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1. L’individuazione personale ovvero il “riconoscimento” del presunto responsabile nell’economia dell’investigazione.
E’ di intuitiva evidenza l’importanza che può avere (ed effettivamente ha) durante le indagini preliminari l’avvenuto riconoscimento del presunto colpevole da parte di un testimone oculare chiamato ad effettuare tale operazione successivamente agli accadimenti a cui ha assistito.
Più in generale, il contributo del testimone dei fatti oggetti di indagine e/o di giudizio è di fondamentale importanza nel caso in cui sia possibile attraverso esso riconoscere cose, voci, suoni e “quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale”come recita l’art. 216 del c.p.p..
Le modalità di attuazione del riconoscimento personale sono utilizzate dal Legislatore quale modello anche per le individuazioni di suoni, voci e cose.
Il riconoscimento della persona sospettata è sicuramente l’incombente più utilizzato ed attuato tra le ricognizioni (sia in fase di indagini che di merito) alla luce della notevole forza probatoria (o indiziante a seconda del momento procedurale di attuazione) e, in ogni caso, preso atto dell’indiscutibile valenza anche suggestiva che ha l’indicazione del presunto responsabile (o di altro soggetto coinvolto nella vicenda) da parte di un testimone oculare.
La centralità dell’atto è tale sia che il testimone indichi l’autore del fatto individuando la sua effige ritratta in una fotografia raccolta in un album appositamente confezionato dagli investigatori, sia che l’indicazione giunga durante un c.d. confronto all’americana o line up..
Per analizzare la disciplina del riconoscimento nel nostro procedimento penale (intendendo con tale termine sia la fase delle indagini preliminari che quella successiva dell’accertamento del merito), bisogna precisare, innanzitutto, che l’adempimento è diversamente regolato dal codice di procedura penale ed attuato nella pratica con due modalità differenti a seconda che sia eseguito:
– nel corso delle indagini preliminari dalla Polizia Giudiziaria o dal PM (ex artt. 361 e 55 c.p.p.)
– nel corso del processo ovvero durante il dibattimento (o, comunque, la fese dell’accertamento del merito che potrebbe avvenire anche durante il giudizio abbreviato condizionato) e nel corso dell’incidente probatorio (ex artt. 213 e 214 c.p.p.).
Come detto, a seconda del momento di attuazione del riconoscimento (denominato nel primo caso “individuazione di persone o cose” e nel secondo “ricognizione di persone. Atti preliminari” e “svolgimento della ricognizione”) mutano le modalità attuative, l’utilizzabilità, la validità rappresentativa dei risultati e la valutazione giuridica dell’atto oltre che – come vedremo – i bias (ovvero gli errori procedurali) più diffusi ed i possibili rimedi.
Soffermandoci brevemente sull’analisi del riconoscimento durante le indagini preliminari, bisogna sottolineare che molto spesso l’incombente è effettuato dalle forze dell’ordine a distanza cronologica relativamente breve (in confronto alla successiva eventuale fase processuale dell’accertamento del merito) dai fatti oggetto di investigazione e il più delle volte è materialmente operato utilizzando delle fotografie assemblate in un apposito album ritraenti i volti di più soggetti.
Le foto sono nella prassi per lo più “segnaletiche” per tutti i soggetti ovvero estrapolate dallo S.D.I. (Sistema Di Indagine ovvero l’archivio informatico interforze) o, comunque, in possesso delle Forze dell’Ordine in esito a precedenti rilievi fotodattiloscopici.
Si tratta molto spesso di fotografie in bianco e nero che riproducono il volto del soggetto di fronte e di profilo e che non sono necessariamente particolarmente aggiornate.
La formazione dell’album fotografico è per lo più rimessa alla “sensibilità e all’intuito investigativo” dell’operante che, della descrizione del soggetto da parte del testimone, analizzando la tipologia del reato commesso, del luogo geografico della commissione, del tempo, dei mezzi e da altri parametri dirige la propria attenzione su un soggetto o sua un gruppo di soggetti (Manganelli e Gabrielli 2007).
Potrà trattarsi, quindi, di un album nel quale sono confluite le foto di più individui che l’investigatore crede di poter ricollegare ai fatti accaduti o di un album nel quale l’operante ha inserito la foto del sospettato che reputa essere l’autore del reato unitamente ad altre che vengono utilizzate solo quale “parametro di controllo”.
Tali operazioni di individuazione da parte degli investigatori sono realizzate nel corso delle indagini preliminari per lo più (rectius: quasi esclusivamente) tramite fotografie e non già convocando i soggetti fisicamente (sia nel caso in cui siano tutti sospettati sia nel caso in cui il sospetto ricada solo su una persona).
Il codice di procedura penale disciplina tale attività ad opera del Pubblico Ministero ex art. 361 c.p.p. mentre quella attuata dalle forze di polizia non ha un riferimento normativo ad hoc rientrando sia nel combinato disposto degli artt. 55 e 361 c.p.p. sia in quello più ampio della atipicità dei mezzi di prova ex art. 189 c.p.p..
L’atto di per sé ha grande valenza investigativa permettendo di “chiudere” una indagine in tempi ragionevolmente brevi (Manganelli e Gabrielli ibidem) con una conferma dell’ipotesi di indagine – non solo assai suggestiva – ma anche indubbiamente significativa; inoltre, l’individuazione fotografica potrà essere l’input per ulteriori accertamenti che completeranno il quadro indiziario.
L’individuazione fotografica del soggetto sospettato mediante l’esibizione di uno o più album confezionati dalla polizia giudiziaria è un atto di indagine che benché tipico del Pubblico Ministero in base all’art. 361 c.p.p. può essere eseguito dalla forze dell’ordine (Cass. Pen. Sez. II^, 21.11.1990 tra le più risalenti) non essendovi espresso divieto normativo, sia su delega della Pubblica Accusa che, quale atto atipico, d’iniziativa dagli investigatori (ovvero in difetto di espressa delega) (Intini, R. Casto, A Scali 2006).
L’individuazione della persona effettuata con le modalità di cui sopra non è una prova giuridicamente intesa ex art. 187 e ss. c.p.p. trattandosi di un atto di indagine ma spesso il suo valore indiziante è fondamentale (o, meglio, è considerato tale) per l’accertamento della responsabilità dell’accusato e “travalica” la fase delle indagini risultando determinante anche nella fase di merito.
Nel processo, invero, qualora non venga richiesta dalle parti o non sia comunque svolta una ricognizione personale con le forme e le garanzie degli artt. 213 e 214 c.p.p., il testimone che ha già operato l’individuazione durante le indagini (per lo più presso gli uffici della Polizia Giudiziaria) sarà escusso in dibattimento ed in quella sede gli verranno poste nuovamente in visione le fotografie già viste con la richiesta di pronunciarsi nuovamente.
Qualora dovesse confermare l’indicazione della foto del sospettato, l’atto di indagine – ripetuto in dibattimento – si tramuterà in una prova confermando l’ipotesi accusatoria. Nel caso in cui il testimone non riuscisse a ripetere l’individuazione già operata durante le indagini preliminari, il Pubblico Ministero (ex art. 500 c.p.p.) potrà contestare al teste la difformità con quanto precedentemente riferito veicolando al Giudice in ogni caso l’informazione che il testimone in un momento più prossimo agli accadimenti rispetto al dibattimento aveva individuato “correttamente” l’imputato.
L’individuazione attraverso le foto, pertanto, benché atto sostanzialmente non disciplinato, benché atto di indagine svolto in difetto di qualsivoglia contraddittorio con l’indagato (e la sua difesa) e di cui i registi e gli esecutori sono esclusivamente gli organi deputati a svolgere le indagini (i quali possono essere sottoposti alla pressione di dover trovare al più presto il colpevole) non solo è uno strumento investigativo di cruciale importanza, ma anche fonte di informazione e principio di prova che nella fase dell’accertamento dei fatti può condizionare (sia che si ripeta sia che il P.M. attui la contestazione sopra illustrata) l’intero iter decisionale del Giudice.

1.2. I possibili errori tipici della procedura di individuazione fotografica.
Come vedremo in seguito, è possibile isolare degli errori procedurali intimamente connessi e comuni sia all’individuazione fotografica di cui sin qui si è accennato, sia alla procedura di ricognizione personale ex artt. 213 e 214 c.p.p..
Si tratta di fallacie dovute al funzionamento dei meccanismi della memoria, al possibile condizionamento del soggetto autore del riconoscimento, al setting, alle modalità di esecuzione da parte degli operatori di polizia o del Giudice e ai molti possibili difetti di percezione dell’osservatore.
Vi sono, tuttavia, degli elementi che sono potenzialmente idonei ad inficiare in maniera precipua l’attendibilità dell’individuazione fotografica (che vanno a sommarsi a quelli sopra accennati e di cui oltre tratteremo diffusamente) in quanto collegati ad essa per la stessa natura delle immagini che vengono poste all’attenzione di colui che è chiamato a riconoscere.
La risalenza delle foto comprese nell’album. Il dato è tanto scontato quanto fondamentale: nel giro di due anni (o anche meno) il viso delle persone muta e la foto oggetto dell’accertamento può non corrispondere più al volto della persona ritratta con conseguente elevata possibilità di falso negativo e falso positivo (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008 e 2000);
La foto è necessariamente un’immagine monodimensionale mentre la persona umana è, ovviamente, percepita in maniera tridimensionale dall’osservatore. La diversa percezione dei due dati fenomenici (foto e persona umana) implica che il riconoscimento tramite album fotografico poggi le sue basi su dati spaziali sostanzialmente diversi da quelli appresi osservando la persona dal vero Luisella de Cataldo Neuburger, 2008);
Le foto segnaletiche che compongono l’album ritraggono esclusivamente il volto della persona da riconoscere (solitamente di fronte e di profilo) mentre, al contrario, l’osservatore l’ha solitamente vista in tutta la sua figura potendone apprezzare, quantomeno, la statura e la fisionomia corporea e la gestualità. La mancanza di altri dati fisici della persona raffigurata nella foto impedisce al ricognitore di utilizzare tali elementi tipici del soggetto (osservati durante gli accadimenti) nel procedimento di individuazione. Studi a questo riguardo (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008 e 2000) hanno evidenziato come la posizione migliore per osservare e riconoscere un volto mostrato ad un osservatore in modo statico (quale è, appunto, la fotografia) sia quella di tre quarti che permette a colui che deve effettuare l’individuazione di condensare i dati appresi con una visone del soggetto sia di profilo che di fronte;
– Le foto segnaletiche sono spesso in bianco e nero diversamente dai dati reali percepiti dall’osservatore;
– Le espressioni dei soggetti foto segnalati sono spesso difformi da quelle percepite dall’osservatore e, comunque, spesso innaturali nell’assenza di espressione;
– Quando un soggetto è chiamato ad operare un riconoscimento fotografico, egli rievoca i singoli aspetti del volto visto durante i fatti (occhi, forma del viso, forma del naso e delle orecchie etc.) e li paragona con quelli degli individui ritratti nelle foto. Tale meccanismo psicologico induce spesso l’osservatore a “riconoscere” – non già l’individuo – bensì quella tra le foto che riporta il maggior numero di particolari simili (o meno difformi) rispetto a quelli ricordati. Inoltre, l’essere umano è programmato per riconoscere un volto nella sua completezza e non a descriverlo (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008) ovvero a percepirlo non nei singoli particolari (che, come detto, tendiamo a rievocare per riconoscerlo eventualmente in fotografia) poiché, diversamente, nella realtà quotidiana, perderemmo la possibilità di percepirlo e riconoscerlo nel suo insieme (si afferma, invero, che la memoria riconoscitiva è assai diversa da quella descrittiva dei singoli elementi percepiti – Luisella de Cataldo Neuburger, 2008 -);
– Molto spesso la persona che deve effettuare il riconoscimento viene sottoposta alla visione di centinaia di foto (mug-shots book) (Guglielo Gulotta, 2011) di tal che l’osservatore è sottoposto ad uno stress cognitivo che incide direttamente sulle sue capacità mnestiche (e, quindi, di rievocazione dell’immagine della persona da riconoscere) con detrimento diretto dei processi necessari per una attendibile individuazione

Alla luce di tali ineliminabili fragilità – che si aggiungo a quelle proprie delle ricognizioni di persone osservate in carne ed ossa di cui tratteremo – è facile intuire il limitato valore probante che dovrebbero possedere le individuazioni di persona effettuate in fase di indagini preliminari tramite l’esibizione di un album fotografico.
Il condizionale è d’obbligo poiché, come sopra evidenziato, spesso l’indizio rappresentato dall’individuazione fotografica è traghettato nel dibattimento – e colà assume di fatto un incisivo valore probatorio – tramite la ripetizione dell’individuazione fotografica operata sottoponendo il teste ad una seconda visione dell’album o contestando al testimone una precedente positiva individuazione.
Peraltro, tale meccanismo della seconda visione dell’album durante il dibattimento aggiunge un ulteriore bias di notevole portata: il testimone sarà incline ad indicare nuovamente la fotografia già individuata in quanto memore di aver precedentemente visto quella foto e non già quella persona.
La giurisprudenza e la dottrina di common low interessate da tempo al fenomeno dell’individuazione (sia fotografica che tramite line up) e da decenni impegnate ad isolarne le criticità con lo scopo di limitarne la fallacia, hanno sottolineato come l’85 % delle sentenze di condanna fondate sui riconoscimenti dei testimoni oculari siano state poi riformate in appello (Domenico Carponi Schittar, 2012) e come il riconoscimento fotografico sia uno dei mezzi di prova meno attendibili e si trovi all’ultimo posto nella scala di attendibilità probatoria dovendo trovare soltanto nelle esigenze investigative il presupposto per la loro esecuzione mirato esclusivamente alle finalità proprie della fase preliminare (V. in Giurisprudenza la Sentenza Corte di Assise di Milano n. 16/2007 del 26 novembre 2007 richiamata anche da Luisella de Cataldo Neuburger, 2008).
Nel nostro procedimento penale una vasta Giurisprudenza nemmeno eccessivamente risalente ha confermato che l’individuazione fotografica effettuata durante le indagini preliminari, nell’ottica del principio della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del Giudice, è del tutto ammissibile anche se svolta in maniera informale e senza il rispetto di precisi canoni volti ad impedirne la contaminazione (tra le molte: Cass. Sez. I^ 8 giugno 1993, Novembrini; Cass. Sez. I^ 1° ottobre 1996, De Tommasi in CED Cass. N. 206090; Cass. Sez. IV^ 14 maggio 1996, Perez, in Arch. Nuova proc. Pen. 1996; Cass. Sez. IV^ 8 novembre 1995, Pennente in Cass. Pen. 1997; Cass. Sez. I^ 10 febbraio 1995, Archinto, in CED Cass. N. 200234).
Una linea interpretativa simile seppur più limitata sostiene che l’individuazione fotografica informale avvenuta in fase di indagine può essere posto dal giudice del dibattimento quale base del proprio convincimento in omaggio ai già ricordati principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento (V. ad es. Cass. Sez. VI^ 12 giugno 2003 in CED Cass. N. 225574).
Peraltro – con una valutazione censurata dalla successiva Sentenza della Corte di Assise di Milano del 2007 sopra richiamata e di buona parte della Dottrina – la Giurisprudenza ha anche evidenziato come la certezza del riconoscimento dipenderebbe non già dall’attendibilità intrinseca dell’individuazione come risultato probatorio (ovvero valutando lo stesso in maniera autonoma rispetto alle altre dichiarazioni del teste) ma dalla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica sicuro della sua identificazione; quasi che la dichiarazione di sicurezza di chi può essere caduto consapevolmente in errore sia garanzia di affidabilità (Cass. Sez. I^ 4 febbraio 1993, Maria, in Cass. Pen. 1995; Cass. Sez. VI^ 8 novembre 1995, Pennente; Cass. Sez. IV^ 1° febbraio 1996, Santoro).

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