Il concetto medico di capacità di intendere e di volere si discosta da quello prettamente Giuridico. La Corte di cassazione precisa le differenze tra le due interpretazioni e la necessità di una perizia anche a fronte del Giudice peritum peritorum.
Abbiamo già trattato in altre pagine del sito della natura, della tipologia e delle condizioni di applicazione delle misure cautelari personali coercitive (art. 280 e ss c.p.p.) ovvero quelle forme di restrizione della liberta dell’indagato/imputato antecedenti all’esecutività della sentenza di condanna.
E’ bene sottolineare immediatamente che la restrizione della libertà prima che l’accusato sia condannato in via definitiva è l’eccezione poiché – per precisa disposizione costituzionale, l’art. 13 – la libertà di ogni cittadino è inviolabile e lo stesso può godere (anzi: deve) della presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva.
Il codice di procedura penale agli artt. 272 e ss prevede e disciplina le condizioni di applicazione delle misure cautelari (coercitive e non coercitive) specificando che tali rimedi sono applicabili solo in presenza di due condizioni essenziali:
– Devono essere riscontrabili gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.);
– Devono essere riscontrabili specifiche esigenze cautelari ovvero (art. 274 c.p.p.):
Il pericolo di inquinamento probatorio (e in tale ipotesi non rientra il diritto al silenzio dell’accusato);
Il pericolo che l’accusato si dia alla fuga;
Il pericolo che il soggetto accusato reiteri il reato.
Particolari discipline sono previste per la tutela dei soggetti accusati che si trovano in precarie condizioni di salute (il codice fa riferimento espresso alla sindrome da immuno deficienza acquisita o HIV) e per le madri con prole di età inferiore ad anni tre (o i padri che non possono contare sull’aiuto della madre nell’accudimento dei figli).
Le misure cautelari coercitive:
– possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore – nel massimo – a tre anni.
– La custodia cautelare in carcere può essere applicata solo per delitti consumati o tentati per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Le misure cautelari personali coercitive (ovvero, come detto, quelle maggiormente afflittive per l’accusato poiché ne limitano fino a sopprimerla del tutto la libertà personale artt. 280 e ss c.p.p.) sono:
– Divieto di espatrio (art. 281 c.p.p.);
– Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (c.d. obbligo di firma, art. 282 c.p.p.);
– Allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.);
– Divieto o obbligo di dimora in un dato comune (art. 283 c.p.p.);
– Arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.);
– Custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p., per espressa volontà del Legislatore la misura custodiale può essere applicata quando qualsiasi altra misura risulta non idonea);
– Custodia cautelare in luogo di cura (art. 286 c.p.p., se l’accusato è un infermo di mente).
La breve sintesi della tipologia delle misure cautelari personali coercitive (trattate ampiamente in altra sede del sito) è utile per illustrare i passaggi procedurali caratteristici dell’applicazione delle predette misure e – soprattutto – le modalità con le quali le parti (PM e difesa) possono richiederne la modifica e la revoca.
La misura cautelare nasce con la richiesta del PM: la pubblica accusa – raccolti gli indizi e riscontrata una o più delle esigenze cautelari sopra illustrate – avanza motivata istanza al GIP (il giudice per le indagini preliminari che nella fase delle indagini è il Giudice terzo rispetto all’accusa ed alla difesa) di applicazione della misura a carico dell’indagato.
La richiesta, ovviamente, NON è comunicata all’indagato che, consapevole di correre il rischio di essere sottoposto alla misura cautelare, si potrebbe dare alla fuga o frustrane comunque gli scopi in altra maniera.
Letta la richiesta ed analizzati gli elementi di prova forniti dal PM, il GIP – se ritiene che le condizioni di legge siano soddisfatte – emette l’Ordinanza motivata di applicazione della misura cautelare coercitiva e ne ordina l’esecuzione a mezzo della PG (la Polizia Giudiziaria).
La PG notificherà all’interessato l’ordinanza e contemporaneamente ne darà esecuzione (eventualmente traducendo l’indagato in carcere).
L’ordinanza verrà notificata anche al difensore dell’indagato (evidentemente subito dopo proprio per evitare che colui il quale deve essere sottoposto alla misura cautelare ne abbia prima notizia dall’avvocato).
Quindi, l’accusato avrà notizia della misura cautelare emessa a suo carico solo quando sarà sottoposto alla stessa.
L’adempimento procedurale successivo è l’interrogatorio di garanzia (ex art. 294 c.p.p.) al quale è sottoposto l’accusato entro e non oltre cinque giorni dall’esecuzione dell’ordinanza di applicazione della misura cautelare.
In tale lasso di tempo, per la migliore difesa del proprio assistito, è necessario che il difensore:
– Provveda a fare copia degli atti presso la cancelleria del GIP (gli atti sui quali si basa la richiesta e l’emissione dell’ordinanza);
– Incontri il proprio assistito in previsione dell’interrogatorio imminente per pianificare la più opportuna linea difensiva.
All’interrogatorio di garanzia parteciperanno:
– Il GIP, ovviamente;
– L’indagato;
– Il difensore;
– Il cancelliere per la redazione del verbale;
– La stenotipista che registrerà integralmente l’interrogatorio (che poi verrà trascritto).
L’interrogatorio si apre con l’illustrazione all’accusato da parte del GIP degli elementi a suo carico sui quali si basa l’ordinanza applicativa.
Seguono poi gli avvisi di legge tra i quali quello di potersi avvalere del diritto di non rispondere.
Il Giudice, poi, porrà, all’accusato le domande che riguarderanno gli elementi già oggetto della richiesta del PM e del provvedimento del medesimo GIP.
Al termine delle domande del GIP, potranno essere rivolte ulteriori domande dal difensore.
In quella sede (ovvero durante l’interrogatorio di garanzia) il difensore potrà anche avanzare – quale atto conclusivo dell’interrogatorio – eventuali istanze di revoca/sostituzione della misura in atto.
Se il difensore avanzerà istanza motivata di revoca o sostituzione (secondo l’art. 299 c.p.p.) il Giudice si riserverà di provvedere entro ulteriori cinque giorni dopo aver acquisito il parere del PM sulla richiesta (parere non vincolante per il GIP).
E’ evidentemente impossibile indicare quale sia la migliore linea difensiva in questa fase (richiesta del PM, applicazione e interrogatorio di garanzia) dal momento che ogni caso, ogni accusa, ogni accusato ed ogni vicenda (ed ogni Giudice) richiedono un esame ed un approccio ad hoc da parte di ciascuna parte coinvolta.
Nell’ottica difensiva, tuttavia, un approccio è SEMPRE opportuno: preparazione, preparazione e ancora preparazione.
Conoscere gli atti, studiare ogni documento, incontrare il proprio assistito prima dell’interrogatorio ed avere già una linea difensiva chiara, precisa ma duttile evitando improvvide improvvisazioni consapevoli che quello che viene detto (…e non detto…) sarà patrimonio del procedimento fino alla Sentenza definitiva.
In ogni caso, è sempre meglio raccomandare al proprio assistito di tacere piuttosto che rispondere alle domande del GIP riferendo circostanze del tutto inverosimili (anche perché l’indagato potrà successivamente dare il proprio eventuale contributo magari con una memoria difensiva).
E’ bene sottolineare che la richiesta di revoca o sostituzione della misura avanzata (dal difensore) ex art. 299 c.p.p. durante l’interrogatorio di garanzia è rivolta al medesimo GIP che ha già:
– Visionato gli atti dell’accusa in sede di analisi della richiesta di applicazione della misura cautelare coercitiva;
– Ha già preso una prima risoluzione adottando l’ordinanza di applicazione richiesta dal PM (evidentemente condividendone le determinazioni accusatorie).
Il difensore, quindi, si trova al cospetto di un interlocutore che ha già preso una posizione e avanzare una richiesta di revoca o modifica della misura avrà un senso solo se poggerà su una rilettura plausibile e motivata di quanto posto dal PM alla base della misura e/o – soprattutto – su elementi nuovi che il GIP potrà apprezzare per la prima volta grazie all’intervento della difesa.
Tali nuovi elementi potranno riguardare sia la tenuta del coacervo indiziario sia l’effettiva cogenza e portata delle esigenze cautelari.
Dovranno avere una forza persuasiva tale da scavalcare le argomentazioni della pubblica accusa (condivisa dal GIP sl momento dell’emissione dell’ordinanza di applicazione della misura) che ha avuto molto più tempo e molti più mezzi per reperire gli elementi a carico dell’indagato: davvero un compito arduo per il difensore.
In relazione alla richiesta di revoca o modifica della misura (come visto, disciplinata dall’art. 299 c.p.p.), il difensore può – in ogni momento – proporre la richiesta al GIP; quindi, non solo in sede di interrogatorio di garanzia ma anche successivamente durante il corso delle indagini preliminari.
La difficoltà è sempre la medesima: “convincere” il GIP che ha emesso la misura che gli elementi posti alla base del provvedimento invocato ed ottenuto dal PM (indizi ed esigenze cautelari) sono venuto meno o si sono attenuati.
Si consideri che il compito è sempre arduo; prima di tutto poiché il difensore non dispone dei mezzi (e del tempo) della pubblica accusa e spesso non può contare nemmeno sulla piena collaborazione dell’assistito (magari straniero e con oggettivi limiti culturali) che si trova in carcere ed anche poiché un rigetto del GIP equivale ad un “irrobustimento” dei presupposti della misura cautelare applicata (ogni diniego, infatti, è la conferma delle ragioni dell’applicazione della misura).
A ciò si aggiunga che – come più volte ribadito dai Giudici – il decorso del tempo non ha alcuna influenza circa l’eventuale affievolimento della misura applicata.
A seguito del provvedimento di rigetto del GIP, il difensore può rivolgersi (entro 10 giorni ex art. 310 c.p.p.) al tribunale del riesame.
Il tribunale del riesame è istituito presso ogni distretto di Corte di Appello ed è costituito da tre giudici.
Il tribunale del riesame (o tribunale della libertà) si occupa precipuamente delle impugnazioni in tema di misure cautelari personali o reali (i sequestri) e può essere adito sia dall’accusa che dalla difesa che abbiano motivo di dissentire in ordine alle decisioni del GIP in materia di misure cautelari.
La difesa – dunque – potrà adire il tribunale del riesame:
– Ex art. 309 c.p.p. entro dieci giorni dalla prima applicazione della misura cautelare (richiesta del PM, provvedimento del GIP, interrogatorio di garanzia e successiva impugnazione della difesa al tribunale del riesame);
– Ex art. 310 c.p.p. (in sede di Appello avanti al Tribunale del riesame) entro dieci giorni dal provvedimento del GIP che ha rigettato una richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare (come abbiamo visto, la difesa può in ogni momento chiedere al GIP la richiesta o la revoca della sostituzione della misura cautelare).
E’ bene evidenziare ancora una volta che – sebbene la procedura penale preveda diversi meccanismi di controllo e riesame delle decisioni in tema di misure cautelari – la difesa deve avere la lungimiranza di NON reiterare richieste di revoca o sostituzione della misura in atto (al GIP, al tribunale del riesame ed anche alla Corte di Cassazione competente per ogni provvedimento relativo alla libertà personale) poiché ogni diniego della richiesta di revoca e/o modifica (magari a gran voce reclamata dall’interessato in vinculis) ha l’effetto deleterio (per l’accusato) di confermare i presupposti della misura e di produrre il c.d. GIUDICATO CAUTELARE (di consolidata “invenzione” giurisprudenziale) secondo il quale l’applicata misura cautelare – proprio a seguito delle conferme ricevute indirettamente dai rigetti consecutivi delle istanze di revoca o sostituzione – assume una solidità simile alle decisioni non più impugnabili.
La richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare deve essere avanzata (qualunque sia la sede) solo alla luce di una ponderata analisi di ogni aspetto della vicenda poiché il rigetto non equivale ad un sostanziale equilibrio della situazione procedural/processuale precedente; ma ad una conferma delle deduzioni dell’accusa già espresse nella richiesta della misura al GIP.
Riportiamo qui sotto un atto di Appello ex art. 310 al tribunale del riesame redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla a seguito di rigetto del GIP di richiesta di revoca o sostituzione della misura degli arresti domiciliari inflitti ad una donna indagata in un procedimento penale per circonvenzione di incapace (la vicenda sottostante, comunque, non ha rilievo in merito alle argomentazioni e all’approccio difensivo che in questa sede si vogliono mettere in luce).
Come si vedrà, l’atto ripercorre brevemente la “storia cautelare” dell’indagata e si basa su una analisi critica molto articolata che prende le mosse dall’atto applicativo della misura per attualizzarne (e contraddirne) gli elementi così come evidenziati dal GIP nel suo provvedimento di rigetto.
Così argomentando il difensore cerca di disarticolare le fondamenta del rigetto del GIP valorizzando tutti quegli elementi (anche e soprattutto sopravvenuti al momento di applicazione della misura) che il Giudice non ha valutato in alcun modo o ha superficialmente interpretato con una approccio – per la difesa – verificazionista.
Vediamolo:
ILL.MO TRIBUNALE DELLA LIBERTA’
DI *****
Sezione XII^ penale
Appello ex art. 310 c.p.p.
RGNR *****
RG GIP ******
Il sottoscritto Avv. Giuseppe Maria de Lalla del Foro di Milano difensore della Signora
****
nata …… domiciliata in Milano,…….. attualmente sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari presso l’abitazione della figlia in……..imputata nel procedimento penale indicato in epigrafe
PREMESSO
Che l’indagata è attualmente sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari come da ordinanza del Tribunale di Milano sezione XII^ penale in funzione di Giudice del riesame emessa in data ****;
Che l’indagata è sottoposta a misura cautelare (prima presso il carcere e poi presso il domicilio della figlia) a far data dal ****
RILEVATO
Che in data XXX la difesa presentava articolata istanza (che qui si richiama integralmente affinché il Tribunale possa prendere completa contezza delle argomentazioni difensive alla base delle richieste de libertate e che, pertanto, rappresenta un unicum con il presente atto) di revoca della misura cautelare o, in subordine, di sostituzione della stessa con modalità esecutive che permettessero all’indagata di allontanarsi da casa dalle 08,00 alle 12,00 e dalle 17,00 alle 20,00;
Che il PM dava parere favorevole;
EVIDENZIATO
Che in data XXX il GIP – preso atto del parere favorevole del PM – emetteva ordinanza di rigetto di tutte le richieste difensive e che i motivi alla base dell’impugnato rigetto venivano così articolati dal Giudice per le indagini preliminari:
1. che il quadro indiziario risultava essere il medesimo rispetto a quello che legittimava l’applicazione della misura originaria (la custodia cautelare) e che il coacervo indiziario risultava essere medio tempore confermato da codesto Tribunale (con il provvedimento del XXX che, in ogni caso, è bene osservarlo nell’ottica della valutazione delle esigenze cautelari che qui interessa, sconfessava lo stesso GIP ponendo l’allora indagata agli arresti domiciliari);
2. che l’immutato quadro indiziario non permetteva una rivalutazione prognostica maggiormente positiva rispetto al pericolo di reiterazione del reato;
3. che la richiesta di giudizio abbreviato proposta dall’imputata non poteva avere riflessi circa le esigenze cautelari (il GIP erra: l’imputata a seguito di decreto di giudizio immediato avanzava istanza di patteggiamento o, in subordine, di giudizio ordinario e non già di rito abbreviato);
4. che l’imputata in sede di interrogatorio (avanti al GIP ed avanti al PM) rilasciava dichiarazioni “edulcorate e banalizzati” dimostrando di non dissociarsi totalmente dalla condotta del correo e non collaborava fattivamente con gli inquirenti;
5. che il decorso del tempo non poteva intendersi da solo quale elemento di attenuazione delle esigenze cautelari;
6. che non rappresentava esigenza ex art. 284 comma III^ c.p.p. quella illustrata e documentata dall’istante di accompagnare la nipote all’asilo che dista circa 150 metri dall’abitazione;
7. che la necessità di effettuare esami ematochimici (certificata dal medico curante) non poteva essere valutata quale argomentazione valida a supporto delle richieste dell’istante essendo necessaria l’indicazione dei giorni precisi nei quali dovrebbero essere svolti tali esami medici
per tutto quanto sopra esposto ed evidenziato, il sottoscritto difensore con il presente atto intende proporre come, di fatto, propone
APPELLO
avverso tutti i capi ed i punti dell’ordinanza di rigetto del XXX emessa dal GIP presso il Tribunale di Milano – Dott. ZZZZ – nel procedimento penale RGNR ***** – RG GIP ***** notificata al difensore in data XXX per tutti i seguenti
MOTIVI
che verranno affrontati in maniera organica senza soluzione di continuità nel corpo del presente atto:
• Errata valutazione degli elementi concreti indici del pericolo di reiterazione del reato individuati erroneamente dal GIP sulla base di una interpretazione/distorsione di dati di fatto (esistenti) del tutto verificazionista e frutto, altresì, di una interpretazione in chiave meramente accusatoria degli elementi in tema di pericolo di reiterazione del reato emersi dalla data di applicazione della misura ad oggi (interrogatori dell’allora indagata compresi).
• Censurabile difetto di valutazione (anche eventualmente per contraddirli analiticamente e tecnicamente) di tutti gli elementi difensivi debitamente illustrati nella richiesta di revoca (o attenuazione) della misura.
• Mancata individuazione ed illustrazione degli elementi di fatto, oggettivamente riscontrabili, dai quali – secondo il canone ermeneutico dell’id quod plerunque accidit – sarebbe corretto dedurre l’effettivo e riscontrabile pericolo di reiterazione del reato ovvero rigetto della richiesta difensiva alla luce di elementi del tutto opinabili, privi di concretezza e frutto di un approccio solo verificazionista, non tanto e non solo del coacervo accusatorio, ma anche e soprattutto della condotta dell’imputata già oggetto di valutazione all’atto della richiesta di applicazione della misura del PM e successivamente tenuta dalla **** nel corso dei qui impugnati arresti domiciliari (concessi da codesto Tribunale ex art. 309 c.p.p.).
• Errata valutazione da parte del GIP in chiave meramente inquisitoria della relazione tra “dissociazione/confessione/collaborazione” dell’imputata e pericolo di reiterazione del reato.
****
Preliminarmente all’analisi dei singoli motivi di gravame (svolta, come detto, con diverse argomentazioni strettamente connesse), per la migliore interpretazione delle doglianze dell’imputata e delle condivisibili censure mosse all’ordinanza impugnata, occorre una breve sintesi dell’evoluzione cronologica della misura cautelare che da quasi cinque mesi è applicata alla ****.
– All’atto della richiesta della misura cautelare il PM evidenziava (nella sua richiesta) che le esigenze cautelari per i due indagati erano effettivamente di grado diverso e che quelle meno gravi a carico dell’odierna appellante avrebbero astrattamente permesso un trattamento meno afflittivo rispetto al carcere. Tuttavia, la misura custodiale – osservava il PM – doveva essere applicata difettando un domicilio ad hoc oltre a quello presso il quale i due indagati abitavano (nel medesimo palazzo abitato dalla p.o.).
– A seguito di un lungo interrogatorio avanti al PM, l’indagata avanzava istanza ex art. 299 c.p.p. e – benché intervenisse il parere favorevole del PM agli arresti domiciliari – il GIP emetteva ordinanza di rigetto.
– La difesa proponeva istanza di riesame ex art. 309 c.p.p. e codesto Tribunale (preso comunque atto della solidità del quadro indiziario) accoglieva in parte le argomentazioni difensive attenuando la misura in atto e disponendo gli arresti domiciliari.
– Successivamente, la difesa chiedeva un’autorizzazione affinché l’imputata partecipasse alle nozze della figlia e – benché in misura meno estesa di quella richiesta – tale autorizzazione veniva concessa.
– La *** veniva, altresì, autorizzata due volte a raggiungere lo Studio professionale del difensore con un permesso dalle 09,00 alle 12,00 (in atti).
– Nel mese di agosto la difesa chiedeva ed otteneva (per la verità con provvedimento di pugno del sostituto del GIP assegnatario) che la *** fosse autorizzata ad allontanarsi dal proprio domicilio nei giorni martedì e venerdì dalle 10,00 alle 12,00 (V. in atti ordinanza del 6.8.2013 a firma della Dott.ssa xxx).
– L’istanza di revoca della misura che dava adito all’Ordinanza che qui si impugna veniva emessa sconfessando – di fatto – il parere favorevole del PM (come avvenuto nel caso della prima richiesta rigettata di attenuazione della misura custodiale).
– Il provvedimento che qui si impugna è afflitto, peraltro, anche da un errore di fatto (la richiesta di giudizio abbreviato che l’imputato non ha mai avanzato) ed è per buona parte ricalcato (soprattutto in tema di collaborazione/confessione ed esigenze cautelari e stabilità del quadro indiziario ma non solo) su quello del medesimo GIP datato xxx riformato da codesto Tribunale.
Orbene, la cronistoria qui appena abbozzata delle vicende cautelari della **** evidenzia come il GIP, ogni qual volta è stato investito della richiesta di attenuazione della misura in atto (sia che si trattasse di quella custodiale sia di quella paradetentiva presso il domicilio), ha optato per il rigetto di ogni argomentazione difensiva.
Rigetto che interveniva sebbene il dominus dell’accusa ravvisasse un’attenuazione delle esigenze cautelari e benché il Tribunale del riesame confortasse (almeno in parte) le argomentazioni della difesa (evidentemente già condivise dal PM in occasione della prima richiesta di affievolimento della misura così come per l’istanza difensiva alla base del presente gravame).
Anche in questo caso, il GIP si è determinato a ravvisare un concreto pericolo di reiterazione del reato (e tale pericolo non può che essere per definizione codicistica “concreto” ovvero praticamente, almeno concettualmente, tangibile) valutando degli elementi:
– che non depongono affatto per quella concretezza che rende affidabile la prognosi e che richiede il Legislatore
– e nel contempo ignorando del tutto (attenzione: non già sconfessando ma passando del tutto sotto silenzio) i fattori (quelli si tangibili) posti dalla difesa quale presupposto della richiesta de libertate.
Tale approccio risulta viepiù fuorviante poiché la ***** è una imputata del tutto incensurata (e questa qualifica deve essere presa necessariamente in considerazione nella valutazione della volontà delinquenziale alla base della reiterazione criminale) oltre ad avere avuto nella dinamica del reato per il quale è ora imputata un ruolo secondario rispetto a quello del correo (e sul punto non pare potersi obbiettare alcunché anche solo alla luce della lettura dell’ordinanza applicativa della misura, della richiesta del PM e considerando anche la diversa sorte cautelare dei due imputati).
*****
Erra il GIP quando fonda il proprio rigetto alla luce dell’immutato quadro indiziario.
L’errore ha una natura sfaccettata.
Innanzitutto, è un errore giuridico di natura concettuale dal momento che l’istanza rigettata non indica in alcun passo la necessità di una revisione del quadro cautelare alla luce dell’indebolimento del coacervo indiziario.
L’istanza della difesa si basava su una valutazione realistica del pericolo di reiterazione del reato con una analisi prognostica su base concreta in tema di volontà/possibilità/determinazione dell’agente ad approcciare la p.o. (e, quindi, a reiterare il reato) e non già su una rinnovata analisi degli elementi a carico.
Il GIP utilizza un’argomentazione già spesa in altro rigetto venendo meno ad una puntuale (ovvero speculare ma opposta) argomentazione a contrario rispetto alle deduzioni difensive.
La robustezza del quadro accusatorio non può essere logicamente e giuridicamente indefettibile presupposto del pericolo di reiterazione del reato quando le ragioni di una prognosi positiva poggiano (come nel caso di specie e come illustrato dalla difesa nella richiesta rigettata) sul difetto di elementi concreti dai quali dedurre che l’offender (incensurato) ha l’intenzione, il vantaggio, le capacità e l’indole per intraprendere nuovamente condotte criminali sebbene appena scarcerato e sottoposto ad un procedimento penale in atto.
In difetto del confronto tipico del contraddittorio, mentre l’indagato/imputato è privato della libertà personale, al cospetto di intercettazioni ambientali e telefoniche, di servizi di OCP e di dichiarazioni di soggetti escussi solo dagli inquirenti in sede di SIT, è ovvio che il quadro indiziario tenda a rimanere immutato; ma ciò non implica che non possano affievolirsi le esigenze cautelari che devono essere valutate con parametri ulteriori rispetto a quelli tipici dell’affermazione della responsabilità penale (il quadro indiziario, appunto).
Sul punto bisogna osservare (e valutare con il dovuto realismo) che il Legislatore non ha posto quale presupposto delle misure cautelari i soli gravi indizi di responsabilità; bensì anche le effettive esigenze cautelari che sono un quid pluris.
Il provvedimento impugnato è strutturato in maniera tale da giustificare la costanza della misura in atto alla luce dei gravi indizi di colpevolezza presentando un vulnus profondissimo e insanabile in tema di reperimento, analisi e valutazione degli effettivi segnali (utilizzando una terminologia a-tecnica ma chiara) dai quali inferire (dato a…..allora b) l’effettivo e concreto pericolo che la *** avvicini nuovamente la p.o. (anche in questa sede si esorta il Tribunale a considerare – anche solo dalla lettura dell’ordinanza applicativa – che mai in nessuna occasione l’imputata interagiva con il XXXX o effettuava con lo stesso transazioni commerciali di tal che appare di ancor più ardua giustificazione una condotta dell’istante tesa ad interagire in questa delicatissima fase cautelare e processuale con la p.o.).
****
Il GIP erra anche perché non prende in considerazione quegli elementi di fatto dai quali dedurre l’affievolimento delle primitive esigenze cautelari.
Circa l’incensuratezza quale chiave di lettura di una volontà criminale così pervicace da vincere ogni cautela, abbiamo già detto.
Del ruolo della *** nella dinamica del reato per il quale sarà giudicata anche; così come della logica inutilità di approcciare nuovamente la p.o. con la quale – di fatto – interagiva esclusivamente il xxx.
Inoltre, sebbene chi scrive ben conosca la Giurisprudenza citata a profusione dal GIP in merito, vale la pena segnalare anche l’effetto deterrente della privazione della libertà (soprattutto per colui che mai è entrato nel circuito della giustizia penale) anche se protratto per “soli” tre mesi (ma saranno almeno cinque quando deciderà codesto Tribunale).
Rimane in ogni caso un mistero – e il GIP soprassiede sul punto – con quali accortezze la *** potrebbe interagire con la p.o. pensando di non compromettere la propria posizione sia quale imputata sia dal punto di vista della eventualmente riguadagnata libertà personale.
Peraltro – e questa è una argomentazione che ugualmente il GIP ha omesso di analizzare – gli spazi di autonomia e libertà di cui l’imputata ha potuto godere in costanza degli arresti domiciliari rappresentano (e questa concretezza contraddice del tutto le previsioni del GIP) un elemento fondamentale per il giudizio prognostico proprio della richiesta revoca.
L’imputata, anche tralasciando i permessi per recarsi dal difensore e quello per le nozze della figlia, ha potuto godere nel mese di agosto di otto permessi quotidiani di due ore ciascuno ed è ovvio che se fosse stata animata dall’irrefrenabile necessità (poiché solo una determinazione di tale genere l’avrebbe potuto spingere a correre tale rischio ora come allora) anche solo di contattare personalmente la p.o., avrebbe evidentemente approfittato di tali “finestre” di libertà.
Senza contare (e il GIP, infatti, nulla osserva) che la medesima impellente necessità avrebbe spinto la *** ad approfittare dei margini di libertà (anche comunicativi eventualmente) proprio degli arresti domiciliari.
Ignorando tali aspetti il GIP – con l’approccio verificazionista che ha contraddistinto ogni decisione in fase cautelare – omette di considerare dei dati di fatto univocamente interpretabili di segno opposto rispetto alle sue determinazioni.
*****
Il tema della mancata collaborazione e del difetto di una confessione nonché quello delle “distanze” prese dal correo e dal reato, non dovrebbe trovare spazio quale elemento portante di una che priva l’imputato della libertà prima di una sentenza di condanna.
Circa la mancata collaborazione e confessione basta menzionare il disposto dell’art. 274 lettera a) ultimo periodo introdotto dal Legislatore nel 1995 per arginare il triste e conosciuto fenomeno del “tintinnare di manette” che venivano strette ai polsi di coloro che non “aiutavano” gli inquirenti.
Ogni osservazione sul tema rischia di divenire retorica ma la valenza del principio deve essere condivisa poiché punto fermo di ogni decisione “non tossica” in tema di libertà personale: la confessione e la collaborazione non possono essere il prezzo del baratto per riacquistare la libertà.
Il GIP dimostra, peraltro, di cadere in quello che è chiamato “il dilemma del prigioniero”.
Il prigioniero che decide di confessare e spiegare agli inquirenti il suo coinvolgimento nei fatti che gli sono contestati (come ha fatto la ***) rischia concretamente di non essere creduto dagli inquirenti medesimi convinti di una ricostruzione diversa dei fatti.
La situazione di stallo può essere superata dal prigioniero che anela la libertà (rectius: il prigioniero tenterà di superarla) “avvicinando” la propria versione a quella che l’inquirente considera corretta modificando – almeno in parte – la prima versione del suo coinvolgimento.
A quel punto l’inquirente prenderà atto che il prigioniero con la sua prima versione gli ha mentito e questo non potrà che aumentare i dubbi dell’investigatore sulla credibilità del propalante (che, quindi, non sarà considerato meritevole della libertà).
E così via con un meccanismo astrattamente infinito (…e il prigioniero rimarrà in vinculis).
Ebbene, il GIP a seguito del veloce interrogatorio di garanzia e di quello successivo ben più approfondito rilasciato dalla *** al PM, prende atto che le dichiarazioni rese dall’imputata non collimano con l’impianto accusatorio (addirittura “superando” le conclusioni dello stesso PM favorevole alla libertà dell’imputata in questa fase) determinandosi così a leggere la mancata esatta sovrapposizione delle due ricostruzioni (la sua e quella dell’incolpata) quale elemento concreto di una non meglio dimostrata (poiché indimostrabile aliunde) determinazione dell’imputata a ripetere (con quali modalità e per quali scopi rimane territorio inesplorato dal Giudice) il reato del quale è accusata.
Censurabile è anche l’argomentazione del GIP che poggia sulla dissociazione solo labile ed ondivaga dell’imputata dal correo.
Innanzitutto, vale quanto sopra illustrato in tema di confessione.
Secondariamente, in base al principio costituzionale della stretta personalità della responsabilità penale appare illegittimo misurare (anche solo parzialmente) il grado di attribuibilità e gravità di una condotta penalmente rilevante adottando quale riferimento e metro di giudizio il grado di “distanza” dalla responsabilità penale e dalla condotta processuale (ma sarebbe meglio dire procedurale) altrui.
Inoltre, il concetto stesso di dissociazione è del tutto dissonante rispetto ai criteri oggettivi, concreti e riscontrabili che il Legislatore e la prassi impongono quali metri di giudizio per la valutazione prognostica propria delle misure cautelari (il Nuvolone sosteneva che “ai giuristi basta la psicologia degli ignoranti” sottolineando come spesso gli interpreti del diritto – inquirenti, giudicanti e, ovviamente, anche avvocati – utilizzino in maniera maldestra categorie che si avvicinano di più al foro interno che a quello strettamente giuridico).
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Il GIP non individuando elementi concreti in tal senso, illustra l’ attuale cogenza della misura degli arresti domiciliari desumendola da elementi puramente deduttivi (già sconfessati almeno in parte dal Tribunale in sede di riesame ed in contrasto con il PM) che poggiano le basi sugli indizi di reità ma dai quali nulla è possibile inferire circa la effettiva volontà della *** (e le concrete modalità ed i vantaggi concretamente raggiungibili dalla stessa) di avvicinare e raggirare il XXX (addirittura approfittando delle ore di permesso negate e della possibilità di portare la nipote all’asilo distante 150 metri).
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Per tutto quanto sopra esposto e rinviando anche all’illustrazione in udienza ed alla produzione di memorie difensive, il sottoscritto difensore
CHIEDE
Che l’Ill.mo Tribunale adito, in riforma dell’impugnata ordinanza Voglia:
IN VIA PRINCIPALE
Revocare l’attuale misura cautelare
IN VIA SUBORDINATA
Che la misura attuale sia sostituita con quella meno afflittiva dell’obbligo di presentazione alla PG territorialmente competente (CC di YYYY) con frequenza settimanale o con quella che il Giudice riterrà più opportuna
IN VIA ULTERIORMENTE SUBORDINATA
Che sia applicata la misura del divieto di dimora (e, quindi, di ingresso) nel Comune di xxx ex art. 283 c.p.p.
NEL CASO LA MISURA NON FOSSE REVOCATA (e, quindi, solo in vigenza degli arresti domiciliari), si chiede che l’imputata sia autorizzata ad allontanarsi dal proprio domicilio tutti i giorni dalle ore 10,00 alle 12,00 e dalle ore 16,00 alle 19,00 o con l’orario che il Tribunale riterrà più opportuno.
(l’articolo è stato redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla e ne è vietata qualsiasi riproduzione – anche parziale – ed utilizzazione se non a fini didattici e informativo).
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