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Pubblichiamo l’articolo di Carmelo Nicola Alioto pubblicato dall’Autore sui numeri di maggio e giugno 2017 della rivista “Polizia moderna” mensile ufficiale della Polizia di Stato (si riporta fedelmente il testo pubblicato sulla rivista comprese le numerose ed interessanti note a piè pagina). Si tratta di una attenta, approfondita e completa analisi sia storica/evolutiva che concretamente applicativa delle misure di sicurezza di cui agli artt. 199 e ss. del codice penale nonché del loro assetto sistematico all’interno del codice penale.

L’articolo affronta anche l’analisi dettagliata delle singole misure di sicurezza detentive e non detentive previste dal Legislatore.

Vi è poi un importante approfondimento circa le differenze e le analogie delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione.

Si tratta di un elaborato assolutamente esaustivo e tecnicamente ineccepibile dell’istituto delle misure di sicurezza.

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Articolo redatto da Carmelo Nicola AliotoLe misure di sicurezza nell’ordinamento penale.

1. Natura giuridica dell’istituto

Il legislatore negli anni ’30 ha introdotto nel codice penale una ulteriore sanzione al fine di eliminare la pericolosità sociale insita in determinate categorie di soggetti: le misure di sicurezza. Queste hanno inaugurato il sistema del doppio binario[1]. In particolare, da una parte vi è la pena che viene inflitta ad un soggetto, responsabile per aver violato la disposizione penale, come retribuzione e prevenzione generale dei reati, e, dall’altra, la misura di sicurezza la cui funzione è quella di neutralizzare la pericolosità sociale insita in determinate categorie di persone. Nel codice penale le misure di sicurezza conservano – “gli scopi, la natura, i caratteri dei provvedimenti similari che embrionalmente esistevano già nella legislazione precedente. Esse assumono soltanto una maggiore estensione ed un maggiore sviluppo dovuti alla elaborazione scientifica e legislativa”[2]. Le misure di sicurezza devono essere concepite come entità polidimensionale[3]. Anche secondo la costante giurisprudenza penale non v’è relazione di fungibilità tra la pena detentiva e una misura di sicurezza non detentiva (nella specie libertà vigilata provvisoriamente applicata), benchè quest’ultima sia caratterizzata da forti limitazioni della libertà di locomozione[4].La diversa funzionalità dei due istituti emerge anche in sede di applicazione e di durata temporale degli stessi; invero, mentre la pena è proporzionata alla gravità del fatto, la durata della misura di sicurezza era necessariamente indeterminata poiché si basa su un giudizio prognostico di pericolosità. La giurisprudenza penale sul punto chiariva che “l’applicazione di una misura di sicurezza, diversa dalla confisca, postula l’accertamento in concreto della persistente pericolosità sociale del soggetto anche nei confronti del condannato per partecipazione ad associazioni di tipo mafioso”[5]. La legge 30 maggio 2014, n.81 ha introdotto in proposito un’importante modifica stabilendo che “le misure di sicurezza detentive provvisori o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. Fino al 2014 il codice penale prevedeva una durata minima per il ricovero dei soggetti non imputabili che però era suscettibile di rinnovo fino all’avvenuto accertamento del venir meno della c.d. condizione di pericolosità sociale. La decisione di carattere discrezionale, volta al rinnovo e alla conferma della misura di sicurezza, poteva protrarsi sine die. Ogni sei mesi il giudice doveva operare la valutazione in merito alla pericolosità sociale del soggetto e qualora la stessa si fosse rivelata sussistente, la misura veniva rinnovata. Si parlava, infatti, di un vero e proprio “ergastolo bianco”[6]. Lo scopo che si è prefissato il legislatore è stato quello di delimitare l’applicazione della misura di sicurezza sia nell’an sia nel quantum. Invero, la pericolosità sociale, intesa nel senso di accentuata probabilità da parte del soggetto di commettere nuovi reati,  deve essere accertata in base ai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. considerati globalmente[7]. Sui criteri di accertamento il legislatore con l’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81 ha stabilito che la pericolosità sociale – da parte tanto del giudice di cognizione quanto del magistrato di sorveglianza – “è effettuata sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale”, cioè delle “condizioni di vita individuale familiare e sociale del reo”[8]. L’intento è quello di evitare che l’indigenza, il disagio familiare e sociale – cioè condizioni di marginalità e di abbandono – possano venire in gioco quali indici sui quali fondare il giudizio di pericolosità sociale dell’agente[9]. La legge n. 81 cit. inoltre prevede che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”. Il legislatore vuole evitare che l’internamento negli Opg e nelle Ccc possa dipendere da eventuali disfunzioni organizzative e, in particolare, dalla mancanza della possibilità di assegnare la persona interessata ai dipartimenti di salute mentale, cioè alle strutture non detentive facenti capo al servizio sanitario e dislocate sul territorio regionale. Vi è di certo che le misure de quo sono, infatti, concepite per non punire la colpevolezza di un reo ma per fronteggiare la pericolosità di un soggetto autore di un fatto di reato[10]. Pertanto, ove la pericolosità sociale attribuibile in capo ad un soggetto dovesse cessare, viene meno il principale, anche se non l’unico, presupposto applicativo delle misure di sicurezza. Queste ultime rappresentano il corollario della norma penale nella sua dimensione di garanzia, e non nella sua dimensione di comando[11]. Orbene, se la pena è rivolta agli imputabili e ai semi imputabili, la misura di sicurezza è applicabile anche ai non imputabili purchè socialmente pericolosi. In ordine a quest’ultimo requisito, autorevole dottrina argutamente ritiene che “il problema della pericolosità più che un problema di ammissibilità, incontestabile, della categoria del soggetti pericolosi, è essenzialmente un problema oltre che di accertabilità, di mezzi di difesa sociale di trattamento”[12]. Secondo la costante giurisprudenza in ordine alla scelte delle misure di sicurezza è da escludere ogni automatismo,  quando una misura meno drastica accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e quelle di prevenzione e sicurezza. Ne deriva così ad esempio che la misura di sicurezza della libertà vigilata può essere applicata, in luogo della misura di sicurezza detentiva (nella specie, quella dell’assegnazione a una casa di cura e custodia), anche nei confronti del condannato affetto da vizio parziale di mente, se in concreto detta misura sia capace di soddisfare le accennate esigenze di cura  e tutela della persona e di controllo della sua pericolosità sociale[13]. Anche dopo l’introduzione dell’art. 31 l. n.663 del 1986, che ha abrogato a c.d.”pericolosità presunta” di cui al previgente art. 204 c.p. ed ha stabilito che tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento della pericolosità sociale del condannato, permane la distinzione fra la libertà vigilata facoltativa di cui all’art. 229 c.p. e quella obbligatoria prevista dal successivo art. 230, in quanto, nei casi di misura facoltativa, qualora sia accertata in concreto la pericolosità sociale e la sussistenza degli altri presupposti richiesti, il giudice può comunque escluderne l’applicazione, purchè motivi adeguatamente sulle ragioni di tale esclusione, avendo riguardo al grado di pericolosità del singolo e al principio di proporzionalità rispetto al fatto commesso nonché a quelli di presumibile verificazione[14]. Sussiste sempre l’obbligo del previo accertamento della pericolosità sociale[15] del soggetto nei cui confronti deve essere ordinata una misura di sicurezza personale, accertamento che deve quindi essere svolto dal giudice di merito prima della statuizione relativa alla misura di sicurezza, a nulla rilevando la possibilità di effettuare tale accertamento anche in sede di esecuzione[16]. Le misure di sicurezza personali sono previste dall’art. 25, 3° comma, Cost., ed attuate dagli artt. 199-240 c.p. e possono essere ripartite in misure di sicurezza personali e patrimoniali. Le prime consistono in “trattamenti terapeutici o di risocializzazione” cui vengono sottoposte le persone – imputabili o non imputabili – ritenute socialmente pericolose[17]. Rispetto alle misure di sicurezza patrimoniali si sottolinea lo scopo di prevenzione speciale e di emenda, operato per mezzo della rieducazione[18]. Le misure personali sono detentive se privano il soggetto della libertà personale: assegnazione a una colonia agricola o ad una  casa di lavoro; ricovero in una casa di cura e di custodia; ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; ricovero in un riformatorio giudiziario. In esse è comunque presente una componente afflittiva[19]. Dopo la legge n. 81 cit. – e, precisamente, come anzidetto supra, nella parte in cui prevede che le misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilitoper la pena detentiva prevista per il reato commesso, – la giurisprudenza penale ha ritenuto che tale novum legislativo non può che trovare applicazione ex nunc, con la conseguenza che, per le misure già precedentemente adottate, il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario deve intendersi legittimamente abrogato, in via eccezionale e transitoria, fin quanto persista la pericolosità sociale dell’internato[20]. La tematica è strettamente connessa al regime intertemporale cui soggiacciono le misure di sicurezza. Sulla disciplina successoria applicabile, l’operatività dell’art. 200 c.p. e del principio del tempus regit actum espresso di tale disposizione, consegue l’ammissibilità di un meccanismo di retroazione sfavorevole. La questione non è certamente teorica se solo si consideri che sulla disciplina successoria, applicabile alle confische, vi è una nutrita giurisprudenza di legittimità. In particolare, il massimo organo di giustizia penale si è dovuto interrogare sulla effettiva natura delle confische ovvero se le misure ablatorie anziché essere finalizzate a neutralizzare la pericolosità sociale insita nella disponibilità della cosa espropriata, paiono assolvere piuttosto una funzione afflittiva e sanzionatoria, avvicinandosi maggiormente ai caratteri e alle finalità della pena che a quelli  delle misure di sicurezza[21]. Le difficoltà derivano, quindi, dalla eterogeneità delle “confische”, non riconducibile ad una unitaria nozione, ma al contrario integranti, come è stato osservato dal massimo organo  della giustizia penale, un sistema multiforme o “proteiforme”[22]. Nel caso in cui la confisca dovesse essere annoverata tra le sanzioni penali si applica il regime successorio di cui al’art. 2 c.p. Infatti, ciò che rileva in riferimento alla sanzione penale è l’abolizione del reato, con effetti favorevoli retroattivi,  a seguito di un intervento legislativo successivo alla commissione del fatto costitutivo di reato volto ad eliminare l’antiguiridicità della condotta del soggetto agente. Infatti, l’intervenuta abolitio criminis e il conseguente annullamento della sentenza impugnata sono da ritenere prevalenti anche sulla eventuale inammissibilità del ricorso, in quanto l’impossibilità di rilevare cause di non punibilità in presenza di ricorsi inammissibili è destinata a cedere in ipotesi di successioni di leggi e di abolitio criminis ex art. 2 c.p. Spetta al giudice della cognizione, fino alla formazione del giudicato formale,  prendere atto dell’intervenuta abolitio criminis ed annullare la  condanna per fatti ormai divenuti privi di rilievo penale[23]. In tale circostanza, a parere dello scrivente, e, si tiene a precisare, soltanto per ciò che concerne l’applicazione delle misure di sicurezza detentive, l’esecuzione delle stesse viene meno dopo l’abolizione del reato; ciò avviene in virtù di una interpretazione letterale filologica dell’art. 1, comma 1 quater , della l. n. 81 cit. nella parte in cui dispone che “le misure di sicurezza detentive non possono durare oltre la pena edittale massima prevista per il reato commesso”. Occorre, evidenziare, però che nulla esclude l’applicabilità di una misura di sicurezza non detentiva ancorchè la condotta, seppur non costituisce più reato, è stata posta in essere da una persona pericolosa socialmente. Questa considerazione, ad ogni modo, non contrasta con quella che è la natura delle misure di sicurezza e l’autonomia delle stesse rispetto al procedimento penale. In altri termini, il principio del doppio binario rimane garantito sia formalmente, sia sostanzialmente. Come ha osservato la Cassazione, il procedimento avente ad oggetto l’aggravamento di una misura di sicurezza personale non può essere sospeso in attesa della definizione di un giudizio penale a carico dello stesso soggetto, non essendo configurabile una pregiudizialità tra l’accertamento della responsabilità penale e la valutazione della pericolosità sociale del proposto[24]. Anche in sede di accertamento della pericolosità sociale il giudice una volta disposto l’interrogatorio finalizzato all’accertamento della sussistenza degli elementi idonei a fondare la dichiarazione della cosiddetta “pericolosità sociale”, – oltre al presupposto oggettivo costituito dalla commissione di un fatto previsto dalla legge come reato, ex. Art. 200, comma 1, c.p. – non può successivamente ripeterlo senza violare quelli che siano i principi del giusto processo penale. Nello specifico, in tema di applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, l’interrogatorio dell’interessato non deve essere compiuto quando questi, nel corso del giudizio, sia stato sentito e abbia avuto modo di interloquire sia in ordine agli elementi indiziari a suo carico, sia in relazione alla attualità della pericolosità sociale ed alla sussistenza delle condizioni che giustificano l’applicazione della misura[25]. Anche qualora sia intervenuta una sentenza di condanna il giudice deve procedere, sempre e comunque,  al previo accertamento in concreto della pericolosità sociale del condannato. La questione è stata posta al vaglio della Cassazione la quale ha osservato che “il giudice, prima di procedere all’espulsione dallo Stato dello straniero, per il quale sia intervenuta sentenza di condanna per uno dei reati indicati nell’art. 86 dpr 9 ottobre 1990, n. 309, è tenuto ad accertare in concreto, con adeguata motivazione, la sussistenza della pericolosità sociale del condannato”[26]. In altri termini, il giudice deve accertare tutti gli elementi in concreto, tanto soggettivi quanto oggettivi, valutando il nesso di interdipendenza con la pericolosità sociale,  non soffermandosi su meri indici “sintomatici”. Infatti, secondo la giurisprudenza di merito l’aver costruito all’interno della propria autovettura un vano apposito dove trasportare sostanza stupefacente è indice di pericolosità del reo, che insieme alle altre modalità dell’azione e all’intensità del dolo giustifica l’applicazione della misura di sicurezza[27].

La Corte Costituzionale, con la sentenza 58/1995, ha affermato che le misure di sicurezza detentive, qualunque sia la natura che ontologicamente s’intenda assegnare ad esse,  comportano comunque la privazione o la limitazione della libertà personale, incidendo su un valore che l’art. 13 Cost. riconosce come diritto inviolabile dell’uomo; non detentive, se comprimono la libertà personale senza abolirla: libertà vigilata; divieto di soggiorno  in uno o più Comuni, o in una o più Province; divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche; espulsione dello straniero dallo Stato; patrimoniali, che incidono sul patrimonio. Queste ultime hanno per oggetto “prestazioni in denaro” (cauzione di buona condotta) o “cose” (confisca) e si prefiggono lo scopo di prevenire la commissione di nuovi reati, con dinamiche psicologiche diverse: esercitare una azione di “controspinta” al reato (così la cauzione), ovvero impedisce che il possesso di determinati oggetti legati al reato induca il soggetto a reiterare la condotta criminosa e/o pericolosa (così riguardo alla privazione reale realizzata tramite la confisca). Il catalogo delle misure di sicurezza deve essere completato con quelle previste da leggi speciali, fra le quali: l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato di cui all’art. 15, dlgs 25.7.1998, n. 286, in materia di immigrazione; e dall’art. 87, dpr 9.10.1990, n. 309, in materia di stupefacenti; la confisca prevista dalle seguenti leggi speciali: art. 301, dpr 23.11.1973, n. 43, relativa alle cose oggetto di contrabbando; art. 85, dpr 9.10.1990 , n. 309, in materia di stupefacenti; art. 5, L. 22.5.1975, n. 152, sulle armi; art. 1, L. 7.8.1986, n. 462, in materia di frodi alimentari; art. 10, L. 23.3.1983, n. 77, in materia di fondi comuni di investimento; art. 12 sexies, dl 8.6.1992, n. 306, in materia di criminalità mafiosa. Secondo la Cassazione anche in materia di misure di sicurezza vale il principio della stabilità dei rapporti ormai esauriti ritenendo  irrevocabile la confisca, pur erroneamente disposta,  contenuta nel decreto penale non opposto, stante l’ormai intervenuta formazione della cosa giudicata[28].

2. Questioni di legittimità costituzionale

Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate in riferimento ai parametri di cui agli artt. 13,24, 25 e 117, comma 2, Cost.

Il ordine all’art. 25 Cost., la misura di sicurezza deve rispettare il principio di legalità. Difatti, nello stato di diritto le garanzie della libertà contro l’arbitrium judicis non possono non estendersi al temibile campo della prevenzione[29]. Il dettato dell’art. 25, 3° comma, Cost. è inequivocabile nella parte in cui afferma che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”, e conferisce anche dignità costituzionale ai principi fissati dagli artt. 199 e 236 c.p., per i quali “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente previsti dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”. È stato, però, sostenuto che la legalità si attenua allorquando dal reato si passa alla pena e, ancora più alle misure di sicurezza fondate invece su indici sintomatici di pericolosità e su una prognosi di un ipotetico futuro agire criminoso; tale principio, ossia quello di legalità, risulta ancora più svilito, secondo autorevole dottrina, quando “si passi alla tassatività e alla irretroattività: nella ricerca di un punto di equilibrio, che comporti quel parziale sacrificio della certezza, necessario perché le misure di sicurezza possano assolvere alla loro funzione specialpreventiva”[30]. I principi di cui agli artt. 13 e 24 Cost., restano salvi. Difatti, il conflitto con il diritto di libertà personale viene risolto nella prospettiva del principio di riserva di giurisdizione e del principio della tutela del diritto di difesa, in senso oggettivo e soggettivo. Anche per quanto riguarda l’applicazione delle misure di sicurezza, quindi, il processo deve svolgersi con tutte le garanzie del processo penale. L’elemento più importante della natura giurisdizionale delle misure di sicurezza è l’estensione ad esse del divieto della reformatio in pejus. In questo senso,  la Cassazione Penale,  Sez. Un. 8411/1998, in punto di diritto statuisce che “ai sensi dell’art. 597, 3° comma, cpp, il divieto di reformatio in pejus non consente al giudice di appello, quando l’appellante è il solo imputato, di irrogare una pena più grave per specie o quantità; applicare una misura di sicurezza nuova più grave; prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata; revocare i benefici”. L’attività svolta per accertare i presupposti e disporre l’applicazione delle misure di sicurezza è, dunque, vera e propria attività giurisdizionale e non amministrativa[31]. Tutto ciò, comunque, non svilisce il principio della funzione special – preventiva che costituisce il leitmotiv delle misure di sicurezza.

Da ultimo è stata sollevata questione di legittimità costituzionale per contrasto  della legge 30 maggio 2014 n. 81 – nelle parti in cui stabilisce che l’accertamento della pericolosità sociale è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni  di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale e che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”, – censurato per violazione degli art. 1,2,3,4,25,27,29,30,31,32,34,77 e 117, comma 1, Cost.; quest’ultimo in relazione all’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La Consulta ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale, ha dichiarato che la disposizione censurata ha modificato, relativamente ai “non imputabili e ai semi imputabili”, la nozione di pericolosità sociale. La disposizione, secondo i giudici delle leggi, non riguarda la pericolosità sociale  come categoria generale, ma si riferisce più specificatamente alla pericolosità che legittima  il “ricovero in un ospedale psichiatrico o in una casa di cura”. È solo per disporre quest’ultima misura che il giudice deve accertare, “senza tenere conto delle condizioni di cui  all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale”, che “ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate a fare fronte alla sua pericolosità sociale”. La limitazione quindi non riguarda in generale la pericolosità sociale, ma ha lo scopo di riservare le misure estreme, fortemente incidenti sulla libertà personale, ai soli casi in cui sono le condizioni mentali della persona a renderle necessarie, in un’ottica volta al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. (sent. n. 253 del 2003, 367 del 2004, 22 del 2012)[32]

3. Le misure di sicurezza detentive

 3.1. L’ASSEGNAZIONE A UNA COLONIA AGRICOLA O A UNA CASA DI LAVORO

Si tratta di misure di sicurezza personali detentive. Le misure de quibus sono equivalenti tra loro in quanto non hanno carattere terapeutico e sono quindi destinate a soggetti imputabili e ritenuti particolarmente pericolosi. Lo scopo della misura è il riadattamento sociale dei delinquenti più pericolosi mediante la loro educazione al lavoro.

L’applicazione dell’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro si snoda in due diverse dì modalità di esecuzione della stessa; sicchè la scelta, dell’una o dell’altra misura, è lasciata alla discrezionalità del giudice giudicante o al magistrato di sorveglianza nel caso dell’esecuzione. Va da sé che la loro esecuzione non pregiudica la facoltà dell’organo giudiziario  di esperire una modificazione in executivis rapportandola alle condizioni ed attitudini della persona a cui il provvedimento si riferisce. Tali misure, in ossequio al disposto dell’art. 216 cp, vengono applicate espressamente per le tipologie delinquenziali, definite negli artt. da 102 a 108 cp. ossia per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Il processo normativo ha fatto venir meno le presunzioni su cui si basava la tipizzazione di queste figure, la cui pericolosità oggi deve essere valutata in concreto, a prescindere dalla “carriera” criminale. La Corte costituzionale, con la sentenza 14 aprile 1998, n. 443, ha affermato che le condizioni previste dall’art. 102 cp non sono più sufficienti, in assenza di un accertamento della pericolosità sociale.

La misura di sicurezza dell’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro è obbligatoria nei confronti di colui che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza e di cui sia stata accertata dal giudice la pericolosità sociale[33].

La durata minima dell’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro è di un anno. Ma la durata è di due anni per i delinquenti abituali, di tre anni per i delinquenti professionali e di quattro anni per i delinquenti per tendenza.

È pacifico, da più parti, che “la distinzione tra colonia agricola e casa di lavoro risiede in base al tipo di attività in concreto svolta: natura agricola nella prima, carattere industriale e artigianale, nella seconda. Il distinguo operato dal legislatore, tra casa di lavoro e colonia agricola, è rimasto in realtà lettera morta. Difatti, all’interno di queste misure manca proprio il lavoro e gli internati vengono impiegati solo nei servizi della casa come cucinieri, porta – vitto e lavandai. Ciò rende evidente che queste mansioni rendono occupata una parte minimale degli internati. I giudici di sorveglianza descrivono e definiscono queste misure come “carceri”. Le stesse carceri presso le quali il detenuto sta a titolo di condannato e a tempo determinato e poi a titolo di internato e a tempo indeterminato”[34]

3.2. IL RICOVERO IN UNA CASA DI CURA E DI CUSTODIA

Dal primo aprile 2015 l’esecuzione nelle case di cura e custodia è sostituita dall’esecuzione nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), come previsto dall’art. 3 – ter delle disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari di cui al d.l. 211/2011 relativo a interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri. Si tratta di una novità di rilievo rispetto al passato. Invero, l’art. 219 del cp era visto dalla dottrina come una misura che tentava un’ibridazione tra istanze curative e finalità custodiali[35]. Ne sono destinatari, ai sensi dell’art. 219 cp, i soggetti in stato di incapacità ridotta – i cosiddetti semi-imputabili- a causa della condanna a pena diminuita per infermità psichica, cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti e sordomutismo. L’entità della misura di cui  trattasi si rapporta in ogni modo alla gravità del reato commesso: la misura di sicurezza ha una durata minima non inferiore a mesi sei (sostituibile, a discrezione del giudice, con la libertà vigilata) o pari a uno o a tre anni, rispettivamente se la pena detentiva inflitta è la reclusione non inferiore a cinque anni, oppure la reclusione non inferiore a dieci anni o l’ergastolo. La predetta misura di sicurezza è disposta dopo che la pena detentiva sia stata scontata o per una serie di circostanze si è estinta; però occorre ricordare che in via eccezionale l’art. 220, comma 1, cp prevede la possibilità di ordinare il ricovero prima dell’esecuzione della pena, tenuto conto delle particolari condizioni di infermità psichica del condannato, al fine di impedire che l’immediata esecuzione della pena possa aggravare in maniera esponenziale. La ratio di una eventuale anticipazione dell’anzidetta misura viene, espressi verbis, fornita dal legislatore all’art. 219, comma 4, del cp ove dispone che “quando deve essere ordinato il ricovero in una casa di cura o di custodia, non si applica altra misura di sicurezza detentiva”. Pertanto, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura e custodia, per l’individuazione della “pena stabilita dalla legge” rilevante a norma dell’art. 219 comma 1 cp, devono considerarsi eventuali circostanze, aggravanti ed attenuanti, ma non anche la diminuente per il vizio parziale di mente, in quanto l’infermità di mente e la connessa pericolosità costituiscono la ragione giustificativa del provvedimento[36].

3.3. IL RICOVERO IN UN OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

Anche per tale fattispecie dal 1° aprile 2015 il ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari è sostituito dall’esecuzione nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, come previsto dall’art. 3-ter del d.l. 211 cit.

La predetta misura di sicurezza detentiva si applica ai soggetti non imputabili che, a causa di una delle tipiche infermità previste dall’art. 88 e ss. del cp, sono pericolosi socialmente.

Una volta accertata in concreto la pericolosità sociale del  reo secondo tutti i parametri indicati dall’art. 133, comma secondo, cp, la decisione di applicare il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (ormai sostituito dalle Rems), o in una casa di cura e custodia, può essere adottata – per effetto dell’entrata in vigore del dl 31 marzo 2014, n. 52 (convertito con modifiche in l. 30 maggio 2914, n . 81) – solo quando ogni altra misura di sicurezza risulta inidonea, tenendo conto, in tale accertamento, delle qualità soggettive della persona e non delle condizioni ostative di tipo “sociale”, indicate dall’art. 133, comma secondo, n. 4 cp, né della sola mancanza di programmi terapeutici individuali[37].

La durata minima è determinata in base alla gravità della pena, astrattamente prevista per il reato commesso: dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena dell’ergastolo; cinque anni se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a dieci anni; due anni negli altri casi.

La riforma è stata attuata dietro le spinte della dottrina la quale riteneva che nel caso applicativo, per quanto orientata alla prevenzione di futuri reati, la misura in esame fin dall’origine non aveva quella finalità terapeutica a cui il legislatore mirava; ciò è dovuto al fatto che, in realtà, gli istituti di esecuzione generalmente non presentano significative differenze rispetto alle carceri: nella prassi prevalgono così i profili afflittivi e segreganti[38].

3.4. IL RICOVERO IN UN RIFORMATORIO GIUDIZIARIO

È una misura di sicurezza speciale che si applica ai minori. Il ricovero nel riformatorio giudiziario, in seguito all’entrata in vigore degli artt. 36, secondo comma, e 22, dpr n. 448/1988, si è trasformato nel collocamento in una “comunità pubblica”. Gli artt.223 – 227 cp che regolano il ricovero del minore in riformatorio giudiziario, pur rimasti formalmente invariati, vanno raccordati al dpr che ha modificato le forme e i modi di esecuzione delle misure di sicurezza. La misura de quo si applica ai minori degli anni quattordici,  o minori degli anni diciotto riconosciuti non imputabili ex art. 98, che abbiano commesso un delitto e siano pericolosi socialmente.

La durata minima è di un anno.  Se per il delitto la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni e non si tratta di delitto colposo,  è ordinato il ricovero per un tempo  non inferiore a tre anni. Il riformatorio è alternativo rispetto alla libertà vigilata. Difatti, la predetta misura si applica ai minori degli anni quattordici e diciotto, riconosciuti imputabili e condannati a pena diminuita, qualora il giudice, dopo l’esecuzione della pena, disponga che il minore sia ricoverato in un riformatorio o posto in libertà vigilata motivando la propria scelta discrezionale in relazione alle condizioni sociali e familiari in cui vive il soggetto. In seguito, è prevista l’applicazione della misura per gli imputati prosciolti per infermità fisica o per intossicazione cronica da alcol o stupefacenti ovvero per sordomutismo. È sempre applicabile, la su esposta misura, al minore condannato per delitto durante l’esecuzione di una misura di sicurezza. Al minore degli anni diciotto che sia delinquente abituale, professionale o per tendenza la durata minima della misura è di tre anni. Nel caso in cui il soggetto abbia compiuto gli anni diciotto, il giudice nell’esercizio del suo potere di scelta, ordina l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro. La riforma della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario rende inapplicabile il disposto dell’art. 214 cp “per evidente incompatibilità” con la sanzione prevista dall’art. 22, quarto comma, del dpr 448[39].

 


[1] Il sistema del doppio binario si evidenzia anche nel fatto che l’attestazione della pericolosità sociale attiene alla applicabilità delle sole misure di sicurezza e non confligge con l’applicazione di una pena meno grave quale gli arresti domiciliari in luogo della misura cautelare della custodia in carcere. Invero la Cassazione penale sez. III 02/03/2011 n. 26696,  fonti: Ced Cassazione penale 2011 viene così massimata: “Non è affetta da vizio di contraddizione nella motivazione la sentenza di condanna che disponga l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, e quindi ne attesti la pericolosità  sociale, e che, nel contempo, sostituisca la misura cautelare della  custodia carceraria con la meno grave misura degli arresti domiciliari. (In motivazione la Corte ha precisato che solo una valutazione in termini negativi della pericolosità sociale, ad es. mediante la concessione del beneficio della sospensione condizionale, potrebbe costituire una remora alla decisione di espulsione)”.

[2] A. ROCCO, Relazione del Guardasigilli, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, p.t. I  Roma, 1929, 245.

[3] BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1976, 836.

[4] Cassazione penale sez. I 3/01/2011 n. 4740 Fonti: Cass. pen. 2012, 10, 3416 (s.m.) (nota di: Spuri) Ced Cassazione penale 2011 Cass. pen. 2011, 12, 4350.

[5] In tal senso Cass. pen., sez. I, 02 marzo 2010, n. 11055.

[6] Si veda il sito http://www.fattodiritto.it/la-scomparsa-delle-misure-di-sicurezza-e-detenzione-sine-die/.

[7] In tal senso Cass. pen., 16 febbraio 1995, n. 946.

[8] Sul punto si segnala un’importante decisione della Consulta che ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale, ha chiarito che la disposizione censurata ha modificato, relativamente ai “non imputabili e ai semimputabili”, la nozione di pericolosità sociale. La questione era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Messina in relazione a numerosissimi parametri costituzionali (artt. 1,2,3,4,25,27,29,30,31,32,34,77 e 117, primo comma Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 5 della Convenzione edu), ed aveva riguardato, in particolare, l’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 81 del 2014, nella parte in cui stabilirebbe che l’accertamento della pericolosità sociale debba essere “effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale”, cioè senza considerare le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo, e nella parte in cui stabilirebbe che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”. In effetti la norma censurata potrebbe sorprendere, ad una prima lettura,perché esclude sulla base cognitiva, per il giudizio sulla necessità della misura di sicurezza dai contenuti restrittivi più marcati, elementi determinanti per la valutazione richiesta al giudice. Il senso della novella si comprende una volta preso atto che si tratta di prescrizioni reattive, che il legislatore ha ritenuto di introdurre dopo la conclusione del lavoro della Commissione parlamentare di inchiesta che aveva indagato, tra l’altro, sulla realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari. La Commissione aveva posto in luce  la fortissima incidenza di situazioni di svantaggio sociale nella “selezione” delle persone rimaste prive di libertà in esito elle verifiche di perdurante pericolosità sociale, ed anche odiose discriminazioni fondate sulla differente capacità delle strutture sanitarie, sparse sul territorio nazionale, di approntare rapidamente e credibilmente piani terapeutici individuali per i soggetti ristretti nelle strutture giudiziarie.

Ciò detto, il Tribunale rimettente – con una serie di osservazioni di vario segno (per vero orientate sia ad evidenziare il rischio di “liberare” soggetti pericolosi che quello di restringere soggetti non meritevoli) – aveva costruito le proprie doglianze sulla fisiologica imperfezione di un giudizio di pericolosità amputato ad una porzione così importante della sua naturale base cognitiva, addebitando al legislatore un improvvido mutamento della nozione stessa di pericolosità sociale. Ebbene, con una tipica decisione di infondatezza su base interpretativa, la Consulta ha negato fondamento all’impostazione del giudice a quo. Le norme censurate non condizionano il giudizio di pericolosità, che dunque può essere liberamente sviluppato in base a qualunque elemento utile, ma solo l’opera di individuazione della misura necessaria e sufficiente a contenere la pericolosità eventualmente accertata, cioè l’eventuale “ricovero in un ospedale psichiatrico o in una casa di cura”. Testualmente “la limitazione quindi non riguarda in generale la pericolosità sociale, ma ha lo scopo di riservare le misure estreme, fortemente incidenti sulla libertà personale, ai soli casi in cui sono le condizioni mentali della persona a renderle necessarie. È una disposizione da leggere nell’ambito della normativa volta al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari […] la disposizione censurata non ha modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme di mente o seminferme di mente, la nozione di pericolosità sociale, ma si è limitata ad incidere sui criteri di scelta tra le diverse misure di sicurezza e sulle condizioni per l’applicazione di quelle detentive”. (G.L.) (In tal senso si veda Corte costituzionale sentenza n. 186 del 23 luglio 2015).

[9] Si veda la rivista giuridica online Diritto penale contemporaneo.

[10] F. PALAZZP, Corso di Diritto penale, parte generale, II edizione 2006, 570.

[11] P. NUVOLONE, Misure di prevenzione e misure  di sicurezza, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1976, 651.

[12] F. MANTOVANI, Principi di diritto penale, seconda edizione, Padova, 2007, 396.

[13] Sul punto si veda Cassazione penale sez III, 20.01.2016 n. 1460, in Guida al diritto, 2016,24,51; (si veda, in particolare, anche la Corte costituzionale, sentenze n. 253 de 2003 e n. 367 del 2004, nonché sentenza n. 208 del 2009, in tema, rispettivamente, di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e di assegnazione ad una casa di cura e di custodia).

[14] In tal senso Cassazione penale sez. III, 24/04/2015 n. 33591,

     Fonti: Ced Cassazione penale 2015.

[15] Si veda la Sezione Sorveglianza Milano 16/10/2014 n. 8756, in Redazione Giuffrè, 2014 nella parte in cui specifica che “Va rigettata la richiesta della Procura di abitualità a delinquere del reo allorquando il soggetto, nel frattempo detenuto, abbia mostrato in carcere un comportamento con, seppur piccoli, progressi volti al reinserimento nella società, facendo così venire meno il requisito della pericolosità sociale ex art. 679 c.p.p. che può legittimare applicazione misura di sicurezza”.

[16] Cassazione penale sez III 30/09/2015 n. 44339 Fonti:Ced Cassazione penale 2016.

[17] Al riguardo la giurisprudenza penale ha rilevato come a seguito dell’abrogazione dell’art. 204 cod. pen. ad opera dell’art. 31 della legge 10 ottobre 1986 n. 663, sussiste sempre l’obbligo del previo accertamento della pericolosità sociale del soggetto nei cui confronti deve essere ordinata una misura di sicurezza personale, accertamento che deve quindi essere svolto dal giudice di merito prima della statuizione relativa alla misura di sicurezza, a nulla rilevando la possibilità di effettuare tale accertamento anche in sede di esecuzione. (In questo senso la Cassazione penale sez. III, 30/09/2015 n. 44339, fonti Ced Cassazione penale 2016).

[18] E. MUSCO, Misure di sicurezza, in Enc. dir. agg., I, Milano, 1997, 763.

[19] CARACCIOLI, I problemi generali delle misure di sicurezza, Milano, 1970, 470.

[20] Cassazione penale sez. I, 09/01/2015 n. 23392, in Giurisprudenza costituzionale, 2015, 4, 1508.

[21] La delicata questione si è riproposta all’attenzione giurisprudenziale con riguardo alla confisca prevista,  per la fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza, dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23428 del 25 febbraio 2010 e, a pochi mesi di distanza, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 196 del 4 giugno 2010.

In particolare, il giudice remittente – essendo stata richiesta al pubblico ministero, nel giudizio principale, l’emissione di decreto penale di condanna, in relazione alla fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, co 2, lettera c), del codice della strada – ha rimarcato il fatto di dover applicare all’imputato, retroattivamente, la misura della confisca del veicolo, non essendo questa prevista all’epoca del commesso reato. Difatti, in forza di quanto stabilito dall’art. 4, comma 1, lettera b),del decreto legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008,  in caso di condanna dell’imputato per la fattispecie criminosa oggetto del giudizio a quo (e per quella di cui all’art. 187 del codice della strada,  norma, per tale motivo, anch’essa coinvolta dal remittente nell’incidente di costituzionalità), “è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’art. 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato”.

Orbene, proprio il riferimento all’articolo ultimo citato avrebbe l’effetto di rendere operativa, nella specie, la previsione di cui all’art. 200, comma 1, c.p. (cui si rinvia, quanto alle misure di sicurezza patrimoniali, l’art. 236, comma 2, del medesimo codice), in base alla quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”.  Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ha ritenuto le norme suddette in contrasto con gli artt. 3 e 117. co 1, Cost.. Sarebbe, in specie, violato, l’art.. 7 Cedu, secondo cui “non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato”; norma interpretata dalla Corte di Strasburgo come applicabile anche nei riguardi della misura della confisca (sentenza pronunciata dalla grande Chambre il febbraio 1995, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito). In particolare, ad avviso del remittente, la confisca del veicolo adoperato per commettere i reati di cui agli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada, lungi dal “soddisfare un bisogno di natura cautelare”, realizzerebbe “una funziona sanzionatoria e meramente repressiva” con la conseguenza che, al di là della qualificazione formale,la confisca in argomento si tradurrebbe in una sanziona patrimoniale di natura repressiva, da parificare – in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – “alla sanzione penale” e, dunque, non suscettibile di efficacia retroattiva, se non in violazione del citato art. 7 della Cedu. Ebbene la Corte ha rilevato che: la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica, giacchè se il suo contenuto consiste sempre nella “privazione di beni economici”, essa “può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varia finalità”, si da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena, o di misura di sicurezza,  ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa;  la necessità di tenere  nettamente distinte le singole ipotesi di confisca è anche conseguenza della differenza esistente – in campo penale – tra le nozioni di pena e di misura di sicurezza, i cui riflessi, oltretutto, si riverberano nella differente disciplina, fissata dai commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., del fenomeno della successione, nel tempo, delle norme relative ai due istituti; invero, “soltanto per la pena”, l’art. 25, comma 2 Cost., “ribadisce il cosiddetto principio di stretta legalità, disponendo che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, mentre lo stesso articolo, al successivo comma 3, “lascia ferma nell’ordinamento la disposizione dell’art. 200 del codice penale, in forza del quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”; cioè non da un imperativo giuridico anteriore al fatto punibile, ma da quelle disposizioni che via via l’ordinamento riconoscerà più idonee ad una efficace lotta contro il pericolo criminale”; a giustificare la ritenuta retroattività delle misure di sicurezza, con riguardo soprattutto a quelle di natura personale, è la finalità, loro propria, di assicurare una efficace lotta contro il pericolo criminale, finalità che potrebbe richiedere che il legislatore, sulla base di circostanze da esso discrezionalmente valutate, preveda che sia applicata una misura di sicurezza a persone che hanno commesso determinati fatti prima sanzionati con la sola pena (o con misure di sicurezza di minore gravità); tale retroattività risulta connaturata alla circostanza che le misure di sicurezza personali costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata pericolosità;nondimeno, la presa d’atto proprio delle peculiari caratteristiche e funzioni che, rispetto alle pene, presentano le misure di sicurezza ha indotto a sottolineare la necessità, a fronte di ogni reazione ad un fatto criminoso che il legislatore qualifichi in termini di misura di sicurezza, di un controllo in ordine alla sua corrispondenza non solo nominale, ma anche contenutistica, alla natura spiccatamente preventiva di detti strumenti, tanto al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri delle pene in senso stretto, si presentino ad essere qualificate come misure di sicurezza, con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le pene; una preoccupazione analoga – e cioè quella di evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla Cedu,nell’escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione o misura restrittiva appartengano all’ambito penale, possano determinare un un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale – è, del resto, alla base dell’indirizzo interpretativo che ha portato la Corte di Strasburgo all’elaborazione di propri criteri, in aggiunta a quello della qualificazione giuridico – formale attribuita nel diritto nazionale, al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione; dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della Cedu, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo – afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto; tale principio è del resto desumibile dall’art. 25, comma 2, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione (“Nessuno può essere punito…”) – può essere interpretata nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vivente al momento della commissione del fatto sanzionato; la natura essenzialmente sanzionatoria della confisca – prevista dall’art. 186 del codice della strada – è desumibile dalla duplice considerazione che tale “misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile” (e, dunque, “privo di attuale pericolosità oggettiva”) e che la sua operatività “non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva”, sicchè la misura si presenta non idonea a neutralizzare la situazione di pericolo per la cui prevenzione è stata concepita; ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del novellato testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, limitatamente alle parole “ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale”, dalle quali soltanto deriva l’applicazione retroattiva della misura in questione;  tanto con il dichiarato intento di rendere compatibile la citata previsione normativa con l’art. 7 della Cedu e quindi con l’art. 117, comma 1, Cost. (sul punto si veda R. GAROFOLI, Le Nuove Tracce Penale con giurisprudenza, Nel diritto editore 2014, 29 e ss.).

[22] In tal senso la Cass. S.U., 27 marzo 2008, n. 26654.

[23] Cassazione penale sez. I 23/09/2011 N. 36451, Giur. Cost., 2011, 6, 4754 (s.m.) (nota di: APOSTOLI).

[24] In tal senso si veda Cassazione penale sez. I 05/12/2011 n. 7099 Fonti: Ced Cassazione penale 2011 “Nella specie, la Corte ha ritenuto legittimo l’aggravamento della misura della libertà vigilata in caso di lavoro, sulla scorta della valutazione autonoma di fatto oggetto di una misura cautelare personale, senza attendere l’esito del relativo processo penale”.

[25] Cassazione penale sez. V26/09/2013 n. 7426 Fonti: Ced Cassazione penale 2014.

[26] Cassazione penale sez.ter. 14/08/2013 n. 35432 Fonti: Ced Cassazione penale 2013.

[27] Tribunale La Spezia 27/06/2012 n. 267 Fonti: Redazione Giuffrè 2014 (Nel caso di specie è stata applicata l’espulsione dallo stato).

[28] Cassazione penale sez. III 24/10/2012 n. 49477 Fonti: Diritto e giustizia online 2013, 11 gennaio.

[29] F. MANTOVANI, Principi di diritto penale, op cit.

[30] F. MANTOVANI, Principi di diritto penale, op cit.

[31] P. NUVOLONE, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, op cit.

[32] Corte costituzionale 23/07/2015 n. 186, Giurisprudenza costituzionale, 2015, 4,  1422 (s.m.) (nota di PUGIOTTO), Corte costituzionale sito ufficiale 2015.

[33] In tal senso confr. Sez. I 9.3.2011, n. 14014.

[34] V. ACCATTATIS, Il sistema delle misure di sicurezza detentive può essere ritenuto conforme alle misure di sicurezza?in Atti del Convegno sulle misure di sicurezza detentive, Pisa, 1972,14.

[35] D. GUERRI, Misure di sicurezza (dir. pen.), in Diritto – Enc. giur., Il Corriere della Sera – Il sole – 24 ore, vol. 9, 2007.

[36] Cassazione penale sez. I Data: 05/12/2013 n. 4459. Fonti: Ced Cassazione penale 2014.

[37] In tal senso Cassazione penale sez. VII 18.11.2015 n. 49469 Fonti: Ced Cassazione penale 2016.

[38] S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007, 870.

[39] F. RAMACCI, Corso di diritto penale, quarta edizione, Torino, 2007.

1. Le misure di sicurezza non detentive.

1. 1 LA LIBERTA’ VIGILATA

L’antecedente storico della libertà vigilata si rinviene nell’istituto della vigilanza speciale dell’Autorità di pubblica sicurezza disciplinata dall’art. 28 del codice Zanardelli. Nell’attuale codice Rocco la libertà vigilata, invece, è una misura di portata generale deputata a colmare vuoti normativi. La stessa affinchè possa trovare concreta applicazione, necessita dell’accertamento da parte del giudice dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti per l’attuazione delle generali misure di sicurezza[1]. Nello specifico, la suindicata misura consiste nella limitazione – anche se non detentiva – della libertà personale in ottemperanza di obblighi e di controlli, da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza (ad esempio permanenza notturna in casa, non accompagnarsi con pregiudicati, non frequentare certi luoghi ecc.) volti “a evitare le occasioni di nuovi reati” e ad “agevolare il riadattamento della persona alla vita sociale” (art. 228 cp), potendo, in itinere, essere modificate o limitate dal giudice. Ai sensi del 1° comma della norma in esame, l’attività di sorveglianza della persona in stato di libertà vigilata è affidata alla competenza dell’Autorità di pubblica sicurezza; nel caso particolare di libertà vigilata applicata a persona condannata alla reclusione superiore a un anno per il delitto di contrabbando,  tale competenza spetta, ai sensi dell’art. 115, l. 25.9.1940, n. 1424 e dell’art. 86, l. 17.7.1942, n. 907, anche alla Guardia di Finanza. Costituiscono presupposti per l’applicazione della libertà vigilata, ai sensi dell’art. 229, n.2 cp, la realizzazione di un cosiddetto “quasi reato”, la volontarietà del comportamento e la pericolosità del soggetto, che il giudice deve accertare secondo i parametri  di cui all’art. 133 cp, considerando, soprattutto, il reato o i reati nella loro obiettività,  specie quando, per gravità e specificità, assumano connotazioni di significativo rilievo[2]. La persistenza della pericolosità accertata in sede di riesame della stessa comporta invece soltanto il prolungamento della misura di sicurezza originariamente applicata, e non può determinarne, in assenza di trasgressione degli obblighi imposti, l’aggravamento[3]. Invero, l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza non è soggetta ai termini di durata massima delle misure cautelari in considerazione della continua rivisitazione che deve essere fatta dell’applicazione della misura stessa  in funzione della pericolosità sociale[4]. Dopo l’abrogazione della disciplina legislativa in riferimento alla presunzione,  iuris et de iure, della pericolosità sociale, la libertà vigilata non è più obbligatoria  in tutti i casi previsti dall’art. 230 cp, mentre l’obbligatorietà della predetta misura permane nel caso di condannati a pena detentiva, o all’ergastolo, ammessi alla liberazione condizionale. In questa circostanza la libertà vigilata non ha la funzione di misura di sicurezza, perché non può essere socialmente pericoloso chi si è ravveduto (art. 176, primo comma, cp) ma si tratta, nel caso di specie, di misura sostitutiva della pena[5]. L’applicazione obbligatoria riguarda, invece, tutti i casi in cui: a) è stata inflitta la reclusione per non meno di 10 anni; b) il condannato è ammesso alla liberazione condizionale; c) il contravventore abituale o professionale, non più sottoposto a misura di sicurezza, commette un nuovo reato che sia nuova manifestazione di abitualità o professionalità; d) è determinato dalla legge (ad esempio artt. 210, 212, 223, 225, 238, 417), anche se dopo l’entrata in vigore della novella del 1986, è richiesto anche l’accertamento della pericolosità. La durata minima della libertà vigilata è di 1 anno; passa a 3 anni se è inflitta la reclusione per non meno di 10 anni o nel caso contemplato dall’art. 210, 3° comma, cp. La trasgressione degli obblighi imposti è sanzionata con l’aggiunta della cauzione di buona condotta. Se la cauzione non dovesse essere prestata, oppure nei casi di trasgressioni particolarmente gravi o ripetute, il giudice può sostituire la libertà vigilata con la colonia agricola o la casa di lavoro; invece, se si tratta di minore con il riformatorio giudiziario. la libertà vigilata è affidata all’Autorità di pubblica sicurezza e al servizio sociale. L’importanza di quest’ultimo organo (il servizio sociale) si evince non già in seguito all’avvento del codice del 1930 ove discorreva di libertà vigilata ex se,  bensì con l’art.55 della l. n. 354/1975, nel testo sostituito dall’art. 6, l. n.  1/1977; siffatta legge dispone, infatti,  che le persone sottoposte a libertà vigilata siano assistite, al fine del loro inserimento, dall’opera dei centri di servizio sociale trasformandosi pertanto in una “libertà vigilata assistita”.

1.2 IL DIVIETO DI SOGGIORNO IN UNO O PIU’ COMUNI,  O IN UNA O PIU’ PROVINCE

Si tratta di una misura di sicurezza che consiste nel divieto di soggiornare in uno o più comuni o province; i predetti luoghi vengono designati dal giudice che, in via preliminare, deve accertare il presupposto applicativo della pericolosità sociale di un soggetto, determinata dall’esigenza di evitare occasioni di nuovi reati comuni o politici, motivati da particolari condizioni sociali in determinati luoghi (art. 233 cp). In dottrina è stata rilevata la dubbia legittimità costituzionale della norma, in relazione all’art. 16 Cost. che, nel sancire la libertà di circolazione e di soggiorno, prevede solo limitazioni legislative di carattere generale per motivi di sanità o di sicurezza ed espressamente stabilisce che nessuna restrizione può essere  determinata da ragioni politiche. Difatti, l’art. 233 cp prevede il divieto di soggiorno come misura di sicurezza aggiunta alla pena inflitta per un delitto oggettivamente e soggettivamente politico o contro l’ordine pubblico;  inoltre fa anche riferimento a condizioni sociali e morali, senza menzionare motivi di sicurezza pubblica[6]. Altra parte della dottrina, di contro, sostiene che “il riferimento al delitto politico non sia di per sé conflittuale con la disposizione costituzionale poiché sembrerebbe sinonimo di “sicurezza pubblica”, che, a norma della stessa disposizione costituzionale, “giustifica le limitazione della libertà di circolazione e di soggiorno”[7]. Secondo la costante giurisprudenza il divieto di cui trattasi per motivi di sicurezza si applicava anche per le misure di prevenzione integrando la fattispecie di reato di cui all’art. 9, comma 2 l. n. 1423/1956 (provvedimento abrogato dal dlgs 6 settembre 2011, n. 159) il soggetto che, contravvenendo agli obblighi accessori inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di ps con obbligo di soggiorno, ospiti all’interno della propria abitazione e, stabilmente, persone pregiudicate[8]. La durata minima è di un anno. In caso di trasgressione, ricomincia a decorrere il termine minimo e può essere ordinata la libertà vigilata.  

1.3 IL DIVIETO DI FREQUENTARE OSTERIE E PUBBLICI SPACCI DI BEVANDE ALCOLICHE

È una misura di sicurezza, personale non detentiva, che si aggiunge alla pena nei confronti del condannato per ubriachezza abituale e per i reati commessi in stato di ubriachezza abituale. Parte della dottrina ritiene che il divieto non comprenderebbe il recarsi saltuariamente in osterie o spacci bensì quando (nell’ipotesi specifica ove) il reo manifesti una tendenza abituale a praticare i predetti luoghi[9]. Al fine di individuare i luoghi interdetti si fa riferimento a quelli descritti dall’art. 86 Tulps. I destinatari della misura, quindi, sono coloro i quali sono stati condannati per un reato commesso in stato di ubriachezza, ove si tratti di ubriachezza abituale. La durata minima è di 1 anno. In caso di trasgressione, può essere ordinata la libertà vigilata o la prestazione di una cauzione di buona condotta.  

1.4 L’ESPULSIONE DELLO STRANIERO DALLO STATO

L’espulsione dello straniero dallo Stato è configurata dal codice penale come misura di sicurezza personale non detentiva in ossequio al disposto dell’art. 215 e dalla stessa collocazione dell’art. 235 cp. L’espulsione ha una duplice natura sanzionatoria. L’ordinamento giuridico disciplina l’espulsione in via amministrativa, applicata dall’autorità amministrativa, e l’espulsione come misura di sicurezza, disposta dall’autorità giudiziaria. Quest’ultima è prevista dall’art. 235 del cp e si applica allo straniero o al cittadino comunitario nei confronti del quale è stata inflitta una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni e negli altri casi previsti dalla legge, sempre che il soggetto sia ritenuto socialmente pericoloso in una prospettiva, però,  secondo la giurisprudenza penale,  di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale e interesse del singolo alla vita familiare.[10] Oltre all’espulsione come misura di sicurezza prevista dallart. 235 del cp viene contemplata anche quella disposta dall’art. 15 del dlg n. 286/1998 che può essere applicata dal giudice allo straniero condannato per uno dei delitti previsti dagli artt. 380 e 381 coo, ossia per i delitti per i quali è obbligatorio o facoltativo l’arresto in flagranza (Tu). L’art. 15 amplia – ma non sostituisce – l’art. 235, delimitando espressamente il suo ambito di applicazione «fuori dei casi previsti dal codice penale»; entrambe, però, si differenziano dal lato sia soggettivo che oggettivo per l’applicazione. Difatti, pur trattandosi di due ipotesi di misure di sicurezza è diverso il tipo di condanna che viene comminata al soggetto pericoloso socialmente: reclusione per una pena superiore a due anni nella disciplina del codice penale e – indipendentemente dal quantum della pena – per uno dei reati previsti dall’artt. 380 e 381 cpp per la disciplina del testo unico dell’immigrazione. In quest’ultima ipotesi si tratta di un’espulsione facoltativa, subordinata al previo accertamento della pericolosità sociale dello straniero. Tuttavia, resta ferma la natura di misura di sicurezza, con la necessaria doppia verifica di pericolosità sociale: in primo luogo,  dal magistrato giudicante e successivamente, a pena espiata, dal magistrato di sorveglianza[11]. Il legislatore con il dlgs 286/1998 ha introdotto, inoltre, la figura dell’espulsione  facoltativa a titolo di  sanzione sostitutiva alla detenzione che opera nel processo penale. Questa fattispecie è stata modificata  dall’articolo 15, comma 1,  della legge 30 luglio 2002, n. 189, dalla cosiddetta “legge scurezza” n. 94 del 2009 e dall’articolo 3, comma 1, lettera f), del dl 23 giugno 2011, n. 89. L’art. 16, comma 1, della citata legge così come modificata dal legislatore, attribuisce al giudice della cognizione il potere di sostituire  la pena detentiva, irrogata entro il limite di due anni, con la misura dell’espulsione per un periodo non  inferiore a cinque anni. Il tutto trova applicazione ove il giudice pronunci sentenza di condanna per un reato non colposo o nell’applicare la pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale e soltanto nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, ovvero nel pronunciare sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 10 bis. Si tratta di sanzioni alternative e non cumulative. Il dlgs n. 286 all’art. 16 disciplina l’espulsione quale misura di sicurezza  sostitutiva o alternativa alla detenzione applicabili, la prima, dal giudice di cognizione in luogo della pena detentiva,  quando ricorrono i presupposti indicati dall’art. 16 della stessa legge, e, la seconda, dal magistrato di sorveglianza nei confronti del detenuto che deve scontare una pena detentiva residua non superiore a due anni, quando ricorrono altri presupposti. L’applicazione dell’espulsione a titolo di misura di sicurezza non va confusa con l’espulsione disposta ad altro titolo,  in particolare come sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione. Mentre queste ultime appaiono applicabili in maniera pressoché automatica dal giudice in presenza di determinati presupposti, l’esecuzione dell’espulsione quale misura di sicurezza non può prescindere dal previo accertamento della pericolosità sociale dello straniero. Tale ultimo requisito è stato ribadito dalla Corte costituzionale in relazione alle ipotesi di espulsione obbligatoria previste dal testo unico stupefacenti[12].  Questa è disposta dal magistrato di sorveglianza dello straniero detenuto, che debba scontare una pena, anche residua, non superiore a due anni. La legge sugli stupefacenti prevede ipotesi specifiche di espulsione dello straniero. L’art. 86 del dpr n. 309 del 1990 disciplina, ai commi 1 e 2, due distinte ipotesi di espulsione da adottare nei confronti dello straniero condannato. Inoltre, è prevista come misura di prevenzione o di polizia il respingimento alla frontiera ai sensi dell’art. 10 del dlgs 286/1998 e dell’espulsione amministrativa ex art. 13 del dlgs citato. La misura è disposta dal ministro dell’interno per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. Il prefetto è competente, invece, ad adottare il provvedimento di espulsione qualora lo straniero sia entrato nel territorio dello Stato sottraendosi,  tra l’altro, ai controlli di frontiera e non sia stato respinto ai sensi dell’articolo 10 del dlgs cit. l’espulsione per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato o in azioni di contrasto delle attività terroristiche  (legge n. 155/2005) è disposta con decreto del ministro dell’Interno (amministrativa), anche con delega  al prefetto – o dal Tribunale per i minorenni (giudiziaria) in caso di espulsione  di minore – ed è eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera. L’espulsione in azioni di contrasto delle attività terroristiche  può riguardare persone appartenenti a categorie di cui all’art. 18 della l. n. 152/1975 o per le quali si possa ritenere che la permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali. L’ordine di immediata espulsione dal territorio nazionale, impartito dal giudice penale in conseguenza di condanne comminate all’extracomunitario per reati commessi, non lascia spazi a valutazioni discrezionali in capo all’Autorità di ps, che è obbligata a seguirlo[13].  

2. Il principio sussidiario della libertà vigilata

L’ordinamento penale vigente configura la libertà vigilata come misura di sicurezza non detentiva; è indubbio che l’inquadramento storico e dogmatico si collega a quello delle altre misure di sicurezza. Queste sanzioni sono irrogabili dal giudice per risocializzare gli autori di  un reato o di un quasi – reato in ossequio agli artt. 49 e 115 cp. Con l’introduzione della misura disposta dall’art. 215, 3 comma, cp, il legislatore ha predisposto una valvola di chiusura del sistema delle misure di sicurezza: la libertà vigilata. Il sistema ordinamentale, pertanto, risponde a un completamento giuridico in ordine a quei fatti commessi da soggetti pericolosi che, per loro natura, non rientrerebbero nelle misure di sicurezza tipiche. La libertà vigilata è la misura di sicurezza statisticamente più importante poiché il suo ambito applicativo è generalizzato, essendo applicabile a soggetti imputabili, non imputabili e semimputabili, spesso in alternativa con le misure detentive, in una vasta gamma di casi (cfr. artt. 229 e 230 cp), con la conseguenza che le altre misure di sicurezza personali hanno un ambito applicativo residuale[14].  

3. Le misure di sicurezza personali e le misure di prevenzione: differenze e analogie.

Le misure di sicurezza sono sanzioni penali applicate nei confronti di chi abbia commesso un reato o un quasi – reato e sia considerato socialmente pericoloso, mentre le misure di prevenzione sono misure special – preventive ante opraeter delictum[15]applicabili ai soggetti pericolosi in base a un giudizio di probabilità circa il compimento in futuro di atti cirminosi[16]. Si tratta, secondo la prevalente dottrina, di vere e proprie “fattispecie di sospetto”, che, ai sensi della l. n. 1423/1956 (ormai abrogata dal dlgs 159 del 2011) non enuncia il principio di pericolosità sociale, ma enuclea tre categorie di persone, ritenute progressivamente più pericolose: «[…] sulla base di elementi di fatto, […] sono abitualmente dediti a traffici delittuosi; coloro che per la condotta e il tenore di vita […] vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; coloro che per il comportamento […] sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni,  la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. È necessario che la pericolosità sociale sia attuale, dunque idonea a giustificare un controllo  da parte degli organi di pubblica sicurezza» (art. 1 dlgs 159/2011). In base alla considerazione per cui nelle misure di prevenzione la pericolosità è sine delictum o ante delictum , parte della dottrina ritiene incostituzionali le misure di prevenzione in quanto non presentano alcun fondamento nell’art. 25 Cost.[17] che collega pene e misure di sicurezza alla previa commissione di un reato. Viceversa, la legittimità costituzionale e la pratica necessità della prevenzione ante delictum viene affermata in relazione sia all’art. 2 Cost., in ordine all’esigenza di tutela dei diritti inviolabili prima che siano offesi, sia agli artt. 25, 3° comma, e 27, 3° comma, Cost., i quali, facendo riferimento rispettivamente alle misure di sicurezza e alla funzione di rieducazione della pena, attribuiscono rilevanza all’accertamento di fattori di personalità e quindi anche alle situazioni soggettive di pericolosità. La Corte costituzionale ha accolto la tesi della legittimità ma fondandola su un diverso argomenti, affermando che “il principio di prevenzione e di sicurezza sociale […] affianca la repressione in ogni ordinamento, come esigenza e regola fondamentale” e come tale pervade la Costituzione: “l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi in avvenire”[18]. Le differenze che intercorrono tra le misure di sicurezza e le misure di prevenzione emergono  analizzando le diverse finalità delle stesse. Le misure di prevenzione, invero, hanno lo scopo di prevenire la commissione dei fatti illeciti e, pertanto, nel bilanciamento degli interessi le stesse assolvono un ruolo di tutela anticipata del pericolo della lesione del bene giuridico rispetto alle misura di sicurezza che possono essere applicate alle persone  socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, o quasi reato. Di qui la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di ps, qualora sia stata ordinata con obbligo di soggiorno nel comune di residenza prevale sulla misura di sicurezza  non detentiva della libertà vigilata[19]. Anche sotto il profilo della rilevanza della pericolosità sociale risaltano delle differenze tra le misure in questione. La pericolosità sociale rilevante ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza consiste nel pericolo di commissione di nuovi reati e deve essere valutata autonomamente dal giudice che deve tener conto dei rilievi peritali sulla personalità, sugli effettivi problemi psichiatrici e sulla capacità criminale dell’imputato[20], nonché sulla base di ogni altro parametro desumibile dall’art. 133 cp[21]. Il giudizio sulla pericolosità sociale, che deve precedere il provvedimento di avviso orale,  non richiede la sussistenza di prove compiute sulla commissione di reati, essendo sufficienti anche meri sospetti su elementi di fatto[22] tali da indurre l’Autorità di polizia a ritenere sussistenti le condizioni di pericolosità sociale che possono dar luogo, da parte del giudice, all’applicazione della misura di prevenzione; peraltro, l’Autorità amministrativa competente gode di ampia discrezionalità nell’accertamento e nella valutazione dei presupposti richiesti dalla legge (ossia: i sospetti)[23].  La diversa natura ontologica delle due misure in questione sembra giustificare anche un diverso accertamento intrinseco della pericolosità sociale delle stesse. Le misure di sicurezza sono sempre ordinate dal giudice, che può provvisoriamente applicarle nel corso di un procedimento penale in presenza di esigenze di cautela processuale, ex art. 312 cpp. L’applicazione provvisoria della misura di sicurezza presuppone sia la sussistenza di un’esigenza cautelare  (art. 274 cpp) sia la pericolosità sociale. Il dlgs n. 159 cit. ha sottratto alla competenza esclusiva dell’autorità di polizia il compito di applicarle sottoponendo le medesime al controllo dell’autorità giudiziaria, nonché, in taluni casi, all’applicazione diretta da parte  della stessa.  La normativa vigente prevede un insieme di misure a carattere sia amministrativo sia giurisdizionale: da un lato, l’avviso orale (ex diffida) e il rimpatrio con il foglio di via obbligatorio (art. 2 dlgs n. 159/2011), entrambe di competenza del questore; dall’altro la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza semplice (cui può essere aggiunto il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province oppure l’imposizione dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale) di competenza del Tribunale. Sono, inoltre, previste delle misure di prevenzione cosiddette atipiche quale il Daspo disposto dal questore[24]. Le misure di prevenzione essendo volte a evitare la commissione di futuri atti criminosi si basano su un giudizio di mero sospetto e quindi il fondamento di questa forte anticipazione della tutela di beni giuridici di particolare rilievo si rintraccia, come peraltro accennato supra, nei principi cardine della Costituzione. L’accertamento sulla attuale pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza implica una valutazione più approfondita non solo della gravità del fatto reato ma anche di fatti successivi, come il comportamento tenuto durante l’espiazione della pena (quale risultante ad esempio dalle relazioni comportamentali e dall’eventuale concessione di benefici penitenziari o processuali), o come il comportamento tenuto successivamente alla riacquistata libertà[25]. Il giudice che ritenga di applicare una misura di sicurezza personale ha l’obbligo di motivare in ordine alla accertata attuale pericolosità sociale dell’imputato, mentre non è richiesta alcuna esplicita  motivazione nel caso in cui detta pericolosità sia ritenuta insussistente[26]. Anche in tema di successione di leggi penali nel tempo per le misure di sicurezza vige il principio della retroazione sfavorevole. Invece per le misure di prevenzione vige il divieto di irretroattività, ex art. 2 cp, se riconducibili alla sanzione penale e l’applicabilità in caso di successione di leggi nel tempo della previsione di cui all’art. 200 cp, e, cioè, del principio del tempus regit actum, se ricondotte alle misure di sicurezza[27]. Il diverso accertamento della pericolosità sociale non influisce invero sulla natura della misura adottata (misure di sicurezza o sanzioni penali) per la disciplina successoria in quanto il presupposto comune rimane sempre eliminare alla radice la pericolosità sociale del soggetto con misure adatte al caso concreto tipizzate dal legislatore. In forza del principio che regola la successione di leggi penali nel tempo, la norma codicistica che prevede l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dallo Stato dello straniero condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni non opera in riferimento a fatti criminosi commessi prima della novella del codice, rispetto ai quali trova invece applicazione la pregressa norma che prescriveva l’indicata misura di sicurezza per gli stranieri condannati alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni[28]. Le finalità special – preventive cui mirano le misure di prevenzione, – ancorate ai requisiti sia soggettivi che oggettivi – sono garantite anche da leggi speciali, come ampiamente segnalato sopra. Inoltre vi sono alcuni provvedimenti adottati dall’Autorità di Pubblica Sicurezza aventi natura di misura cautelare con funzione preventiva, come ad esempio l’art. 100 Tulps.

Quest’ultima misura affinchè possa essere adottata dall’autorità amministrativa (Autorità di pubblica sicurezza), necessita di un accertamento in concreto della pericolosità non di un singolo individuo, bensì da una serie di fatti che lasciano presumere una minaccia alla pubblica incolumità. In altri termini,  l’Autorità di ps, deputata alla relativa applicazione, deve effettuare una più ampia valutazione sui fatti e/o episodi pericolosi socialmente che lascino presumere un serio, concreto e attuale pericolo per la pubblica sicurezza. Il fine di questo provvedimento amministrativo è simile rispetto alle misure di sicurezza: la sicurezza e l’incolumità pubblica, anche se in questo ultimo caso (ex art. 100 Tulps) investe un fenomeno più ampio di pericolosità sociale; invece,  ciò che è diverso sono i mezzi di accertamento, la tipologia e la natura dei provvedimenti, penali per le misure di sicurezza e amministrative per l’art. 100 cit. in questo ultimo caso comunque è necessaria un’adeguata motivazione per la revoca della licenza del locale al fine di evitare un eccesso di potere da parte dell’autorità che adotta il provvedimento. Al riguardo, il Consiglio di Stato ci insegna come: «Ai sensi dell’art. 100 Tulps un singolo episodio intervenuto di notte in un esercizio pubblico, non caratterizzato da grave violenza o allarme sociale, non è sufficiente a rappresentare il legittimo presupposto della sospensione dell’esercizio, atteso che la misura cautelare di pubblica sicurezza può intervenire in caso di “tumulti o gravi disordini”, ovvero qualora il locale sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o, comunque, se il comportamento costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini; si richiede, in sostanza, o il ricorrere di plurimi episodi tumultuosi connotati da gravità oppure un comportamento  comportante un “pericolo per la sicurezza dei cittadini” e, anche quest’ultima ipotesi, nel contesto complessivo della previsione normativa, deve necessariamente rivestire carattere di gravità e allarme per la collettività, tale da connotarsi per la pericolosità per la pubblica sicurezza»[29]. È importante, in uno Stato di diritto, nel rispetto del più altro principio di legalità, concorrere su più fronti, sia con misure di carattere penale sia con quelle di natura amministrativa, a prevenire la lesione o il pericolo di beni giuridici da parte di soggetti socialmente pericolosi o da fatti connotati da una tale grave pericolosità che possano nuocere alla sicurezza e all’incolumità pubblica dei cittadini.

   


[1] La Cassazione penale sez. III 28/01/2916 n. 14260, Diritto & Giustizia 2016, 11 aprile (nota di GASPARRE), ha dichiarato che: “La misura di sicurezza della libertà vigilata può essere applicata, in luogo della misura dell’assegnazione ad una casa di cura e di custodia, anche nei confronti del condannato affetto da vizio parziale di mente, se in concreto detta misura sia capace di soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona e di controllo della sua pericolosità sociale”.
[2] In tal senso Cassazione penale sez. I 05.02.2015 n. 25830. Fonti: Ced Cassazione penale 2015. Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che legittimamente il Tribunale di sorveglianza avesse confermato il provvedimento di applicazione della libertà vigilata nei confronti di soggetto assolto per aver partecipato al mero accordo di commettere il delitti di sequestro  di persona a scopo di estorsione ai sensi dell’art. 115 cp, valorizzando il ruolo di primo piano svolto nella fase ideativa e preparatoria del fatto cirminoso.
[3] Cassazione penale sez. I 08/11/2013 n. 4717. Fonti: Ced Cassazione penale 2014.
[4] Tribunale Salerno sez. riesame 12/10/2011. Fonti: Redazione Giuffrè 2012 (nel caso di specie, trattandosi di soggetto affetto da disturbo schizofrenico di tipo paranoide cronico e, quindi, infermo di mente con incapacità di intendere e volere, il Tribunale del riesame revocava la misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico e applicava la libertà vigilata presso una struttura residenziale in grado di assicurare la cura del paziente).
[5] F. RAMACCI, Corso di Diritto Penale, op. cit., 572.
[6] F. MANTOVANI, Diritto penale op. cit., 657 ss.
[7] F, RAMACCI, Corso di Diritto Penale op. cit.
[8] In tale senso Cassazione penale del 14.12.2015 n. 14712 in Redazione Giuffrè 2016.
[9] S. CANESTRARI, L. CONRNACCHIA, G. DE SIMONE. Manuale di diritto penale op. cit.
[10] Ex multis Cassazione penale sez. IV, 25/11/2014 n. 50379. Fonti: Ced Cassazione penale 2015. Cassazione penale 2015, 4 (nota di PRUDENZANO). Ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 dpr n. 309 del 1990, per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’art. 8 Cedu in relazione all’art. 117 Cost., ma anche l’esame comparativo  della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente  prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 cp, in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale e interesse del singolo alla vita familiare. In tal senso si veda anche Cassazione penale sez. III 12.01.2016 n. 6707. Fonti: Ced Cassazione penale 2016.
[11] A. CALLAIOLI, Codice penale, a cura di T. PADOVANI, Milano, 2011, 1613.
[12] Corte cost., 24 febbraio 1995, n. 58.
[13] Consiglio di Stato sez. III 22/11/2013 n. 5572 Fonti: Foro Amministrativo – C.d.S. (II) 2013, 11, 2993 (s.m.).
[14] F.PALAZZO, Corso di Diritto Penale Parte generale, op. cit.
[15] L. ELIA, Libertà personale e misure di prevenzione, Milano, 1962, 23 ss.
[16] Cass. pen. sez. I, 499/1992.
[17] L. ELIA, Libertà personale e misure di prevenzione, op. cit. 23.
[18]Ex multis, Corte cost. 27/1958; Corte cost. 23/1964.
[19] Sezione Sorveglianza Bari 12/04/2011. Fonti: Giurisprudenza – barese.it 2011 (in applicazione di questo principio, desumibile dall’art. 12, comma 3 della l. n. 1423 del 1956, il magistrato di sorveglianza, dovendo l’interessato trascorrere, al momento del giudizio ex art. 679 cpp, ancora oltre quattro anni in regime di sorveglianza speciale, ha dichiarato il non luogo a provvedere allo stato).
[20] Sui criteri di accertamento il legislatore con l’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81 ha stabilito che la pericolosità sociale – da parte tanto del giudice di cognizione quanto dal magistrato di sorveglianza – “è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tener conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale”, cioè delle “condizioni di vita individuale familiare e sociale del reo”.
[21] Cassazione penale sez. I 14/10/2010 n. 40808. Fonti: Ced Cassazione penale 2010 (Nella fattispecie è stata ritenuta incongrua la motivazione del giudice di merito, riferita la pericolo di atti autolesivi, irrilevanti ai fini della prognosi  prevista dalla legge, e comunque assertiva di una generica pericolosità, apoditticamente recepita dalla relazione peritale).
[22] Sul punto: Corte cost., 23-3-1964, n. 23,               GiC, 1964, I, 1, 193, la quale, pur rigettando la questione di legittimità costituzionale proposta, ha ribadito che l’applicazione delle misure richiede una oggettiva valutazione di fatti, da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona di modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili.
[23] Tar Torino sez. II 05/03/2010 n. 1421. Fonti: Foro amm. Tar 2010, 3. In tale circostanza il sindacato del giudice amministrativo deve limitarsi solo ad aspetti di manifesta irragionevolezza od arbitrarietà dell’iter logico seguito dall’Amministrazione o della motivazione adottata.
[24] Il legislatore ha operato una revisione organica delle misure di prevenzione introducendone di nuove, quali, ad esempio, la prescrizione di comparire presso l’ufficio o il comando di polizia in orario compreso nel periodo di tempo nel quale si svolgono le manifestazione sportive, misura che può essere adottata dal questore nei confronti di persone che risultino denunciate o condannate per determinati reati o che abbiano preso parte ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nelle stesse circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, art. 6, 1° comma, l. 401/1989. Quest’ultima misura – che può avere una durata massima di tre anni – non è disposta dall’autorità giudiziaria, bensì dalla polizia, con la conseguenza che l’intervento del giudice si ha nelle forme sommarie della convalida e che il diritto di difesa può essere esercitato solo nelle forme semplificate previste, appunto, per il giudizio di convalida. E la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla suddetta disciplina, si è limitata a dichiarare l’incostituzionalità “nella parte in cui non prevede che la notifica del provvedimento del questore contenga l’avviso che l’interessato ha la facoltà di presentare o a  mezzo del difensore, memorie o deduzioni al giudice per le indagini preliminari” (Corte cost.  144/77), senza arrivare, come auspicato dalla dottrina, ad una radicale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 6, 3° comma, della l. 401/1989 “in quanto esso utilizza – per l’irrogazione “definitiva” e “duratura” di una misura “afflittiva” e/o “degradante” – le forme “sommarie” del giudizio di convalida di un provvedimento “cautelare”. Si finisce così per applicare a misure afflittive la cui durata può protrarsi per mesi – senz’altro rientranti  nella previsione del 2° comma dell’art. 13 Cost. – il modello della convalida giudiziale fissato per il provvedimento provvisorio di polizia dal 3° comma del medesimo articolo, M. Ruotolo. Art. 13. in Commentario alla Costituzione,a cura di Raffaele Bifulco, Alfonso Celotto, Marco Olivetti, Torino, 2006 vol. 1, p. 321-341.
[25] Cassazione penale sez. I 19/05/2010 n. 24179. Fonti: Ced  Cassazione penale 2010.
[26] Cassazione penale sez. VI 30/09/2010 n. 41677. Fonti: Ced Cassazione penale 2010.
[27] Corte di Cassazione sez. un. 4880/2015. Le Sezioni unite hanno affermato la natura preventiva dell’ipotesi della confisca introdotta nell’ordinamento con la legge n. 646/1982 e attualmente disciplinata  dagli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 159/2011 (cosiddetto “codice antimafia”). Sulla scorta di tale qualificazione, il Massimo Collegio ha così ammesso l’efficacia retroattiva della misura. Le modifiche introdotte all’art. 2bis della l. n. 575 del 1965 non hanno, infatti, modificato la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, di guisa che rimane tuttora valida l’assimilazione alla misura di sicurezza e, dunque, l’applicabilità in caso di successione di leggi nel tempo della previsione di cui all’art. 200 cp e cioè del principio del “tempus regit actum”.
[28] Cassazione penale sez. II 18/05/2010 n. 24342. Fonti: Ced Cassazione penale 2010.
[29] In tal senso si veda Consiglio di Stato sez. III 04/05/2016 n. 1752. Fonti: Redazione Giuffrè amministrativo 2016.

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