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Pubblichiamo una interessante recente sentenza – Sezione II, sentenza 27 novembre-12 dicembre 2013 n. 50074 – Pres. Petti; Rel. Iannelli; Pm (conf. Gialanella) – in tema di estorsione punita e prevista dall’art. 629 c.p.: chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno è punito con la reclusione da cinque a dieci anni…
Oggetto specifico della tutela penale nel reato di estorsione è la inviolabilità del patrimonio associata all’interesse concernente la libertà individuale contro fatti di coercizione commessi al fine di costringere altri a fare o ad omettere qualche cosa per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
Per l’esistenza del reato di cui si tratta è necessario che siano ravvisabili nella condotta dell’agente violenza e/o minaccia.
Per minaccia si intende la prospettazione di un male ingiusto che può anche essere mediata, larvata, implicita, indiretta o indeterminata e può consistere anche nella prospettazione di un pericolo immaginario che sia stato, però, ritenuto reale dalla vittima.
Il fatto cui il soggetto passivo deve essere costretto è sempre un atto di disposizione patrimoniale: la vittima , cioè, deve essere costretta a compiere un atto:
– Passivo (sborsare una somma di denaro),
– Negativo ( non esigere un proprio credito);
– Che incide sul patrimonio inteso comprensivo non solo di beni mobili ma anche di beni immobili e di diritti di qualsiasi natura.
Proprio in relazione alla disposizione della vittima di diritti di qualsiasi natura, si pronuncia la citata sentenza che vede coinvolti dei lavoratori vittime di estorsione agita da parte del datore di lavoro che li obbligava a prestare la loro opera in difetto del salario e delle altre condizioni di tutela dei lavoratori così come disciplinate dai contratti collettivi di categoria minacciandoli che li avrebbe altrimenti licenziati.
Si tratta di una fattispecie del reato di estorsione assai interessante poiché si discosta da quelle dinamiche esecutive del medesimo crimine nella quale vi è la minaccia dell’offender (che non ha alcun rapporto giuridico con la vittima) finalizzata alla corresponsione di somme di denaro e poiché conferma come la minaccia di far perdere il posto di lavoro (ovvero una prospettazione molto diversa da un danno materiale immediato o, addirittura, all’integrità fisica della persona offesa) possa oggi a pieno titolo essere considerata una pressione in alcuna casi di natura estorsiva.
Vediamo nel dettaglio la Sentenza (per estratto) e la nota pubblicate su “Guida al diritto” n. 9 del marzo 2014.
“….Integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento. In tale condotta, infatti, è in re ipsa l’ingiustizia del profitto, riferita alle prestazioni non corrisposte, che si traducono anche nell’ingiustizia del licenziamento, pervaso da un disvalore giuridico penale, che proviene dalla sua ingiusta causa…”.
NOTA
La sentenza è in linea con un orientamento pacifico che, in casi analoghi, ha costantemente ribadito il principio in forza del quale integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando delle condizioni del mercato del lavoro a lui favorevoli nei confronti dei lavoratori per prevalenza dell’offerta sulla domanda, con la minaccia consistita, a seconda dei casi, nel prospettare loro la mancata assunzione o il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione, qualora non venissero accettate le condizioni di lavoro a loro imposte, costringa i lavoratori medesimi ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e alla contrattazione collettiva, quali, a seconda dei casi: lavoro in nero, trattamenti economici inferiori rispetto al pattuito, sottoscrizione di lettere di dimissioni in bianco, rinuncia a godere di congedi per malattia o per infortunio sul lavoro; in tal modo procurandosi l’ingiusto profitto rappresentato dalla mancata erogazione delle somme legalmente dovute, anche per oneri contributivi e previdenziali e prestazioni di lavoro straordinario, con pari danno per i suddetti lavoratori. Ciò in quanto la “minaccia”, quale elemento costitutivo dell’estorsione, non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la minaccia di un male irreparabile alle persone o alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che, in relazione alle circostanze che l’accompagnano, sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio (di recente, sezione VI, 1° luglio 2010, Proc. Rep. Trib. Caltanissetta e altro in proc. Tramontana; sezione II, 1° dicembre 2011, Torcetta che, in particolare, ha ravvisato l’estorsione nella condotta del datore di lavoro che, in un contesto di grave crisi occupazionale, prospetti ai dipendenti il rischio di perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga).
Carabinieri di Palermo filmano una estorsione classica in diretta.
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