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Il Senato ha definitivamente approvato il teso licenziato dalla Camera ed il Decreto Legge 93/2013 è divenuto legge a tutti gli effetti.
In altri articoli del sito è già stato analizzato dettagliatamente il testo del Decreto divenuto legge che si compone di 12 articoli e che con parziali ma incisive modifiche del codice penale e di procedura penale ha lo scopo di rafforzare la tutela contro la violenza agita in danno delle donne (sul fronte dello stalking e dei maltrattamenti in famiglia) e di un’altra fascia c.d. “debole” ovvero gli adolescenti (e ci riferiamo ai provvedimenti contro il cyber bullismo).
E’ chiaro che il tratto di penna del Legislatore non può e non ha lo scopo di eliminare un triste e diffuso fenomeno sociale; ma è fuori di dubbio che le norme di cui trattiamo rappresentano un importante traguardo di fronte alla effettivamente dilagante vittimizzazione delle donne che nella grande maggioranza dei casi rimangono vittime di reati compiuti da soggetti ai quali sono legate sentimentalmente (o lo sono state) o, comunque, a loro noti e conosciuti.
L’opportuno e lodevole intervento del Legislatore, tuttavia, implica delle “fragilità” e delle potenziali lesioni dei diritti dei cittadini come spesso accade in seguito all’emanazione di provvedimenti normativi sull’onda di una impellente emergenza sociale ed a fronte di una sempre maggiore richiesta di tutela da parte della società civile.
E’ inevitabile, invero, che un potenziamento della tutela di alcuni diritti (anche di primario livello costituzionale come nel caso di specie come la vita e l’integrità fisica) si accompagni ad una più spedita e robusta compromissione dei diritti (anch’essi di rango costituzionale come la libertà personale) dei soggetti accusati.
Questo è un aspetto che bisogna sempre tenere presente poiché l’esistenza di una accusa non implica matematicamente che la stessa sia fondata o che lo sia nei termini esatti con i quali viene rappresentata e sostenuta dalla vittima.
Peraltro – e sul punto abbiamo già osservato in altro articolo – lo stalking ed i maltrattamenti in famiglia sono reati che per la loro natura (soprattutto il secondo) si innestano in una relazione interpersonale che unisce la vittima e l’offender in un rapporto fatto di reciproche influenze, implicazioni ed interessi con conseguenti biunivoche e complesse interazioni (ricordiamo tutti sicuramente, e lo si cita a titolo di esempio della complessità del substrato emotivo e psicologico dei reati di cui qui trattiamo, il caso di quella ragazza che dal letto di ospedale – poiché brutalmente aggredita dal fidanzato – si preoccupava delle conseguenze negative che il compagno avrebbe passato in seguito alle lesioni che le aveva inferto…).
In tale quadro si verifica spesso – e questo è un dato di fatto e non una interpretazione difensiva a priori – che gli strumenti offerti dal Legislatore (soprattutto in sede penale) siano utilizzati strumentalmente dai soggetti coinvolti in vista di un obbiettivo primario “satellite” rispetto a quelli propri della tutela penale: si pensi alle accuse (e di conseguenza ai procedimenti penali) che i coniugi spesso si contestato durante la separazione giudiziale al fine di rafforzare la propria posizione avanti al Giudice del procedimento civile (i Tribunale letteralmente “traboccano” di procedimenti penali che coinvolgono ex coniugi in fase di separazione personale).
In tale ottica – ovvero la delicatezza della disciplina delle nuove disposizioni di legge contro il femminicidio già emanate con il Decreto Legge 93/2013 – accenniamo in questa sede all’obbligo dell’arresto in flagranza nel caso di ipotesi delittuosa di maltrattamenti in famiglia.

La disposizione è quanto mai opportuna ma sul piano pratico di non facile attuazione.

L’arresto dovrebbe seguire all’intervento delle forze di polizia che dovrebbero sorprendere l’offender intento a consumare un atto maltrattante (questa sarebbe l’interpretazione rigorosa dello stato di flagranza). E’ evidente che tale approccio svuoterebbe la norma di ogni valenza poiché ben difficilmente accade che l’agente sia sorpreso materialmente mentre sottopone la vittima ad un maltrattamento (che si può consumare in pochi istanti sebbene episodicamente reiterato nel tempo: si pensi ad una percossa che si esaurisce in pochi secondi sebbene ripetuta quasi quotidianamente).
O, ancora, si consideri che non tutte le singole condotte unitariamente considerate come maltrattamenti rappresentano un reato di tal che l’intervento della polizia in occasione del singolo atto non penalmente perseguibile (ma illegale se considerato quale tassello della catena di condotte che considerate nella loro totalità causano l’afflizione tipica dei maltrattamenti in famiglia) non legittimerebbe l’arresto in flagranza.
In tali situazioni sarà la sensibilità e l’esperienza delle forze di polizia prima e dei magistrati poi (PM e GIP) a sopperire alle inevitabili lacune pratiche della norma da attuare.
Sensibilità che, tuttavia, esporrà conseguentemente i soggetti coinvolti (sia l’asserita vittima che l’accusato) a possibili errori attuativi (tanto maggiori e frequenti, come detto, nel campo dei reati che quasi sempre coinvolgo soggetti che hanno in corso o hanno avuto un legame sentimentale).
In tema di arresto obbligatorio in flagranza con l’accusa di maltrattamenti in famiglia in occasione di una condotta di per sé non reato (e, quindi, per sottolineare come anche l’accusato sia esposto ad un uso strumentale delle norme appena introdotte oltre che soggetto agli errori di interpretazione ed attuazione delle norme stesse da parte degli operatori di polizia e dei Magistrati) citiamo qui sotto una recente sentenza della Sezione VI della Corte di cassazione ( Sentenza 9 maggio – 8 agosto 2013 n. 34551).
 

“….Poiché gli atti in cui concreta il reato di maltrattamenti non devono necessariamente tutti sostanziare singole autonome ipotesi di reato, è ben possibile procedere all’arresto in flagranza dell’autore del reato quando gli operanti della polizia giudiziaria abbiano diretta percezione di un “segmento” commissivo della condotta che, pur non integrante ex se reato, risulti non indifferente nell’ottica volta a dimostrare sul piano indiziario l’ipotesi di reato. (Nella specie, la Corte, accogliendo il ricorso del Pubblico Ministero ha annullato ritenendo l’arresto legittimamente avvenuto, il provvedimento con cui, invece, il Gip non aveva convalidato l’arresto ritenendo che questo era stato eseguito a significativa distanza di tempo dall’ultimo “segmento” della condotta delittuosa , ritenendo erroneamente che la condotta tenuta dall’indagato e dagli operanti direttamente percepita – l’aver tentato di aprire lo sportello dell’autovettura di servizio ove si trovava la vittima – non aveva autonomo rilievo penale)…”

(Articolo redatto dall’Avv. Giuseppe de Lalla; massima della Sentenza estratta da “Guida al diritto” n. 40, 5 ottobre 2013).

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