche va valutata la diligenza e quindi la perizia che al medico devono richiedersi, delle quali è anche espressione la scelta di effettuare in sede solo gli intereventi che possono essere ivi eseguiti, disponendo per il resto il trasferimento del paziente in altra sede , ove ciò sia tecnicamente possibile e non esponga il paziente stesso a più gravi inconvenienti”[57].
5.5 La speciale difficoltà della prestazione: i limiti operativi dell’art. 2236 c.c.
Tra i parametri funzionali alla valutazione del grado di diligenza esigibile dal professionista assume rilievo il criterio discendente dalla facilità/difficoltà della prestazione dovuta dal sanitario. Ciò trova piena conferma nell’operatività in quest’ambito del disposto di cui all’art. 2236 c.c., in base al quale qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave.
Dunque, la regola ormai pacificamente elaborata per indagare se l’adempimento dell’obbligazione da parte del sanitario sia censurabile o meno, sta nel classificare l’attività prestata tra quelle routinarie oppure tra quelle di speciale difficoltà. Cosicché solo rispetto a queste ultime opera il principio di cui all’art. 2236 e la responsabilità può essere affermata solo ove vi sia dolo o colpa grave[58].
Ciò evidenziato, buona parte della giurisprudenza ritiene che la norma in questione introduca una vera e propria limitazione di responsabilità. Tuttavia, “occorre sottolineare come questa limitazione di responsabilità sia nella pratica alquanto circoscritta quanto alla sua reale operatività. Anzi, negli ultimi trent’anni, contestualmente all’evoluzione della scienza medica, si è assistito al progressivo azzeramento dell’applicazione dell’art. 2236 c.c.”[59].
Inoltre, bisogna ricordare come la giurisprudenza abbia pure circoscritto l’operatività di questa norma al solo caso dell’imperizia. È stato, infatti, affermato che “la limitazione di responsabilità professionale del medico-chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione dei problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. Infatti, anche nei casi di speciale difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza e imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso”[60].
Pertanto, pure nei casi di particolare difficoltà, il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione provochi un danno nell’esecuzione di un intervento o di una terapia.
A questo punto, occorre chiarire quali siano le prestazioni tali da essere inquadrate come casi implicanti la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà e tali da far scattare la limitazione di cui all’art. 2236 c.c. È orientamento costante in giurisprudenza che “la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media, ovvero perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare”[61].
Dunque, l’operatività della norma, peraltro limitata all’imperizia, viene collegata al caso straordinario o eccezionale, non studiato adeguatamente dalla scienza medica e sperimentato nella pratica, o rispetto al quale siano ancora dibattuti diversi ed incompatibili sistemi diagnostici e terapeutici[62].
5.6 La ripartizione dell’onere della prova: il superamento delle distinzioni tradizionali
Come si è già anticipato trattando dell’addio alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, tra le innovazioni più rilevanti dell’attuale modello della responsabilità civile sanitaria si colloca l’approdo della giurisprudenza a nuove regole in materia di distribuzione degli oneri probatori.
Un primo dato che va rilevato è che nel nuovo modello la distribuzione degli oneri probatori non soggiace più alle due distinzioni tradizionali, ovvero prestazioni di facile esecuzione/prestazioni di particolare difficoltà e obbligazioni di mezzi/obbligazioni di risultato.
In particolare, sotto il primo profilo, la giurisprudenza più recente ha definitivamente superato l’orientamento che, al fine di stabilire la ripartizione degli oneri probatori, distingueva nettamente tra casi riconducibili a interventi di facile o routinaria esecuzione, da un lato, e casi inquadrabili come operazioni di difficile esecuzione, dall’altro. Al riguardo, infatti, tale orientamento aveva adottato il seguente paradigma: “incombe al professionista, che invoca il più ristretto grado di colpa di cui all’art. 2236 c.c., provare che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, mentre incombe al paziente danneggiato provare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee. Invece, incombe al paziente l’onere di provare che l’intervento era di facile e routinaria esecuzione ed in tal caso il professionista ha l’onere di provare, al fine di andare esente da responsabilità, che l’insuccesso dell’intervento non è dipeso dal difetto di propria diligenza” [63].
Dunque, secondo questo orientamento interpretativo, se l’intervento da cui è derivato il danno è di routine o di facile esecuzione, la dimostrazione da parte del paziente del danno patito è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine alla inadeguata o negligente prestazione, mentre il sanitario deve fornire la prova della sua diligenza e dell’evento imprevisto o imprevedibile quale causa dell’esito peggiorativo o deludente dell’intervento[64].
In tal caso, infatti, si ritiene che operi la c.d. presunzione di colpa, per cui ai fini della prova sarà sufficiente per il paziente dimostrare la facilità dell’intervento, non essendo tenuto a provare anche la colpa del sanitario.
Sempre secondo l’orientamento in esame, qualora, invece, l’intervento implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ai sensi dell’art. 2236 c.c., se al sanitario incombe l’onere di provare che l’intervento era complesso, o di difficile esecuzione, il paziente dovrebbe, a sua volta, provare con precisione le modalità di esecuzione dell’intervento ritenute inidonee. In altri termini, il paziente risulta gravato dell’obbligo di dimostrare la colpa professionale del sanitario[65].
Ebbene, questo orientamento è stato superato dalla giurisprudenza più recente, la quale ha precisato a chiare lettere che “la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado della diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario (…). Appare in effetti incoerente ed incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di intervento di facile esecuzione o routinario, e addossare viceversa al paziente l’onere di provare in modo preciso e specifico, le modalità ritenute non idonee quando l’intervento è di particolare o speciale difficoltà (…), cioè quando esso richiede notevole abilità e la soluzione di problemi tecnici nuovi o di notevole complessità, con possibile ed elevato margine di rischio in presenza di ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate (…). Tale onere sarebbe eccessivamente gravoso per il paziente ed in contrasto con il principio di generale favor per il creditore-danneggiato cui l’ordinamento è informato”[66].
Per quanto riguarda l’altra tradizionale distinzione, ovvero quella fra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, si è già avuto modo di vedere come sempre la Cassazione abbia definitivamente privato tale distinzione di qualsivoglia effetto sul piano della distribuzione degli oneri probatori e della prova liberatoria. Pare utile ricordare che, sotto tale profilo, la distinzione veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile[67].
Ebbene, la Suprema Corte ha superato l’impostazione tradizionale, accogliendo, invece, la tesi per cui, quanto al “meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale, la distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato non ha alcuna incidenza sul regime di responsabilità”, occorrendo, dunque, dare luogo ad “un’applicazione unitaria dei principi generali in materia di onere della prova (…) indipendentemente dalla natura dell’obbligazione (se di mezzi o di risultato), con la conseguenza che “per il professionista non vale dunque invocare, al fine di farne conseguire la propria irresponsabilità, la distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, sostenendo che la propria attività è da ricomprendersi tra le prime, sì da non rispondere in caso di risultato non raggiunto”[68].
5.6.1 Segue: le nuove regole
Archiviati i precedenti modelli e conformemente alla rivisitazione del regime della responsabilità contrattuale sul piano generale (v. Cassazione civile, sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533), la Suprema Corte è approdata a nuove regole in materia di distribuzione degli oneri probatori nelle cause di responsabilità professionale dei sanitari.
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno affermato che: “inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onore della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento. Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio, condiviso da questo Collegio, secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato sostenuto con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento. Applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico deve affermarsi che il paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Più precisamente, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”[69].
Il caso trattato dalla Suprema Corte nella suddetta sentenza era relativo ad un paziente che aveva citato in giudizio la struttura sanitaria nella quale era stato ricoverato e sottoposto ad emotrasfusione, affermando di aver contratto l’epatite C a seguito della somministrazione di sangue infetto; la struttura sanitaria si era opposta alla richiesta di risarcimento sostenendo che in realtà il paziente era già affetto da tale patologia prima ancora di ricevere la trasfusione, pur senza riuscire a documentarla mediante idonei esami di laboratorio. Il Tribunale di primo grado e la Corte d’Appello avevano respinto la domanda del paziente, sia sulla base dell’assenza del nesso causale, sia, soprattutto, del fatto che il paziente non aveva dimostrato l’assenza della patologia nel periodo precedente alla trasfusione. La Cassazione ha annullato tali sentenze e, applicando i principi di cui si è detto sopra, ha stabilito che, nella fattispecie, il paziente aveva l’obbligo di provare l’esistenza del contratto (cioè di essere stato ricoverato nella struttura) e del danno (epatite), mentre non doveva dimostrare, ma limitarsi ad evidenziare, quale fosse l’inadempimento sanitario ritenuto causativo del danno (identificato, nel caso concreto, con la trasfusione di sangue infetto). Spettava, invece, alla struttura sanitaria provare che l’inadempimento non c’era stato (cioè che non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto), oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era stato nella fattispecie causa del danno, in quanto dipendente da altre cause (cioè che il paziente aveva già precedentemente contratto l’epatite C).
Ancora, in altre sentenze significative si legge testualmente: “in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, sussistendo un rapporto contrattuale (quand’anche fondato sul solo contatto sociale), in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c. il paziente ha l’onere di allegare l’inesattezza dell’adempimento, non la colpa né, tanto meno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all’art. 2236 c.c.) essere allegate e provate dal medico”[70]; “in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c. il paziente-creditore ha il mero onere di allegare il contratto e il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità”[71].
È, dunque, consolidato principio che il paziente danneggiato che agisce in giudizio debba provare l’esistenza di un contratto (o contatto sociale) e di aver subito un danno, e semplicemente allegare la condotta inadempiente del professionista, non essendo, invece, tenuto a provare la colpa del sanitario (o della struttura) e la relativa gravità[72].
Va peraltro sottolineato che accanto a questi profili, il paziente debba altresì preoccuparsi della prova del nesso causale tra la condotta inadempiente del professionista e il danno, deve cioè provare che il peggioramento delle proprie condizioni di salute è una conseguenza diretta dell’operato del sanitario. Tuttavia, tale onere risulta notevolmente agevolato, in quanto, si ritiene, in base ad un’interpretazione ormai consolidata in giurisprudenza, che esso si arresti alla dimostrazione dell’astratta idoneità della condotta imputata ai sanitari (ossia dell’inadempimento allegato) a cagionare l’evento di danno. In altri termini, si ritiene che, ogniqualvolta il sanitario abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno, il nesso causale si presume[73].
Fornite dal paziente le prove e formulate le allegazioni sopra illustrate, spetta poi al convenuto in giudizio (sanitario o struttura) smantellare il quadro delineato dal danneggiato. Infatti, quanto alla prova liberatoria, la giurisprudenza è costante nel ritenere che, in caso di insuccesso del trattamento sanitario, spetti al professionista (o alla struttura) dimostrare di aver adempiuto correttamente (cioè in modo conforme alle regole dell’arte in quel dato momento), e che l’esito negativo non è dipeso da propria colpa, ma si è verificato a causa di eventi imprevisti e imprevedibili, a lui non imputabili[74].
5.7 Il nesso di causa
Sul nesso di causa si è già riferito a proposito della responsabilità penale. Tuttavia, alla luce della giurisprudenza ultima, non si può prescindere da un’analisi separata della causalità sul versante della responsabilità civile[75].
Al riguardo, la Suprema Corte civile ha chiarito che “il modello di causalità sì come disegnato dalle sezioni unite penali mal si attaglia a fungere da criterio valido anche in sede di accertamento della responsabilità civile, e cioè le esigenze de-costruttive e ri-costruttive dell’istituto del nesso di causa sottese al sottosistema penalistico non sono in alcun modo riprodotte (né riproducibili) nella diversa e più ampia dimensione dell’illecito aquiliano”[76].
In particolare, è stato evidenziato come causalità penale e causalità civile si distinguano sotto i seguenti profili: “1) anzitutto è diversa la funzione cui il requisito del nesso eziologico attende in ambito penale rispetto a quello civile (ove si valuta la riconducibilità causale del danno da risarcire alla responsabilità del debitore); 2) nell’illecito penale le regole causali si ispirano ad una logica ‘antropomorfica’, ovvero strettamente legata all’azione/omissione dell’agente e alla valutazione della stessa, mentre in ambito civile le regole sono strutturate in modo da potersi adattare anche all’attività impersonale della persona giuridica; 3) inoltre, i principi di legalità e colpevolezza impediscono in sede penale l’attribuzione a un soggetto di eventi troppo lontani dalla sua sfera di azione e responsabilità, mentre nella prospettiva civilistica, incentrata sul risarcimento del danno, si privilegia la posizione del soggetto danneggiato; 4) infine, il nesso di causalità costituisce solo uno dei criteri di imputazione dell’illecito civile, mentre in sede penale è un elemento costitutivo essenziale del reato”[77].
Alle suddette osservazioni, si può peraltro aggiungere coma la causalità civile si muova su piani nettamente diversi dall’ambito penalistico anche con riguardo alla prova del nesso di causa: nella responsabilità civile sanitaria, oggi interamente disciplinata dall’art. 1218 c.c., “l’accertamento del rapporto causale soggiace a meccanismi probatori non rinvenibili in alcun modo nell’ambito della responsabilità penale con la conseguenza che, in seno ai giudizi civili, un evento dannoso può essere imputato anche quando il rapporto causale sia, in via presuntiva, solo presumibile/verosimile e non sia stata fornita alcuna controprova dal soggetto convenuto circa fattori interruttivi della sequenza causale presunta tra la sua condotta ed il danno occorso alla vittima (…). Da ciò si può dedurre come in tutta evidenza, se in seno alla causalità civile possono ben operare meccanismi presuntivi, nella tutela risarcitoria della persona la sussistenza del nesso causale non necessita di essere dimostrata, come invece in sede penale, ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ (v. Cassazione penale, sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese)”[78].
Proprio questo aspetto è stato ulteriormente evidenziato dalle Sezioni unite civili, le quali hanno ritenuto di specificare che “ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, mentre nel secondo vige la regola dell’evidenza o del più probabile che non, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (…)”[79].
Occorre comunque sottolineare come queste divergenze non significano che tra causalità civile e causalità penale non vi possano essere significativi punti di contatto. Innanzitutto, la Cassazione civile ha rilevato che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., specificando solo che l’applicazione di tali principi “va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative della responsabilità civile”[80]. Inoltre, anche la giurisprudenza civile privilegia nell’indagine causale il criterio probabilistico e, in particolare, mostra di condividere l’idea, elaborata dalle Sezioni unite penali con la nota sentenza Franzese, della probabilità logica (ovvero non strettamente dipendente da coefficienti di probabilità scientifico-statistici e, innanzitutto, imperniata sul ragionamento probatorio).
Al riguardo, l’orientamento della giurisprudenza civile è chiaramente espresso in una sentenza della Suprema Corte, in cui, in primo luogo, si sottolinea l’adesione alla regola juris per cui ai fini dell’accertamento del nesso di causa non è necessario un grado di certezza assoluta: “nella responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l’evento dannoso, quello della probabilità degli effetti e dell’idoneità della condotta a produrli, e il rapporto di causalità sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e prontamente svolta avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili probabilità di successo”[81].
Sul punto la Cassazione ha, inoltre, aggiunto che “il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che l’adempimento dell’obbligazione, ove correttamente e tempestivamente intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell’interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente d’assoluta certezza ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di verificarsi, certezze di sorta, nemmeno di segno morale, ma solo semplici probabilità d’un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa”[82].
Operate queste premesse, la sentenza in esame, recependo le indicazioni delle Sezioni unite penali circa il criterio della probabilità logica, ha poi affermato i seguenti principi:
1) dinanzi alle eventuali incertezze della medicina legale e della scienza medica in punto causalità la sussistenza del nesso di causa non può automaticamente escludersi, laddove una seria e ragionevole applicazione del criterio probabilistico conduca a ritenere comunque ravvisabile il rapporto eziologico, specialmente mancando la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti;
2) il giudizio, positivo o negativo, sulla sussistenza del nesso di causa non può reggersi, in via automatica, sui coefficienti di probabilità eventualmente espressi dalle leggi scientifiche o statistiche, me deve costituire l’esito di un ragionamento probatorio che, attuando altresì une verifica controfattuale, conduca a ritenere od escludere, sostanzialmente in termini di verità processuale, che la condotta del medico sia stata, secondo il criterio della probabilità logica, condizione necessaria dell’evento dannoso[83].
Dunque, per questa via, la Cassazione civile si è posta nella stessa direzione della sentenza Franzese, recependo pienamente il modello della probabilità logica.
Al contempo, però, proprio in relazione alla concezione del criterio della probabilità logica, si sono venuti a manifestare, nella stessa giurisprudenza di legittimità, già tutti i segni della divergenza della causalità civile dal modello penalistico. Infatti, mentre nel caso Franzese si è posto, quale criterio guida, il parametro dell’‘alta o elevata credibilità razionale’ (formulazione strettamente connessa al principio penalistico dell’assoluzione a fronte di un ‘ragionevole dubbio’ circa la sussistenza del nesso causale, per cui, nello specifico, “l’insufficiente, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio”[84]), viceversa la citata sentenza della Cassazione civile, ponendo l’accento sulla probabilità e sull’idoneità della condotta alla produzione del danno, ha di fatto coniato uno standard parzialmente diverso, quello della ‘ragionevole probabilità’ del nesso causale[85].
Questa conclusione trova la sua giustificazione nel fatto che un’applicazione rigorosa del criterio dell’alta probabilità logica renderebbe “più difficoltosa la posizione del danneggiato nelle fattispecie dove un danneggiante forte si contrappone a un danneggiato debole, con maggiori difficoltà nel riuscire a dimostrare con quasi certezza la sussistenza del nesso causale. Il che può derivare non solo dalla disparità di mezzi economici ma anche da diverse condizioni di partenza, specie se il danneggiante (come nella responsabilità sanitaria) è in possesso di conoscenze e informazioni che il danneggiato non possiede o può difficilmente reperire”[86].
Sulla base di questi presupposti, la Cassazione ha negato il principio della coincidenza tra causalità penale e causalità civile, evidenziando come quest’ultima “si attesta sul versante della probabilità relativa (o variabile), caratterizzata dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale”. Proseguendo nel suo ragionamento, la stessa Corte osserva come tale criterio probabilistico, specie in sede di perizia medico-legale, possa assumere molteplici forme espressive (serie ed apprezzabili possibilità, ragionevole probabilità, ecc.), “senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale e senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte del giuridicamente rilevante in un dato momento storico e con riferimento al singolo, specifico caso concreto, che ben può prescindere, a fronte dell’altrettanto specifica evidenza probatoria, dalle leggi e dalle risultanze di tipo statistico”. A seguito di tali considerazioni, i giudici di legittimità hanno concluso che “la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del più probabile che non”[87].
Successivamente, sono intervenute le Sezioni unite civili che hanno confermato l’adesione alla logica del più probabile che non, peraltro chiarendo il significato esatto della nuova formula: “il giudice, nel decidere se vi siano probabilità sufficienti per una condanna risarcitoria, deve domandarsi, soppesando le varie prove, verso quale soluzione propenda la bilancia (…). E a pesare sui piatti della bilancia sono appunto le evidenze processuali, non già le mere indicazioni percentuali tratte dalle consulenze tecniche”[88].
In sostanza, il giudice, nel bilanciamento tra le opposte ipotesi sull’esistenza del nesso causale dovrà propendere per quella che riceve il supporto relativamente maggiore sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili.
Ma cosa vuol dire più probabile che non? Le Sezioni unite non lo dicono chiaramente, ma l’interpretazione più rispondente al dato letterale sembra essere quella che individua nel criterio suddetto una semplice necessità di una probabilità maggiore del 50%[89].
5.8 I danni risarcibili. Il danno patrimoniale
Nell’ambito della responsabilità sanitaria, i danni risarcibili al danneggiato, sono sostanzialmente di due tipi: i danni patrimoniali e i danni non patrimoniali.
Il danno patrimoniale consiste nel pregiudizio direttamente arrecato dal fatto illecito al patrimonio del danneggiato, inteso in senso strettamente economico. Esso è risarcito secondo i criteri stabiliti dall’art. 1223 c.c. e comprende sia il danno emergente che il lucro cessante. Il primo “consiste in una diminuzione del patrimonio”; il secondo, invece, “consiste nell’esclusione di un incremento patrimoniale che si sarebbe verificato in mancanza del fatto dannoso”[90].
Nell’ambito della responsabilità sanitaria, e quindi in riferimento ai danni alla persona, il danno emergente è rinvenibile tutte le volte in cui il paziente è costretto ad affrontare spese mediche e degenze ospedaliere per riparare ai danni subiti in conseguenza dell’errato intervento sanitario fonte di pregiudizio. Inoltre, si può riconoscere un’ipotesi di danno emergente anche in relazione alle spese sostenute dal danneggiato per il vitto e l’alloggio in caso di necessità di trasferimenti, per il riadattamento dell’abitazione o dell’autovettura e per l’assistenza domiciliare in caso di gravi menomazioni, ecc.
Il lucro cessante o mancato guadagno, invece, corrisponde alle nuove utilità che il danneggiato avrebbe presumibilmente conseguito se non si fosse verificato il fatto illecito o l’inadempimento; sicché in tale tipologia di danno si fa rientrare la diminuzione o la cessazione del reddito di lavoro (dipendente o autonomo), dovuta alla perdita (temporanea o permanente) della capacità lavorativa del soggetto per effetto della lesione subita[91].
In particolare, “in caso di invalidità temporanea, che può essere totale o parziale a seconda del grado di incapacità di produrre reddito, il danno è rappresentato dal mancato guadagno durante il periodo di malattia procurata dalla lesione che ha impedito alla persona lesa di attendere alla sua attività lavorativa. Nel caso di postumi permanenti, invece, il danno consiste nella perdita di reddito presunta a causa delle menomazioni irreversibili: in altri termini vengono valutati i postumi permanenti in relazione alla loro incidenza sulla futura capacità di produzione del reddito della persona lesa; viene così individuata una percentuale di incidenza sulla capacità lavorativa pregressa rappresentata dalla specifica lesione alla salute subita”[92].
5.8.1 Il danno non patrimoniale: il danno morale
Il danno non patrimoniale è una categoria individuata dall’art. 2059 c.c., di cui è possibile il risarcimento solo nei casi ammessi dalla legge. Si tratta, in primo luogo, delle ipotesi in cui il danno deriva da un reato.
Tradizionalmente, nell’ambito del danno non patrimoniale si colloca il c.d. danno morale che si identifica con il dolore, i patemi d’animo, le sofferenze spirituali subite dalla vittima, le quali, però, non si traducono in un vero e proprio pregiudizio all’integrità psicofisica del soggetto (atteso che in tale ultimo caso rientrerebbero nel danno biologico, come si vedrà oltre).
A tal proposito, in giurisprudenza è stato affermato che “il danno morale, tradizionalmente definito come pretium doloris, viene generalmente ravvisato nell’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato o anche nel patema d’animo o stato d’angoscia transuente generato dall’illecito”[93].
Anche in dottrina la soluzione più accreditata è quella che restringe “la nozione di danno morale alle sole sofferenze di carattere psichico: vale a dire quelle che si sostanziano nell’ansia, nella preoccupazione, nel turbamento psicologico (…)”; “quanto all’individuazione dei confini dell’area morale del danno, la soluzione più convincente appare senz’altro quella volta a far confluire in tale ambito i dolori di carattere spirituale che scaturiscono dalla lesione, a prescindere dal fatto che quest’ultima tocchi o meno l’integrità psicofisica del soggetto”[94].
5.8.2 Segue: il danno biologico
Secondo un’interpretazione che è andata via via consolidandosi in dottrina e in giurisprudenza, all’interno della categoria di danno non patrimoniale trovano sistemazione altre voci di danno, tra cui, in primo luogo, il danno biologico (o danno alla salute), formula con la quale si designa l’ipotesi della lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito (art. 32), all’integrità psichica e fisica della persona[95].
Il risarcimento di tale tipo di danno è stato a lungo collegato ad una logica strettamente patrimonialistica, per cui i pregiudizi alla persona potevano trovare ristoro solo nel caso in cui incidessero sul suo patrimonio, e quindi il risarcimento era limitato alle spese sostenute ed alla diminuzione dei redditi. Dunque, nessun rilievo veniva attribuito alla integrità psicofisica in sé stessa[96].
Intorno alla metà degli anni ’70 dello scorso secolo si è, tuttavia, “concretizzata quella esigenza di dare risalto al diritto alla salute, considerando inaccettabile che la lesione di tale diritto per essere considerata risarcibile, deve patrimonializzarsi nelle voci di danno emergente e lucro cessante”[97].
La necessità di superare queste limitazioni e di garantire un risarcimento integrale del danno alla persona, che comprendesse ulteriori aspetti della vita di un individuo, non solo quelli economici, ha determinato la nascita di un nuovo tipo di danno, definitivamente consacrato con la storica sentenza n. 184, 14 luglio 1986, della Corte Costituzionale. In particolare, con detta pronuncia, la Consulta riconosce l’esistenza del danno biologico e la sua risarcibilità, ricollegandola al combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 32 Cost. Si legge testualmente: “la vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli della Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell’illecito. L’art. 2043 c.c., correlato all’art. 32 Cost., va necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma (esclusi i danni morali) tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana. Ed è questo il profondo significato innovativo della richiesta di autonomo risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: tale richiesta contiene un implicito, ma ineludibile, invito ad una particolare attenzione della norma primaria, la cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043 c.c., al contenuto dell’iniuria di cui allo stesso articolo, ed alla compensazione (non più limitata, quindi, alla garanzia di soli beni patrimoniali) del risarcimento della lesione di beni e valori personali”[98].
Dunque, la sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito definitivamente che il danno alla persona deve individuarsi non più soltanto nelle conseguenze economiche o afflittive della lesione personale ma, piuttosto, nella lesione in sé e per sé considerata.
Secondo una definizione riportata di frequente nella giurisprudenza, il danno biologico o danno alla salute “consiste nella menomazione arrecata all’integrità fisico-psichica della persona in sé e per sé considerata, incidente sul valore umano in ogni sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somme delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche spirituale, sociale, culturale ed estetica”[99].
Il danno biologico, dunque, “può essere definito come qualsiasi alterazione, in rapporto causale con il fatto dannoso, di natura temporanea o di natura permanente, dello stato di salute fisica e/o psichica della persona che le impedisce di godere della vita nella stessa misura in cui ne godeva prima dell’evento, indipendentemente da qualsiasi riferimento alla capacità produttiva del soggetto e alla pecunia doloris (…). La tutela della salute non può essere intesa in senso esclusivamente biologico ma va considerata come bene strumentale necessario alla protezione ed allo sviluppo della personalità dell’individuo”[100].
In definitiva, i possibili contenuti del danno biologico possono essere così sintetizzati:
– modifica dell’aspetto esteriore, ossia dei caratteri morfologici della persona;
– riduzione dell’efficienza psicofisica, ossia ridotta possibilità di utilizzare il proprio corpo;
– riduzione della capacità sociale, ossia dell’attitudine della persona ad affermarsi nel consorzio umano mediante la sua vita di relazione con gli altri;
– riduzione della capacità lavorativa generica, ossia dell’attitudine dell’uomo al lavoro in generale;
– perdita di chances lavorative o lesione del diritto alla libertà di scelta del lavoro;
– maggior fatica nell’espletamento del proprio lavoro, senza perdita di guadagno;
– usura delle forze lavorative di riserva, quando non renda necessario il prepensionamento[101].
5.8.3 Segue: il danno esistenziale
Per questa ampia prospettazione del danno alla persona, non riconducibile ad un danno inteso sotto il profilo soltanto patologico, come si è visto poc’anzi, c’è chi ha teorizzato una nuova categoria di danno, il c.d. danno esistenziale, aperto a “tutte le potenzialità espressive dell’individuo, sia personali che sociali, le c.d. attività realizzatrici della persona, non riconducibili né al danno economico né al patema d’animo, alle quali fa riferimento l’art. 2 della Costituzione (diritti fondamentali della persona umana)”[102].
In altri termini, “il danno esistenziale appare lesivo delle espressioni fondamentali della personalità umana e pregiudica l’individuo nella piena manifestazione e realizzazione di se stesso in tutti gli aspetti della sua esistenza, senza tuttavia tradursi in una lesione del bene salute”[103].
Per individuare la natura del danno esistenziale andranno considerati i settori in cui si esplica la personalità, che di massima riguardano: le attività biologiche-sussistenziali; le relazioni affettivo-familiari; le attività di carattere culturale e religioso; gli svaghi e i divertimenti.
Al riguardo, si riporta una sentenza di merito che, a proposito della nascita di una bambina con gravi malformazioni non diagnosticate dall’ecografista che aveva seguito la gestazione, ha riconosciuto alla madre il risarcimento del danno esistenziale derivatole dalla nascita della figlia malformata, così motivandone i presupposti: “ulteriore e diversa figura di danno è, poi, quello esistenziale. Esso consiste nel danno che l’individuo subisce alle attività realizzatrici della propria persona, risarcibile ex art. 2043 c.c., e va distinto dal danno biologico in virtù della matrice medico legale di quest’ultimo. Tale figura di danno comprende cioè tutte quelle lesioni che, non riconducibili a danni patrimoniali o biologici in senso stretto, insistono su interessi giuridicamente protetti e meritevoli di tutela all’interno del nostro ordinamento. All’interno del danno esistenziale possono comunque distinguersi il danno esistenziale puro e il danno biologico-esistenziale: anche nella sfera esistenziale, infatti, possono essere presenti componenti biologiche. Ciò accadrà quando la limitazione all’attività realizzatrice della propria persona sia non l’immediata conseguenza dell’illecito (ho subito l’illecito, quindi non posso fare più – danno esistenziale puro), ma la conseguenza mediata dall’aspetto biologico (sto male) conseguente l’illecito (sto male a causa dell’illecito subito e quindi non posso fare più), in una visione cioè dinamica. Le possibili voci riconducibili a simili categorie sono decisamente ampie, e si concentrano nella lesione della sfera esistenziale, senza interessare aspetti medico legali, pur se talune figure possono presentare una duplice valenza, o come visto, essere legate per via mediata al danno biologico (gli illeciti risarcibili sotto la categoria del danno esistenziale, pertanto sono riconducibili a manifestazioni di mobbing, trasmissione di malattie, discriminazioni razziali, sessuali o religiose, uccisione di animali significativi per l’individuo, abusi sessuali, violazione del diritto alla riservatezza, costrizione alla prostituzione, ecc).
In tali illeciti, infatti, oltre alle tradizionali voci di danno già riconosciute e rinvenibili caso per caso, possono facilmente individuarsi tipologie di lesioni più correttamente riferibili alla sfera esistenziale. Al danno esistenziale vanno poi ricondotte altre figure di danno già riconosciute dalla giurisprudenza: tra queste si evidenziano il danno alla vita di relazione, il danno alla serenità familiare, il danno alla serenità sessuale, con esclusione degli aspetti medico legali afferenti al danno biologico. Esse infatti non possono essere ricondotte alla figura del danno patrimoniale, posto che la loro natura appare evidentemente diversa, pur essendo suscettibili di una valutazione patrimoniale. Né possono essere ricondotte al danno morale in senso stretto (risarcibile ex art. 2059 c.c.), o al danno biologico (interessante aspetti medico legali, anche se, con riferimento a quest’ultima figura, si è detto, potranno esservi interferenze). A simili argomentazioni, come anticipato, si deve quindi far ricorso per l’inquadramento dogmatico del danno alla vita di relazione: esso è un danno inerente le limitazioni alla possibilità di interagire con l’esterno, sia esso inteso come occasioni di rapporti umani (es. frequentazione di amici e parenti), sia come rapporto con la realtà esterna (es. recarsi in determinati luoghi), sia come limitazione allo svolgimento di attività (es. sport, attività culturali). In questi termini esso potrà o costituire una lesione della sfera attinente le attività realizzatrici della persona (considerando la limitazione quantitativa e qualitativa subita nelle possibilità di interagire con l’esterno) e quindi afferente al danno esistenziale, o, invece, minare l’integrità psico-fisica della persona (qualora comporti una vera e propria patologia), e in tal senso si dovrà parlare di danno biologico”[104].
[1] BILANCETTI M., La responsabilità penale e civile del medico, Cedam, Padova, 2001, p. 703 : “Il giudizio di responsabilità civile ha lo scopo di trasferire il costo di un danno, dal soggetto che lo ha ingiustamente subito al soggetto che ne viene dichiarato responsabile”.
[2] BILANCETTI M., op. cit., 2001; TRIMARCHI P., Istituzioni di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2005.
[3] BILANCETTI M., op. cit., 2001; TRIMARCHI P., op. cit., 2005.
[4] In tal senso vi è perfetta concordia tra la dottrina e la giurisprudenza: DE MATTEIS R., La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Cedam, Padova, 1995; GUERINONI E., I contratti del consumatore, Giappichelli, Torino, 2011; Cassazione civile, sez. III, 1 marzo 1998, n. 2144, in Il Foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1999; Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 1999.
[5] VISINTINI G., Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1996, p. 236. Cfr. anche PRINCIGALLI A., La responsabilità del medico, Jovene, Napoli, 1983; MONATERI P.G., Responsabilità extracontrattuale e fattispecie, in Rivista di diritto civile, Cedam, Padova, 1994; CAFAGGI F., voce Responsabilità del professionista, in Digesto delle discipline privatistiche, Utet, Torino, 1998.
[6] Cassazione civile, sez. III, 24 marzo, 1979, n. 1716, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1980.
[7] Cassazione civile, sez. III, 24 marzo, 1979, n. 1716, op. cit., 1980. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 26 marzo 1990, n. 2428, in Giurisprudenza Italiana, Utet, Torino, 1991.
[8] Cassazione civile, sez. III, 1 marzo 1988, n. 2144, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 1989. In dottrina CASTRONOVO C., Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno. Responsabilità civile e tutela dei diritti, vol. V, Giuffrè, Milano, 1998.
[9]DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., La responsabilità medica, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2011. In giurisprudenza v. Cassazione civile, sez. III, 11 aprile 1995, n. 4152, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1996; Cassazione civile, sez. III, 27 maggio 1993, n. 5939, Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 1994.
[10] Cassazione civile, sez. III, 2 dicembre 1998, n. 12233, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 1999. In questo senso cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 7 ottobre 1998, n. 9911, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1998; Cassazione civile, sez. III, 1 dicembre 1998, n. 12195, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 1999.
[11] FRESA R., La colpa professionale in ambito sanitario, Utet, Torino, 2008, p. 415.
[12] FRESA R., op. cit., 2008, p. 415. In dottrina, sulla figura del contratto con effetti protettivi per il terzo, cfr. MAGGIOLO M., Effetti contrattuali a protezione del terzo, in Rivista di diritto civile, Cedam, Padova, 2001; DI MAJO A., La protezione del terzo tra contratto e torto, in Europa e diritto privato, a cura di CASTRONOVO C., Giuffrè, Milano, 2000.
[13] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[14] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999. In dottrina cfr. ALPA G., La responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 1999; CARBONE V., La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 1999; GUERINONI E., Obbligazione da contatto sociale e responsabilità contrattuale nei confronti del terzo, in I contratti, Ipsoa, Milano, 1999; GIACALONE G., La responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale: contrattuale, extracontrattuale o transtipica?, in Giustizia civile, Giuffrè, Milano, 1999; PECCENINI F., Dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, in La responsabilità sanitaria, a cura di PECCENINI F., Zanichelli, Bologna, 2007; IZZO U., Il tramonto di un sottosistema della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2005.
[15] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999. Cfr. anche BILANCETTI M., op. cit., 2001; DI MAJO A., La responsabilità contrattuale, Giappichelli, Torino, 2003; CASTRONOVO C., op. cit., 1998; CASTRONOVO C., La responsabilità civile in Italia al passaggio del millennio, in Europa e diritto, Giuffrè, Milano, 2003; GUERINONI E., op. cit., 2011; MONATERI P.G., La responsabilità civile, Utet, Torino, 1998.
[16] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011. Sul contratto di fatto v. SACCO R. – DE NOVA G., Il contratto, in Trattato di diritto civile, a cura di SACCO R., Utet, Torino, 2004.
[17] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[18] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[19] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011.
[20] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[21] Cfr. Cassazione civile, sez. III, 24 maggio 2006, n. 12362, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2006; Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffrè, Milano, 2007; Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2008.
[22] Cfr. DE MATTEIS R., op. cit., 1995; BAGGIO S., La responsabilità della struttura sanitaria, Giuffrè, Milano, 2008; FINI G., La responsabilità delle strutture sanitarie pubbliche e private, in La responsabilità sanitaria, a cura di PECCENINI F., Zanichelli, Bologna, 2007; SIMONE R., La responsabilità della struttura sanitaria pubblica e privata, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2003; NOCCO L., La responsabilità delle e nelle strutture sanitarie, in La responsabilità sanitaria, a cura di COMANDE’ G. – TURCHETTI G., Cedam, Padova, 2004.
[23] Cassazione civile, sez. III, 21 dicembre 1978, n. 6141, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1979.
[24] Cassazione civile, sez. III, 8 maggio 2001, n. 6386, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2001. In dottrina cfr. VISINTINI G., op. cit., 1996; ALPA G., op. cit., 1999.
[25] Cfr. IADECOLA G. – BONA M., La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Giuffrè, Milano, 2009; IUDICA G., Danno alla persona per inefficienza della struttura sanitaria, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffrè, Milano, 2001; DE MATTEIS R., op. cit., 1995; STANZIONE P. – ZAMBRANO V., Attività sanitaria e responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 1997.
[26] Tribunale di Monza, 7 giugno 1995, in DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011.
[27] Tribunale di Roma, 6 giugno 2005, in DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011.
[28] IUDICA G., op. cit., 2001, p. 3. Cfr. anche PARTISANI R., Il contratto atipico di spedalità e cura: nuove regole di responsabilità, in La responsabilità civile, Utet, Torino, 2007; BREDA R., Ancora sulla responsabilità della struttura per inadeguata organizzazione del servizio, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2006.
[29] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009. In particolare, sulle infezioni nosocomiali v. RONCHI M., La responsabilità civile della struttura e del medico per le infezioni nosocomiali, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffré, Milano, 2007.
[30] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, in op. cit., 2007. Cfr. anche Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2008.
[31] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009, p. 315.
[32] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009, p. 315.
[33] In argomento cfr. GALGANO F., Le obbligazioni in generale, Cedam, Padova, 2007; ZAMBRANO V., Interesse del paziente e responsabilità medica, in Professioni e responsabilità civile, a cura di STANZIONE P. – SICA M., Zanichelli, Bologna, 2006; MARTINI F. – MAZZUCCHELLI A. – RODOLFI M. – VIVORI E., La responsabilità civile del professionista, Utet, Torino, 2007; DE MATTEIS R., op. cit., 1995; DE MATTEIS R., La malpractice medica, in Il danno alla persona, a cura di CENDON P. – BALDASSARRI A., Zanichelli, Bologna, 2006.
[34] Cassazione civile, sez. III, 18 giugno 1975, n. 2439, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1976; nello stesso senso Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999; Cassazione civile, sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1995.
[35] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[36] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[37] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[38] Cfr. anche il precedente reso da Cassazione civile, sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781, in Responsabilità civile, Utet, Torino, 2006.
[39] FRESA R., op. cit., 2008.
[40] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[41] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009.
[42] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[43] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009, p. 322.
[44] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009, p. 324. Cfr. anche CARBONE E., Diligenza e risultato nella teoria dell’obbligazione, Giappichelli, Torino, 2007.
[45] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2005, n. 583, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2005; Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[46] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[47] Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2005, n. 583, op. cit., 2005.
[48] FRESA R., op. cit., 2008.
[49] Cassazione civile, sez. III, 12 agosto 1995, n. 8845, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1995.
[50] Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2005, n. 583, op. cit., 2005.
[51] Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2005, n. 583, op. cit., 2005. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[52] Cassazione civile, sez. III, 5 luglio 2004, n. 12273, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2004.
[53] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009, p. 340.
[54] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[55] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, op. cit., 2007.
[56] Cassazione civile, sez. III, 5 luglio 2004, n. 12273, op. cit., 2004.
[57] Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[58]DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011. Cfr. anche DE MATTEIS R., op. cit., 1995; ALPA G., op. cit., 1999; VISINITINI G., op. cit., 1999; STANZIONE P. – ZAMBRANO V., op. cit., 1998.
[59] DE MATTEIS R., op. cit., 1995, p. 124.
[60] Cassazione civile, sez. III, 18 novembre 1997, n. 11440, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 1997. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 5 luglio 2004, n. 12273, op. cit., 2004; Cassazione civile, sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, op. cit., 1999.
[61] Cassazione civile, sez. III, 19 maggio 1999, n. 4852, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1999. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 29 settembre 2004, n. 19560, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2005; Cassazione civile, sez. III, 20 aprile 2004, n. 7494, in Guida al diritto, Il Sole 24 Ore, Milano, 2005.
[62] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011; FRESA R., op. cit., 2008; IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009.
[63] Cassazione civile, sez. III, 19 maggio 1999, n. 4852, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1999. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 4 febbraio 1998, n. 1127, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 1999; Cassazione civile, sez. III, 16 febbraio 2001, n. 2335, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffrè, Milano, 2001. In dottrina cfr. FRANCAVILLA A., L’onere probatorio, in La responsabilità sanitaria, a cura di PECCENINI F., Zanichelli, Bologna, 2007.
[64] FRESA R., op. cit., 2008. Cfr. anche DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011, p. 225: “Pertanto, quando il paziente abbia provato in giudizio che l’intervento era di facile esecuzione, di aver subito un peggioramento a seguito dell’intervento e che tale peggioramento è una conseguenza diretta dell’operato del sanitario, nel senso che le condizioni del paziente sono deteriori rispetto a quelle preesistenti, non può non presumersi la inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale, vale a dire, la sussistenza della colpa lieve in capo al sanitario, ai sensi dell’art. 1176 c.c.: presunzione questa basata sul principio dell’id quod plerumque accidit inteso come l’insieme delle regole tecniche appartenenti al settore specifico in cui opera il medico e che, per comune consenso e per consolidata sperimentazione, sono acquisite dalla scienza e applicate nella pratica. Al sanitario, invece, spetterà provare, per andare esente da responsabilità, che l’esito negativo dell’intervento non è dipeso da propria negligenza, ma da un evento imprevisto o imprevedibile, ex art. 1218 c.c.”.
[65] FRESA R., op. cit., 2008.
[66] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, in op. cit., 2007. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2005.
[67] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011.
[68] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, in op. cit., 2007.
[69] Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, op. cit., 2008. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, op. cit., 2005.
[70] Cassazione civile, sez. III, 24 maggio 2006, n. 12362, in op. cit., 2006.
[71] Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, in op. cit., 2007.
[72] Cfr. Cassazione civile, sez. III, 19 maggio 2004, n. 9471, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2004 in cui, circa i contenuti dell’allegazione, si rinviene la seguente indicazione: “va oggi predicato, in punto di diritto, il principio secondo il quale, in definitiva, pur gravando sull’attore l’onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento dell’azione risarcitoria, tale onere non si spinge fino alla enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengano essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario”.
[73] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009. Cfr. anche BONA M., Responsabilità da attività medico-sanitarie e responsabilità del datore di lavoro: la causalità civile alle prese con la gestione della prova e dell’onus probandi, in AA.VV., Il nesso di causa nel danno alla persona, Ipsoa, Milano, 2005.
[74]Cfr. FRESA R., op. cit., 2008; DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011; IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009.
[75] Sul tema del nesso di causalità in responsabilità civile, cfr. PUCELLA R., Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2008; BORDON R., Il nesso di causalità, Giappichelli, Torino, 2006; FRANZONI M., L’illecito, in Trattato della responsabilità civile, a cura di FRANZONI M., Giuffrè, Milano, 2004; STELLA F., A proposito di talune sentenze civili in tema di causalità, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, Giuffrè, Milano, 2005; CAPECCHI M., Il nesso di causalità, Cedam, Padova, 2005. Nello specifico campo della responsabilità sanitaria v. CIPRIANI G., Il nesso di causalità nella responsabilità medica, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffrè, Milano, 2003; MONATERI P.G. – BONA M., Il nesso di causa nella responsabilità civile per danno alla persona, in Il nesso di causa nel danno alla persona, AA.VV., Ipsoa, Milano, 2005; FACCI G., Il nesso di causalità nella responsabilità medica, in La responsabilità sanitaria, a cura di PECCENINI F., Zanichelli, Bologna, 2007; BELVEDERE A., Il nesso di causalità, in La responsabilità in medicina, a cura di BELVEDERE A. – RIONDATO S., Giuffrè, Milano, 2010.
[76] Cassazione civile, sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2008.
[77] FRESA R., op. cit., 2008, p. 234. Cfr. anche NICOTRA D. – TASSONE B., Autonomia e diversità di modelli nell’accertamento del nesso causale, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2007.
[78] IADECOLA G., Diversità di approccio tra Cassazione civile e Cassazione penale in tema di responsabilità medica, in Diritto penale e processo, Ipsoa, Milano, 2005, p. 116. Cfr. anche PUCELLA R., La causalità incerta, Giappichelli, Torino, 2007; BONA M., Il nesso di causa nella responsabilità civile del medico e del datore di lavoro a confronto con il decalogo delle Sezioni Unite Penali sulla causalità omissiva, in Rivista di diritto civile, Cedam, Padova, 2003.
[79] Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581, Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2008.
[80] Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581, op. cit., 2008.
[81] Cassazione civile, sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 2005.
[82] Cassazione civile, sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400, op. cit., 2005.
[83] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009.
[84] Cassazione penale, sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, in Rivista penale, La tribuna, Piacenza, 2002.
[85] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009. Cfr. anche BARNI M. – POMARA C. – RIEZZO I., Responsabilità professionale medica: il diversificato assestamento giurisprudenziale in ambito penale e civile ed il ruolo della valutazione peritale medico-legale, in Rivista italiana di medicina legale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 861: “(…) si evince che una è e una resta la fondamentale differenza tra l’orientamento espresso dalla Cassazione in ambito penale a) rispetto al civile b), che cioè il nesso causale è riconoscibile in a) se sussiste certezza o alta probabilità razionale al di là di ogni ragionevole dubbio mentre in b) è sussistente quando ricorra una ragionevole probabilità di rapporto”.
[86] BORDON R., La causalità in medicina, in Trattato dei nuovi danni, vol. II, a cura di CENDON P., Cedam, Padova, 2011, p. 548.
[87] Cassazione civile, sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, op. cit., 2008.
[88] IADECOLA G. – BONA M., op. cit., 2009, p. 393. V. Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581, op. cit., 2008.
[89] BORDON R., op. cit., 2011.
[90] TRIMARCHI P., op. cit., 2005, p. 141.
[91] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011; BILANCETTI M., op. cit., 2001.
[92] BILANCETTI M., op. cit., 2001, p. 758.
[93] Cassazione civile, sez. III, 17 luglio 2002, n. 10393, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 2002.
[94] ZIVIZ P., La tutela risarcitoria della persona. Danno morale e danno esistenziale, Giuffrè, Milano, 1999, p. 15. Cfr. anche BILANCETTI M., op. cit., 2001; ZIVIZ P., Il danno morale, in Persona e danno, a cura di CENDON P., Giuffrè, Milano, 2004.
[95] In argomento cfr. BILANCETTI M., op. cit., 2001; MONATERI P.G. – BONA M., Il danno alla persona, Cedam, Padova, 1998; PINORI A., Osservazioni in tema di valutazione del danno alla salute, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 1999; PETTI G.B., Il risarcimento dei danni: biologico, genetico, esistenziale, Utet, Torino, 2002; BERTI R. – PECCENINI F. – ROSSETTI M., I nuovi danni non patrimoniali, Giuffrè, Milano, 2004.
[96] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011.
[97] CASTRONOVO C., op. cit., 1998, p. 84.
[98] Corte Costituzionale, 14 luglio 1986, n. 184, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1986.
[99] Cassazione civile, sez. III, 10 settembre 1998, n. 8970, in Danno e responsabilità, Ipsoa, Milano, 1999. Cfr. anche Cassazione civile, sez. III, 5 novembre 1994, n. 9170, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1994; Cassazione civile, sez. III, 26 ottobre 1994, n. 8787, in Il foro italiano, Zanichelli, Bologna, 1995.
[100] BARGAGNA M. – BUSNELLI F.D., La valutazione del danno alla salute, Cedam, Padova, 1995, p. 70. Cfr. anche VETTORI G., Danno non patrimoniale e diritti inviolabili, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 2009; VALLEBONA A., Sul risarcimento del danno non patrimoniale, in Massimario della giurisprudenza del lavoro, Il Sole 24 Ore, Milano, 2009.
[101] GIANNINI G., Il risarcimento del danno alla persona nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2000.
[102] CENDON P. – ZIVIZ P., Il danno esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 2000, p. 15; MONATERI P.G. – BONA M., op. cit., 1998; ZIVIZ P., Il danno esistenziale, in I danni risarcibili nella responsabilità civile, a cura di CENDON P., Utet, Torino, 2005; FRANZONI M., I diritti della personalità, il danno esistenziale e la funzione della responsabilità civile, in Contratto e impresa, Cedam, Padova, 2009; FRANZONI M., Il danno esistenziale è il nuovo danno non patrimoniale, in Corriere giuridico, Ipsoa, Milano, 2006.
[103] DE LUCA M. – GALIONE A. – MACCIONI S., op. cit., 2011, p. 288.
[104] Tribunale Locri, 6 ottobre 2000, in Giurisprudenza italiana, Utet, Torino, 2000.
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Vi ringrazio per la menzione.
Avv. Giuseppe Maria de Lalla