Il concetto medico di capacità di intendere e di volere si discosta da quello prettamente Giuridico. La Corte di cassazione precisa le differenze tra le due interpretazioni e la necessità di una perizia anche a fronte del Giudice peritum peritorum.
Commentiamo in questa sede una importante e recente Sentenza della Corte Costituzionale – 22 ottobre 2014 n. 239 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354/75) nella parte in cui preclude la concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies della citata legge alle detenute con prole di età non superiore ai dieci anni.
L’articolo art. 4 bis comma 1 reca una disciplina speciale, a carattere restrittivo, per la concessione dei benefici penitenziari (tra cui le misure alternative alla detenzione di cui al capo VI della legge n. 354/75) a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti.
Si tratta, innanzitutto, di quei reati legati alla criminalità organizzata come i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione, l’associazione di tipo mafioso e i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’associazione finalizzata al narcotraffico, l’associazione volta allo sfruttamento della prostituzione nonché l’associazione finalizzata alla tratta di persone.
Per i soggetti condannati per uno dei suddetti delitti la legge prevede l’accesso ai benefici penitenziari extramurari solamente nel caso in cui tali detenuti collaborino con la giustizia, assumendolo quale indice di una rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata e dunque del venir meno della pericolosità sociale.
Tuttavia, nelle ipotesi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile o si riveli oggettivamente irrilevante (ad esempio per una limitata partecipazione al fatto criminoso o perché i fatti sono già stati accertati integralmente), la norma estende la possibilità di accesso ai benefici sempre che sia esclusa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
Ulteriori reati ostativi sono alcuni delitti a carattere sessuale, per i quali la concessione dei benefici di cui si tratta è subordinata agli esiti di una valutazione della personalità del condannato.
Ciò premesso, la questione di legittimità sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Sorveglianza di Firenze riguardava l’applicabilità del divieto di concedere la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies o.p. alle detenute madri di prole di età non superiore ai dieci anni, condannate per uno dei reati di cui all’art. 4 bis comma 1.
In particolare, secondo il rimettente la disciplina di rigore contenuta nella norma censurata violerebbe il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) poichè estende il regime restrittivo anche ad una misura alternativa alla detenzione, quale appunto quella prevista dall’art. 47 quinquies, che presenta delle finalità affatto peculiari rispetto alle altre misure alternative previste dal Capo VI dell’ordinamento penitenziario (ad esempio affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare).
Infatti, per il citato Tribunale, “la detenzione domiciliare speciale non costituirebbe un beneficio tendente al reinserimento sociale del condannato, ma tutelerebbe il preminente interesse del figlio minore a recuperare al più presto un normale rapporto di convivenza con la madre al di fuori dell’ambiente carcerario. Facendo prevalere su tale interesse la pretesa punitiva dello Stato, la disposizione denunciata riverserebbe, dunque, irragionevolmente sulle fragili spalle del minore le conseguenze delle gravi responsabilità penali della madre e della sua scelta di non collaborare con la giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a vedere riconosciuta l’inesigibilità, impossibilità o l’irrilevanza di detta collaborazione”.
La norma denunciata “violerebbe, altresì, gli artt. 29, 30 e 31 Cost., ponendosi in contrasto con l’imperativo costituzionale di tutela della famiglia come società naturale, con il diritto-dovere dei genitori di educare i figli e con il corrispondente diritto di questi di essere educati dai primi, nonché con l’obbligo di protezione dell’infanzia”.
La Corte Costituzionale, ritenendo fondata la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze, si sofferma, anzitutto, sulla progressiva evoluzione della tutela del rapporto tra condannate madri e figli minori per arrivare alla considerazione che l’ordinamento ha maggiormente favorito la possibilità per le condannate madri di mantenere e sviluppare il compito di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli con l’introduzione della misura delle detenzione domiciliare speciale.
Si tratta di uno strumento sussidiario e complementare rispetto alla detenzione domiciliare ordinaria, applicabile nei casi in cui la pena detentiva in esecuzione superi il limite consentito per il beneficio ordinario (quattro anni di reclusione) o non vi siano, comunque, le condizioni per applicare la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter o.p..
Sul punto la stessa Corte aveva in precedenza rilevato che “il senso dell’estensione si rinviene nel rilievo preminente dell’interesse dei bambini, che non devono essere eccessivamente penalizzati dalla differenza di situazione delle rispettive madri in riferimento alla gravità dei reati commessi e alla quantità di pena già espiata” (Sentenza n. 177/2009).
Ciò posto, il giudice delle leggi, scendendo all’esame del merito della questione di legittimità, si sofferma, in primo luogo, sulla natura peculiare della misura speciale di cui all’art. 47-quinquies o.p.. Pur non escludendone la funzione rieducativa, che l’accomuna alle altre misure alternative, la Corte rileva che “nell’economia dell’istituto in questione assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età a instaurare un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o eventualmente con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo”. Tale interesse peculiare rileva non solo in relazione all’articolo 3 della Costituzione circa l’esigenza di un trattamento differenziato, ma evoca anche ulteriori parametri costituzionali richiamati dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze e, precisamente, gli artt. 29, 30 e 31 Cost., posti a tutela della famiglia, del diritto-dovere di educazione dei figli e della protezione dell’infanzia.
Peraltro, osserva la Corte, l’interesse del minore “a vivere e crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di riceve cura, educazione ed istruzione” è oggetto di tutela anche da parte dell’ordinamento europeo e dell’ordinamento internazionale (v. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e Convenzione dei diritti del fanciullo di New York). Entrambi gli ordinamenti qualificano, infatti, come superiore l’interesse del minore stabilendo che in tutte le decisioni relative ai minori, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, detto interesse deve essere considerato preminente.
Le considerazioni sopra svolte portano il giudice delle leggi a rilevare come l’aver assoggettato anche la detenzione domiciliare speciale al regime di rigore di cui all’art. 4 bis comma 1 o.p., accomunando fattispecie tra loro profondamente diversificate, sia senza dubbio lesivo degli interessi costituzionalmente garantiti ed, in particolare, dell’esigenza di assicurare la preminenza dell’interesse del soggetto minore.
Secondo la Corte, infatti, l’assetto vigente non opera un corretto bilanciamento tra esigenze preventive da una parte, quale la lotta alla criminalità organizzata perseguita tramite l’introduzione di uno sbarramento alla fruizione dei benefici, rimuovibile con una condotta collaborativa, e tutela di altri valori costituzionali dall’altra, tra cui rientra l’interesse del minore “a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico”; interesse alla cui tutela è finalizzata in maniera preminente la misura della detenzione domiciliare speciale.
Peraltro, “in tal modo”, osserva la Corte, “il costo della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare”.
Del resto, una necessaria differenziazione di trattamento si impone anche se si guarda all’altra e concorrente ratio del regime considerato, legata alla funzione rieducativa della pena. Difatti,“la subordinazione dell’accesso alle misure alternative ad un indice legale di ravvedimento del condannato – la condotta collaborativa, in quanto espressiva della rottura del nesso tra il soggetto e la criminalità organizzata – può risultare giustificabile quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita. Cessa, invece, di esserlo quando al centro della tutela si collochi un interesse “esterno” ed eterogeneo, del genere di quello che al presente viene in rilievo”.
Tuttavia, sul punto la Corte precisa che “l’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, pur avendo ragno elevato, non forma oggetto di protezione assoluta, ma deve essere bilanciato con esigenze contrapposte, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato….. Proprio ad una simile logica di bilanciamento risponde, in effetti, la disciplina delle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare stabilite dall’art. 47-quinquies o.p.: condizioni tra le quali figura anche quella della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della condannata”.
Il parametro di ponderazione tra tali valori, entrambi di rango costituzionale, deve allora individuarsi nella valutazione che il giudice opera nel singolo caso, relativamente alla verifica che non sussista un concreto pericolo di reiterazione di ulteriori reati da parte della condannata.
Difatti, secondo la Corte, “affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto – così come richiede la citata disposizione – e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni”.
La dichiarazione di incostituzionalità così come operata dalla Corte Costituzionale rileva, al di là di un impatto sul piano applicativo, per l’affermazione del principio per cui alle esigenze preventive sottese al regime restrittivo di cui all’art 4 bis comma 1 o.p. non può essere riconosciuta una preminenza assoluta e incondizionata rispetto alla tutela degli altri valori costituzionali.
Invero, spetterà al giudice, di volta in volta, operare un corretto bilanciamento tra le esigenze di difesa sociale e gli ulteriori interessi costituzionalmente garantiti (come, nel caso di specie, l’interesse del minore), verificando se nel caso concreto l’uno sia assolutamente prevalente sull’altro (ed, in particolare, per quanto riguarda la detenzione domiciliare speciale di cui all’art 47-quinquies il giudice verificherà se effettivamente sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della madre condannata, tale da ostare all’applicazione della misura).
(Articolo redatto dalla Dott.ssa Silvia Meda dello Studio legale de Lalla. Tutti i diritti riservati).
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