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Abbiamo già affrontato in diversi articoli del sito l’attuale tema della violenza domestica e della c.d. violenza di genere (fino al femminicidio) quale fenomeno trasversale ed in preoccupante aumento.
Recentissimo è l’intervento del Governo con il Decreto Legge n. 93/2013 entrato in vigore nel mese di agosto.
Affrontiamo in questa breve disamina (alla luce di una recente Sentenza di merito del Tribunale di Foggia) il reato ex art. 572 c.p. ovvero di maltrattamenti contro familiari conviventi.
Il nucleo del reato prevede la pena della reclusione da due a sei anni per colui che maltratta (la norma utilizza proprio tale vocabolo) una persona della famiglia o, comunque, convivente (sono altresì previste altre ipotesi del medesimo reato in danno di persone affidate per educazione, cura e vigilanza all’offender). La norma in oggetto, inoltre, prevede degli inasprimenti di pena nel caso in cui dai maltrattamenti derivino lesioni personali gravi, gravissime o la morte della vittima (in tale caso la pena è da dodici a ventiquattro anni di reclusione).
Il Legislatore – come era logico che fosse – non tipizza in alcun modo le condotte maltrattanti essendo le stesse astrattamente realizzabili nelle più diverse forme.
Ovviamente, i maltrattamenti (ed anche le lesioni intese come danno all’integrità psico-fisica della persona offesa) possono essere sia fisici che morali (minacce, offese etc.).
Si deve trattare, in ogni caso, di una condotta che l’agente deve ripetere per un lasso di tempo apprezzabile ovvero non una tantum; invero, solo la prosecuzione nel tempo degli episodi di maltrattamento realizza quella abitualità necessaria per la configurazione del reato in parola (che, appunto, è considerato tecnicamente un reato c.d. abituale).
Un episodio isolato di violenza verbale o fisica (benché agito in un contesto “domestico”) realizzerà una diversa forma di reato (quale, ad es, l’ingiuria, la lesione, la minaccia) ma non già quella di maltrattamenti che, come detto, richiede che le condotte dell’offender in danno della vittima si realizzino con una certa costanza nel tempo.
Il maltrattamento, quindi, per il codice penale è punibile come tale quando lo stesso non si concretizza in un episodio isolato o assolutamente saltuario; ma solo se abbia a ripetersi nel tempo.

L’esame del Giudice nel corso del processo, quindi, dovrà vertere sia in relazione ai singoli episodi sia volto ad accertare la “consequenzialità” e ripetitività degli stessi.

Peraltro, è proprio la predetta ripetizione (l’abitualità) che è effettivamente idonea a cagionare nella vittima quello stato di soggezione e vessazione (vissuta ed agita nel contesto familiare) che la norma intende reprimere e prevenire.
E’ evidente, invero, che un episodio astrattamente maltrattante (un litigio, un’offesa fin’anche un’azione violenta) non pare poter generare quello stato di continua e prolungata (o, comunque, cronologicamente apprezzabile) prostrazione fisica e/o psicologica che caratterizza la vittima di maltrattamenti in famiglia (rimarrà – va da sé – la rilevanza penale della condotta dell’agente ma per un altro titolo di reato punibile a prescindere dalla richiamata abitualità).

Naturalmente, se il fatto di violenza verbale e/o fisica sebbene isolato (in riferimento al passato) rappresenta l’inizio di una serie di condotte violente agite in maniera ripetuta (successivamente), il reato di maltrattamenti si realizzerà in maniera perfetta (e l’agente punito per il singolo episodio iniziale potrà eventualmente essere processato per maltrattamenti in esito alle successive condotte maltrattanti reiterate culminate con una seconda denuncia della vittima).

In tema di necessaria abitualità degli agiti maltrattanti per la configurazione del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) riportiamo la recente e chiara massima qui evidenziata:
“….La fattispecie incriminatrice contemplata dalla norma di cui all’art. 572 c.p. si sostanzia in una serie di reiterati atteggiamenti di violenza, sia fisica che morale tali da integrare una condotta sistematicamente vessatoria nei confronti della persona offesa. Ai fini della configurabilità del reato, pertanto, si rileva necessario provare sia la sussistenza di tali condotte, che la reiterazione delle stesse, non potendosi sussumere nella previsione incriminatrice della richiamata norma quelle condotte che seppure violente e minacciose, non presentino in carattere della episodicità. Il delitto di maltrattamenti in famiglia, pertanto, deve essere escluso ogni qualvolta, come nel caso di specie, il rapporto tra i coniugi, seppure conflittuale e spesso contrassegnato da insulti reciproci non sia mai stato caratterizzato da maltrattamenti o vessazioni sistematiche, poiché ivi non raggiunta la prova dei profili ontologici del reato contestato. (nella specie la stessa persona offesa ha escluso che vi fossero stati inadempimenti da parte dell’imputato circa gli obblighi di mantenimento del nucleo familiare, ovvero minacce o altre condotte di coartazione nei confronti suoi o dei figli, per cui deve farsi luogo a una pronuncia assolutoria per insussistenza del fatto)…”

Tribunale di Foggia, sentenza del 19 marzo 2013 n. 141. (massima pubblicata su “Guida al diritto” n. 31 del 27 luglio 2013).

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