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Trattiamo in questo articolo – redatto dalla Dottoressa Focacci con l’introduzione dell’Avv. Giuseppe Maria de Lalla – alcuni aspetti del delicatissimo tema della testimonianza del minore nel processo penale ed in particolare del minore sospetta vittima di abusi sessuali.

L’argomento è stato più volte oggetto di interventi su questo sito e, in generale, è un tema dibattutissimo e quanto mai attuale la cui importanza è legata sia alla complessità pratica dell’esecuzione, sia all’approccio per certi aspetti ondivago del Legislatore, sia – ovviamente – per la posizione indubbiamente centrale che la testimonianza del minore ha nel caso di un processo (quello a carico del supposto offender) nel quale non vi sono ulteriori elementi di prova a carico dell’accusato.

Peraltro, la testimonianza nel nostro processo penale è chiamata – sicuramente a torto – la c.d. “prova regina” quasi che la memoria di un individuo possa paragonarsi ad una fotografia della realtà consultabile in ogni momento e conservata in un archivio immutabile.

La realtà è, al contrario, molto più complessa e molto meno…..affidabile.

Tralasciando ogni esigenza di esaustività che esula dalla presente trattazione, tracciamo qui uno schema a grandi linee del funzionamento della memoria.

La memoria umana è suddivisibile in due “comparti” la memoria a breve termine (MBT) e la memoria a lungo termine (MLT).

La prima (composta anche dalla c.d. “memoria di lavoro”) ci permette di ritenere ed utilizzare informazioni relativamente semplici (ad esempio una stringa di qualche numero) per un periodo molto limitato di tempo.

La MLT, al contrario, è un magazzino nel quale incameriamo ricordi che sono destinati a durare anni e per alcune informazioni anche tutta la vita permettendoci di conservare la consapevolezza della nostra identità.

La testimonianza nel processo penale, ovviamente, coinvolge la memoria a lungo termine di fatti ed evenienze che il teste è chiamato a rievocare e riferire anche a distanza di anni dalla percezione diretta.

La memoria (sia a breve che a lungo termine) si articola in un procedimento cognitivo suddivisibile in tre fasi:

  • La percezione dell’evento;

  • La ritenzione “in memoria” del ricordo dell’evento percepito (ovvero la ritenzione della traccia mnestica);

  • La rievocazione del ricordo (che nella testimonianza è normalmente comunicato all’interlocutore).

Tutte e tre le fasi possono essere (e normalmente sono) assolutamente lontane dalla precisa riproduzione fotografica di ciò che accade.

Già il primo step, ovvero la percezione, è spesso distorta dalle condizioni ambientali, dalla natura dell’evento accaduto, dalle qualità personali del soggetto, dalle emozioni provate dallo stesso, dalla velocità degli accadimenti etc.

Davvero numerosissime le variabili che possono e che, difatti, influiscono sulla stessa genuinità del bagaglio mnestico che andiamo ad immagazzinare in memoria.

La ritenzione del ricordo è poi un procedimento assolutamente dinamico e giammai statico.

Quanto ricordiamo è soggetto a modificazioni inconsce tanto maggiori quanto più risalente è l’accadimento percepito.

L’evento è “completato” nella nostra memoria e modificato spesso per renderlo più logico ed omogeno (e quindi più facile da ricordare) secondo le nostre convinzioni ed aspettative.

Da ultimo, la rievocazione – che già di per sé è legata a doppio fino alle capacità lessicali del soggetto propalante – è pesantemente influenzata (anche nell’adulto) dalla natura, dalla tipologia e dalle peculiarità della domanda (anche prendendo in considerazione le qualità del soggetto che la pone ed il setting nel quale è rivolta).

Non per niente, è lo stesso Legislatore che in sede di contro esame del teste (ovvero effettuato dalla parte che NON l’ha citato, al fine quindi di saggiarne la sincerità e genuinità) prevede all’art. 499 c.p.p. che possano essere rivolte al testimone le domande suggestive ovvero quelle che tendono a suggerire la risposta al fine, come detto, di verificare se il teste (genuino) è in grado con la sua risposta (genuina) di resistere alla suggestione veicolata dall’interrogante.

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Quindi, memoria come procedimento dinamico sottoposto a plurime variabili ed assolutamente lontano da una ricostruzione fotografica degli accadimenti percepiti.

Naturalmente, nel caso di testimoni minorenni, il quadro testé delineato si presenta oltremodo complesso preso atto della fragilità intrinseca delle risorse cognitive dei bambini e della loro indubbia maggiore esposizione all’influenza dell’interrogante ed anche interne.

A ciò si aggiunga che quando si parla di minori in realtà si comprendono soggetti assolutamente diversi tra loro in un arco di età che praticamente va dai tre anni ai diciassette di tal che ogni generalizzazione deve essere presa e valutata come tale.

In ogni caso, come detto, l’audizione del minore quale teste e sospetta vittima di abusi sessuali, è una tema scientifico di amplissima portata che certamente in questa sede non può e non vuole essere esaurito ma, semmai, tratteggiato nelle sue macro problematiche al fine di dare al lettore un spunto in più per percepirne le ancora perduranti complessità anche e soprattutto nell’ambito strettamente giudiziario.

Ed a tal fine si consideri che:

  • Il processo per violenza sessuale è in generale un processo ove la prova è asfittica ovvero di portata limitata poiché – in difetto di evidenze mediche – il più delle volte si riduce al propalato della persona offesa in difetto di testimoni terzi e di altre fonti di prova (intercettazioni telefoniche, video di sorveglianza, documenti etc.);

  • Quando la persona offesa è un minore (magari un bambino più che un adolescente) tutto il processo si basa sulle dichiarazioni propalate da un soggetto strutturalmente fragile la cui memoria (vedi oltre) è soggetta a variabili di per sé di portata maggiori rispetto a quelle (plurime) che già incidono normalmente sul bagaglio mnestico dell’adulto;

  • Il minore è di per sé un soggetto facilmente influenzabile tanto dalle sue figure di riferimento (i genitori, i parenti, gli insegnanti) quanto, più in generale, dagli adulti ed in special modo dall’interrogante/Giudice o appartenente alle Forze dell’Ordine che egli vede come un soggetto particolarmente autorevole;

  • La dinamica della comunicazione “normale” di un bambino con un adulto è contrassegnata dal fatto che:

  • Solitamente è il bambino che aderisce alle richieste dell’adulto;

  • Solitamente l’adulto conosce tutte le risposte;

  • Le risposte si dividono in due categorie ovvero quelle sbagliate e quelle giuste e le seconde sono quelle che l’adulto vuole sentire;

  • Se un adulto ripete più volte una domanda vuole dire che le risposte date fino a quel momento non sono quelle corrette;

  • Se nella domanda dell’adulto vi è un suggerimento circa la risposta, è compito del bambino confermare la risposta suggerita dall’adulto.

e tali aspetti evidentemente confliggono con la ricerca della genuinità del bagaglio mnestico del bambino;

  • Spesso il bambino è comprensibilmente “preparato” all’audizione da parte dei genitori e ciò può implicare una contaminazione del ricordo del fanciullo;

  • Inoltre, preso atto che i bambini “ricordano raccontando”, la ripetizione del racconto (ai genitori, all’insegnante, agli amici, alla polizia etc. ed infine al Giudice) implica molto facilmente la contaminazione progressiva del ricordo del bambino fino alla creazione di veri e propri falsi ricordi;

  • I bambini piccoli – dai sei ai dieci anni con ogni evidente variabile – sono poi contraddistinti da una comprensibile quanto comune vita immaginativa ove gli oggetti e gli avvenimenti sono umanizzati ed il pensiero ed il racconto si arricchisce di fantasia ove è frequente la confabulazione per riempire eventuali vuoti di memoria con racconti ed immagini fantastiche;

  • Spesso anche il linguaggio del bambino, i termini che lo stesso utilizza, è frainteso dall’adulto trattandosi di un registro comunicativo non condiviso.

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La cronaca è davvero tristemente ricca di incredibili accadimenti che hanno coinvolto e stravolto, famiglie, individui e gli stessi bambini a partire dall’errore nell’audizione dei minori e basti ricordare la vicenda dell’asilo di Rignano Flaminio e quella tremenda della bassa modenese oggetto del noto podcast VELENO ma davvero i casi giudiziari di “falsi positivi” basati sull’audizione errata delle supposte piccole vittime accadono molto più spesso di quanto si possa pensare.

Esistono, tuttavia, delle linee guida, delle prassi scientificamente fondate per ridurre al minimo – sebbene non azzerare – il rischio di errore nell’audizione del minore.

Anche questo aspetto, ovvero l’adozione della migliore prassi per l’escussione del minore sospetta vittima di abuso sessuale, è un tema vasto, complesso e di fondamentale importanza per l’amministrazione corretta della Giustizia.

Un dato fondamentale su tutti: le buone prassi di cui trattiamo (risultato, come vedremo, dell’apporto – anche ma non solo – degli esperti del settore della psicologia dell’età evolutiva) NON sono state MAI percepite dal Legislatore di tal che le stesse FORMALMENTE NON SONO UNA NORMA IL CUI MANCATO RISPETTO ANNULLA L’ATTO (OVVERO L’AUDIZIONE) ED UGUALMENTE LA VIOLAZIONE DELLE PREDETTE PRASSI NON E’ IMPUGNABILE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ.

Il dato è, quantomeno, curioso.

La Giurisprudenza ha colto l’importanza fondamentale del rispetto delle regole scientifiche per l’audizione del minore; ma ancora si registra obbiettivamente una resistenza del processo penale ad accogliere tali prassi nel novero degli strumenti indefettibili e, soprattutto, FORMALMENTE LEGALI per la migliore amministrazione della Giustizia.

Ad oggi, non solo le prassi di cui trattiamo non assurgono a norme di legge; ma addirittura non sono considerate alla stregua di protocolli scientifici come quelli (ugualmente non riconosciuti quali norme di legge) adottati, ad esempio, per la repertazione del materiale biologico la cui violazione, in ogni caso e pur non essendo formalmente una legge dello Stato, inficia la validità della prova raccolta.

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Fortunatamente, nella quotidiana amministrazione della Giustizia, si assiste negli ultimi due decenni ad una lenta ma graduale affermazione della cultura giuridica dell’adozione delle migliori tecniche per l’ascolto del minore unitamente al sempre maggiore impiego di personale esperto (Polizia di Stato e Magistrati) coadiuvato da ausiliari psicologi esperti dell’età evolutiva.

Ad oggi, il minore – spesso dopo una preliminare audizione effettuata dalla Polizia Giudiziaria con l’assistenza di un ausiliario – è escusso dal Giudice in una aula protetta con la presenza di un perito qualificato nell’ambito dell’incidente probatorio ex art. 392 e SS. c.p.p. (al quale si rinvia per la disciplina tesa tutta a tutelare il minore da una vittimizzazione secondaria).

Inoltre, l’incidente probatorio ha per oggetto anche la valutazione della capacità a testimoniare del minore anche al fine di saggiarne le effettive competenze cognitive ed il registro comunicativo1.

Citiamo qui due dei protocolli più noti per l’ascolto del minore ovvero:

  • La Carta di Noto: documento nato dalla collaborazione interdisciplinare tra avvocati, magistrati, psicologi, psichiatri, criminologi e medici legali dopo il convegno “Abuso sessuale sui minori e processo penale”, tenutosi a Noto il 9 Giugno 1996 ed organizzato dalla Prof.ssa de Cataldo Neuburger e dall’Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali.

Il 7 luglio 2002 la carta di Noto è stata aggiornata, tenendo conto dell’introduzione di nuove normative, dei progressi della ricerca scientifica e del sempre puntuale aggiornamento delle figure professionali coinvolte.

  • Le Linee guida Nazionali sull’ascolto del minore redatte dalla Consensus Conference nel 2010 a cui hanno partecipato le principali Associazioni professionali coinvolte sul tema (da quelle dei medici legali, di neuropsicologia infantile e dell’adolescenza, di psichiatria e psicologia forense) ciascuna attraverso due rappresentanti adottando un articolato procedimento di formazione del documento approvato dapprima all’unanimità e poi inviato prima ad un team di esperti esterni e poi infine ratificato dalle Società Scientifiche di riferimento.

I due protocolli – che non sono gli unici ma che a parere di chi scrive sono i più autorevoli e quelli maggiormente impiegati – indicano concretamente la migliore metodologia per l’escussione del minore affinché il racconto dello stesso sia quanto più possibile protetto da contaminazioni esterne (preso anche atto che, una volta verificatasi la contaminazione e/o il falso ricordo, la prova dichiarativa del minore sarà per sempre compromessa alla stregua di una impronta biologica scorrettamente repertata).

Si rimanda ovviamente agli stessi per l’analisi integrale del loro contenuto ma anche in questa sede se ne sottolinea la fondamentale importanza sia scientifica che pratica.

I due protocollo affrontano analiticamente ogni aspetto dell’audizione del minore: dall’accoglimento dello stesso, al luogo ideale per lo svolgimento dell’incombente, al modo migliore per entrare in sintonia con il minore, alle modalità per sondarne le capacità generiche e specifiche (vedi sotto) del bambino, alle modalità per porre le domande senza contaminare la risposta del piccolo teste, alla corretta condotta deontologica e pratica del consulente, al corretto co0nfezionamento del quesito peritale etc..

E soprattutto è specificato che NON può essere demandato al consulente del Giudice il compito di valutare se il minore afferma il falso oppure il vero.

Entrambi i protocolli postulano che la capacità a testimoniare del minore si divide in ABILITA’ GENERICHE E SPECIFICHE.

LE ABILITA’ GENERICHE.

Corrispondono alle competenze cognitive come memoria, attenzione capacità di comprensione e di espressione linguistica, source monitoring, capacità di discriminare il vero dal falso, verosimile dall’inverosimile oltre al livello di maturità psico affettiva.

LE ABILITA’ SPECIFICHE

Corrispondono alle abilità di organizzare e riferire un ricordo in relazione alla complessità narrativa e semantica delle tematiche in discussione ed all’eventuale presenza di influenze suggestive, interne o sterne che possono aver agito sul ricordo del minore.

Quindi, le competenze GENERICHE sono la capacità di un minore di riferire accadimenti che ha vissuto o dei quali è stato spettatore; le competenze SPECIFICHE riguardano invece la capacità del minore di riportare gli specifici fatti oggetto del procedimento in assenza di alterazioni e contaminazioni che possono derivare da problematiche personologiche, induzioni , incapacità di dare significato corretto a quei particolari eventi etc.

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E’ bene chiarire ancora una volta che non è compito del Consulente esprimere una valutazione sulla credibilità storica di quanto riferito dal minore; compito che spetta esclusivamente al Giudice incaricato per Legge in tal senso (preso anche atto che NON esistono in letteratura sintomi di natura psicologica SPECIFICI di abuso sessuale).

Il lavoro ed il contributo fornito dal tecnico (consulente di parte, ausiliario di PG o perito che sia) riguarda la psicologia della testimonianza, le dinamiche familiari e la psicologia dello sviluppo.

Per questo motivo si parla di credibilità clinica, a sottolineare come l’aria di indagine del Consulente non è di tipo fattuale ma semplicemente clinico.

Sull’onda di queste riflessioni, approfondiamo in generale nell’articolo sottostante il difficile rapporto tra memoria e processo penale.

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La differenza tra i falsi ricordi e quelli veri è la stessa che c’è per i gioielli: sono sempre quelli falsi che sembrano i più veri, i più brillanti”

Così Dalì descriveva quanto accade alla mente umana nella riproduzione del vero oggettivo.

Ed è proprio questo il punto: chi ci assicura che quanto narrato corrisponda a quanto avvenuto realmente?

La sfera soggettiva del ricordo intacca inevitabilmente quella oggettiva, fino a intrecciarsi in un unico racconto in cui distinguere il vero dal falso diviene pressoché impossibile.

Così, quel giorno a quell’ora Tizio si trovava sul luogo del delitto, assisteva alla scena o la subiva direttamente, ne coglieva ogni aspetto, ogni dettaglio lo recepiva integralmente nella sua mente, lo immagazzinava. Era nitido, lucido e trasparente e quindi, come dimenticarlo? Ma il tempo scorre e quel momento si fa sempre più lontano e sfuocato. Lo ripete ad amici e conoscenti o semplicemente lo tiene segretamente in un cassetto della sua memoria, al riparo dai giudizi, dalle opinioni e dalle influenze umane altrui.

Al di là di ciò a cui sia destinato il ricordo, dal momento immediatamente successivo al suo verificarsi non sarà più lo stesso.

La sua integrità è compromessa e la lucidità del vissuto inevitabilmente perduta.

Ciascuno degli aspetti che compongono quell’attimo vengono modificati da sensazioni, emozioni, elaborazioni che ne cambiano drasticamente la fisionomia originaria.

Ed ecco che forse non era bianca la maglietta dell’aggressore, che probabilmente non aveva detto esattamente quelle parole, che magari si stava rivolgendo a qualcun altro.

La pericolosità del dubbio è questione banale se si pensa agli aspetti più comuni della vita quotidiana e dell’essere umano, consapevole dell’impossibilità di raggiungere certezze in assoluto concepite come tali, ammissibile in ogni ambito in cui il dubbio permane naturalmente, ma non nell’ambito processuale.

Un procedimento giudiziario non può in alcun modo permettersi (o meglio, non potrebbe permettersi…) racconti fantasiosi di una memoria modificata.

Tutto ciò che si introduce nel processo deve essere reale ed effettivo. O perlomeno questo è l’intendimento del Legislatore.

Dinnanzi alla necessaria rilevanza oggettiva della prova dunque, nella dimensione ontologica del processo, si inserisce proprio il problema della testimonianza, ancor più delicato qualora a renderla sia un cosiddetto soggetto sensibile o fragile che dir si voglia.

La naturale tendenza in età infantile di invenzione e creazione di modelli nonché di elaborazione soggettiva delle informazioni, impone inevitabilmente degli accorgimenti e una particolare attenzione da parte di chi, nella complessa macchina giudiziaria, si trova a doverli affrontare, indagare, esplorare e successivamente valutare.

Si pensi all’ipotesi accusatoria in cui un minore abbia subito o assistito ad episodi di abuso sessuale e la sua testimonianza, in qualità di persona presente ai fatti o di persona offesa, sia decisiva nel procedimento a carico dell’accusato. Non vi sono altre prove, residua solo la parola del minore contro quella del supposto agente.

Orbene, i meccanismi della memoria e della memoria traumatica, dando conto delle numerose ricerche sia sulla realtà quotidiana che su quella clinica, hanno costituito oggetto di analisi empiriche, favorendo lo sviluppo di metodi sistematici di valutazione del narrato.

Il primo aspetto considera che i bambini “se avvicinati in modo suggestivo, possono facilmente cambiare la descrizione di quello che hanno visto o che è stato loro fatto” e, senza alcuna propensione ad una menzogna cosciente, assumere le vesti di “falsi testimoni inconsapevoli”. 2

Per meglio comprendere il tema, diversi anni fa, veniva condotto un esperimento che, al fine di analizzare la struttura mnemonica degli interrogati, si strutturava nel seguente modo: veniva raccontato ad alcuni bambini di età compresa fra i 9 e i 10 anni che all’età di 5 anni, mentre si trovano al supermercato con la propria madre, subivano un tentativo di sequestro da parte di un uomo che, dopo essersi avvicinato e averli condotti verso l’uscita del negozio, interrompeva l’azione criminosa solo a seguito delle urla del genitore spaventato.

Il risultato dell’indagine era sorprendente: quasi tutti, nel riferire del falso episodio che gli era stato raccontato, non solo lo concepivano come realmente accaduto ma lo contornavano di ulteriori e fantasiosi dettagli.

Ancora, la costruzione di ricordi non corrispondenti al vero a fronte dell’influenza di elementi esterni e indipendenti dalla realtà veniva accertata da un esperimento condotto da Kassa et Al.

Alcuni ragazzi, dopo essere stati sottoposti a misurazioni di diverse parti del corpo, venivano falsamente avvisati che altri compagni avevano subito episodi di abusi in quella medesima circostanza.

Ovviamente l’incontro era stato videoregistrato e nonostante nessun atto di violenza fosse stato compiuto dall’operatore, il 39% dei ragazzi, dopo aver saputo dei comportamenti molesti subiti da altri, confermava di essere stato sottoposto al medesimo trattamento, muovendo quindi le accuse a carico del finto colpevole.

Al di là di ciò che evidentemente provochi la falsa accusa giudiziaria, il fulcro dell’analisi si incentra sulla convinzione di una verità fittizia a fronte della suggestione con cui tali episodi venivano narrati dall’interlocutore. Ed ecco che è lampante la compromissione dell’obbiettività del giudizio laddove il processo, nella sua funzione di indagine sulla realtà passata, si mischia ad elementi totalmente estranei ad essa.

Se da un lato però il rischio di confondere la realtà con la fantasia nonché il mescolarsi di entrambi in un’unica struttura è quanto più frequente, e non solo in tenera età, dall’altro lato l’impalcatura del falso sembrerebbe avere un’unica direzione. Difatti, si pensi all’ipotesi in cui la testimonianza inevitabilmente traumatica del vissuto non comporti l’individuazione di un colpevole, nel qual caso non viene messa in discussione, essendo particolarmente complesso dubitare di un ricordo assente.

Al contrario, quando il racconto traumatico comporta l’individuazione dell’autore del reato, viene sospettato di essere falso e frutto della suggestione, facendo sorgere una serie di questioni di primaria importanza a cui il Legislatore e la Giurisprudenza hanno cercato di fornire soluzione.

Nel limbo processuale del “vero o falso”, si inseriscono quei meccanismi volti a sciogliere il binomio oggettivo/soggettivo della prova, qualora questa consista nell’esame testimoniale del minore e, al fine di preservare l’incolumità di un ricordo sincero, i metodi di intervista dell’esame testimoniale costituiscono il punto di partenza per una testimonianza autentica e aderente alla realtà.

Innanzitutto, il codice, all’art. 498 comma 4 c.p.p., prescrive che l’esame testimoniale venga condotto dal Giudice qualora si tratti di un testimone minorenne, in deroga alle ordinarie modalità che prevedono l’intervento diretto del pubblico ministero e del difensore.

La lungimiranza della previsione legislativa consiste nell’attribuzione ad un soggetto super partes del compito di preservare l’integrità non solo dello status psicologico del minore ma anche dell’intero impianto giudiziario, ponendo al riparo da contaminazioni esterne il tessuto probatorio.

Vestitosi da garante di principi fondamentali, il Giudice eviterà l’influenza insita nelle funzioni delle parti processuali, quali il difensore e pubblico ministero, tipico della coss-examination e permetterà (o dovrebbe permettere…) l’evocazione di un ricordo spogliato da suggerimenti e influenze esterne. Alternativamente, potranno procedere all’esame diretto il pubblico ministero e il difensore qualora tale modalità operativa non nuoccia alla serenità del piccolo teste.

Ed ecco che, chicchessia colui che conduce l’esame, occorrerà prestare attenzione ai parametri entro cui condurre l’indagine sul fatto in sede testimoniale, ben diversi da quelli utilizzati nell’approccio ad una mente adulta. Si pensi ad esempio alle tecniche più comunemente praticate dall’accusa e dalla difesa nella dialettica dell’esame testimoniale e alla loro capacità di incidere sulla valutazione del Giudice. Il difensore potrà concentrarsi sugli aspetti più dettagliati non solo del fatto ma anche delle circostanze in cui si è verificato, come quelle di tempo e di luogo, domandandone i dettagli in modo da insinuare quel “dubbio ragionevole” sulla colpevolezza dell’assistito: “com’era la stanza? C’erano altri mobili oltre al divano? La porta d’ingresso era chiusa o socchiusa?”. In questi casi, se le risposte lacunose dell’adulto possono effettivamente far vacillare l’attendibilità dell’intera deposizione testimoniale, agli occhi dei più esperti simili quesiti non potrebbero mai costituire oggetto del ricordo infantile poiché provocano unicamente risposte confuse e quanto più lontane dall’interesse processuale, finendo per sortire l’effetto opposto a quello insito nella strategia della parte interrogante.

A ciò deve aggiungersi un ulteriore elemento: il flusso di comunicazione tra adulti risponde a standard lessicali e comportamentali ben diversi da quelli della comunicazione infantile. Il rischio che sottende a domande complesse e particolarmente articolate è quello di non permettere al minore di comprendere la domanda, con la conseguenza che la genuinità della risposta diminuisce a fronte della naturale propensione del bambino ad assecondare l’adulto, ampliando la distanza naturale tra la deposizione testimoniale e l’accertamento del vero. Proprio per la fragilità dell’impianto mnemonico infantile e per il rischio di una sua manipolazione a fronte di domande mal poste, la competenza richiesta agli operatori processuali è elevata ed estremamente importante.

Le regole sono semplici e uguali per tutti: nessuna domanda suggestiva altrimenti il ricordo si altera, nessun legame personale con l’interlocutore altrimenti la memoria è influenzata.

Diversi studi sul tema hanno dimostrato ad esempio come la proposizione di domande chiuse del tipo si o no a soggetti minori, frequentemente utilizzate nell’esame testimoniale degli adulti, nella quasi totalità dei casi determinano risposte fittizie, laddove l’80%/100% dei bambini, di fronte alla doppia alternativa, ne scelgono una a prescindere dal contenuto della domanda. 3

Il problema dell’inquinamento delle risposte a fronte delle aspettative che l’adulto pone sul ricordo infantile, dipende dunque, in buona parte, dalla modalità con cui il quesito è posto.

Come ha specificato la Giurisprudenza della Cassazione, “si verifica un meccanismo per il quale il bambino, asseconda l’intervistatore e racconta quello che lo stesso si attende o, teme, di sentire” e l’adulto, che crede di voler sapere, in realtà “trasmette al bambino un’informazione su ciò che ritiene sia successo”. 4

La distorsione del racconto infantile, la sua ripetizione del ricordo e il tempo trascorso dal suo verificarsi sembrerebbero risolversi innanzitutto nell’espletamento di una perizia volta ad indagare “la capacità di recepire le informazioni del minore, nonché di ricordarle ed esprimerle in una visione complessa5.

È ovvia l’importanza dell’incarico peritale nel caso concreto: accertare se, in base a parametri scientifici, quanto ciò che il minore riporta corrisponda ad una percezione della realtà depurata dai meccanismi della mente infantile.

In questo senso, la funzione dell’incarico peritale si estrinseca nelle due direzioni di accertamento dell’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo” e della “sua credibilità”6.

Si badi che la definizione del contenuto dell’indagine peritale è questione dibattuta e quanto più delicata poiché, presentando confini sfumati e sovrapponibili, rischia il più delle volte di invadere la sfera del potere giudiziario (ovvero decidere se il bambino dice il vero oppure no), che in quanto tale appartiene ad un solo e unico soggetto processuale ovvero al Giudice.

Orbene, nessuna commistione dei ruoli sarebbe dunque ammessa: la valutazione dei fatti è riservata esclusivamente al Giudice, laddove al perito spetta un’indagine esclusivamente orientata agli aspetti psicologici e clinici del minore e della sua credibilità, appunto, clinica.

Come spesso accade però, l’astrattezza legislativa deve scontrarsi con una prassi disattenta e quanto più superficiale: nonostante la Carta di Noto sulle “Linee guida per l’esame del minore” sancisca espressamente che “all’esperto non deve essere sottoposto un quesito volto all’accertamento della verità sotto il profilo giudiziario”, 7in innumerevoli casi, esaminati su base statistica, il perito fuoriesce dalla cornice normativamente e giurisprudenzialmente definita.

In 12 incarichi su 20 l’indagine attiene all’inferenza comportamentale del minore rispetto all’episodio di violenza, chiedendo ai periti ad esempio di accertare “se i vissuti ed il quadro della personalità siamo compatibili con abusi di natura sessuale dai medesimi patiti”.

L’effetto nocivo di un simile modus operandi è evidente e quanto più in contrasto con l’intero apparato processuale di costruzione dell’impianto probatorio: condurre l’analisi partendo dal fatto contestato all’imputato per poi domandarne una valutazione di compatibilità comportamentale di chi l’ha subito, significa sradicare la funzione probatoria della testimonianza, che viene introdotta nel processo al fine di avere un riscontro oggettivo del fatto per il quale si procede. In un sistema di funzionalità dimostrativa della prova infatti, ciascun elemento dovrebbe considerarsi idoneo a dimostrare di per sé quanto accaduto realmente, e non invece determinare una ricerca direzionata e a priori delle prove.

Orbene, se non v’è dubbio sull’impostazione del processo accusatorio e della sua tensione all’accertamento di una verità che, lungi dall’essere considerata “assoluta”, corrisponda al più alto grado di certezza possibile, dall’altro lato la scorretta gestione della testimonianza del minore confligge con l’accertamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Ed è proprio dinnanzi a tanta “anarchia metodologica” che si crea un intoppo all’esigenza di accertamento della verità, sempre più lontana dalla concretezza fattuale oggetto della vicenda giudiziaria, e sempre più vicina ad un pericoloso falso processuale posto a fondamento della decisione del Giudice.

L’indebolimento della dimensione oggettiva della prova rispetto a quella dichiarativa del minore, è questione dibattuta e quanto più complessa, soprattutto se si considera la diffusa definizione del teste minore come “teste vulnerabile”. Come potrebbe, infatti, ammettersi una prova “debole” in un impianto giudiziario solido? E come tale prova dovrebbe valutarsi rispetto all’esigenza di accertamento del fatto e agli altri elementi posti a fondamento dell’accusa? la testimonianza del minore vale meno di quella di un adulto?

Se non v’è dubbio che il riferimento alla vulnerabilità della testimonianza svuota di rilevanza la prova dichiarativa del minore rispetto alle ipotesi in cui a renderla sia un soggetto adulto, dall’altro lato il rigoroso rispetto dei protocolli operativi garantirebbe indubbiamente una più alta aderenza della prova ad ognuno dei principi fondamentali del processo penale.

Così, la direzione del ricordo infantile, scandita ora dalla competenza dell’esaminatore alla formulazione dei quesiti ora dalla capacità dell’autorità giudiziaria di valutarne l’attinenza al fatto, nonché il trattamento che ne subisce, dovrebbe spogliarsi di qualsiasi valutazione denigrante che la rende assurdamente una prova “minore”, ma anzi costituire la base di una prassi più attenta alla tendenza del “ricordare raccontando” dei piccoli testi per la costruzione di un impianto processuale aderente al vero.

1 A questo riguardo si pensi però che ancora oggi da tribunale a tribunale varia l’ordine con il quale si effettua la verifica della capacità a testimoniare del minore e l’audizione dello stesso sui fatti di causa ed ancora si discute se il perito che effettua la valutazione sulla capacità a testimoniare debba essere o meno quello che poi affiancherà il Giudice nell’audizione del minore.

2 G. Carofiglio, L’arte del dubbio, pag. 50.

3 G. Sartori, La memoria del testimone, dati scientifici utili a Magistrati, Avvocati e Consulenti, pag. 349.

4 Cass. Pen., Sez III, 8 Marzo 2007. n. 121.

5 Cass. Pen. sez. III, 3 ottobre 1997, n. 8962.

6 Cass pen. sez III, 3 Ottobre 1997.

7 Art. 2 Carta di Noto.

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