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La cronaca del territorio ci consente di approfondire alcuni temi di enorme importanza (anche e soprattutto pratica) per coloro che studiano ed applicano il diritto penale per la migliore tutela dei diritti sia delle vittime che degli indagati/imputati.

E’ di appena qualche giorno addietro la notizia che un uomo veniva sorpreso dalla polizia vicino a una ragazza di circa vent’anni svenuta per terra, in coma etilico e apparentemente stuprata. Succede a Milano di notte, ma potrebbe succedere (e, purtroppo, accade) ovunque. Secondo le prime ricostruzioni la ragazza era in compagnia di amici e dopo qualche bicchiere di troppo si sarebbe appartata con un ragazzo nei bagni della discoteca ove con alcuni amici si era recata per passare la serata.

Ripresa conoscenza non ricordava nulla dell’aggressione e, come detto, l’unico dato di fatto immediatemnte percepibile era che l’accusato si trovava accanto a lei con i pantaloni abbassati.

La ricostruzione dell’accaduto – sebbene in difetto del fondamentale apporto conoscitivo della persona offesa – sarà indagato dall’Autorità Giudiziaria.

Quello che vogliamo qui evidenziare – astenendoci da commenti di carattere morale e con un approccio “scientifico” alle dinamiche di causazione dei reati – è che in taluni casi (tanto più in tema di reati legati alla sfera sessuale e compiuti da soggetti legati da vincoli parentali e/o amicali alla vittima) la dinamica che ha condotto alla commissione di un crimine è un coacervo di interazioni dinamiche che legano reo-vittima-ambiente in un sistema circolare ove l’uno influenza l’altro e viceversa; sicchè il reato non è il termine di una catena lineare di causazioni (rapporto di causa/effetto) bensì un’evenienza assai complessa ove gli “apporti” dei soggetti coinvolti devono essere attentamente valutati (anche nell’ottica della prevenzione del crimine e della opportuna risposta del dirito penale a seguito del fatto compiuto).

Uno dei compiti del difensore nella salvaguardia dei diritti dell’incolpato è anche quello di scandagliare, individuare, studiare e verificare – non solo tutti gli aspetti materiali del commesso reato (prove ed indizi) ma anche la natura delle relazioni, delle dinamiche e delle interazioni tra reo e vittima al fine di identificare gli apporti dei due soggetti protagonisti del crimine.

Non si tratta, ovviamente, di individuare a tutti i costi ed oltre ogni logica una co-responsabilità della vittima nella verificazione del reato dalla stessa subito con lo scopo di “diminuire” la resposnabilità dell’incolpato.

Si tratta, invero, di uno studio attento e ragionato (resistente a comprensibili spinte solidarizzanti con la vittima) volto a individuare ed approfondire i rapporti di azione/reazione tra la vittima del reato e l’accusato ovvero tutta quelle serie di feedback incrociati che si sono succeduti nel tempo tra affender e persona offesa per comprendere i reali contributi delle persone coinvolte nel fatto-reato.

Per la difesa più efficace del reo, il migliore trattamento della vittima e la prevenzione stessa del crimine è necessario comprendere fino in fondo la relazione vittima/incolpato e non considerare la prima solo l’oggetto finale inconsapevole e “immobile” della condotta illegale altrui.

La ricerca, come detto, non è volta all’invididuazione di una corresponsabilità ma alla esatta qualificazione della relazione tra le due figure centrali del fatto storico reato.

Il ruolo della vittima nella genesi e nella dinamica del reato, peraltro, è prevista anche dal Legislatore quale dato direttamente influente sulla valutazione della responsabilità dell’offender: si pensi (solo per citarne alcuni di immediata comprensione) all’attenuante dell’aver agito in uno stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui (art. 62 n. 2 c.p.) o l’aver agito (l’ìncolpato) in concorso con il fatto doloso della persona offesa (art. 62 n. 5 c.p.).

Il termine “vittima” è impiegato abitualmente in criminologia, ma nel diritto penale non compare.

Nel contesto penalistico si ritrovano concetti come “offeso”, “parte lesa” o “soggetto passivo”.

L’interesse scientifico per la vittima (in generale ed in relazione ai suoi interscambi con l’aggressore) si intesificò e divenne più sistematico alla fine della seconda guerra mondiale. I primi approcci vittimologici focalizzavano la ricerca sull’identificazione: 1) dei fattori che potevano contribuire a delineare modelli non casuali di vittimizzazione;

2) nonchè all’individuazione di tipologie di vittime che potevano aver contribuito alla propria vittimizzazione (ovvero che a causa del loro comportamento si erano magiormente esposte al rischio di rimanere offese da un reato).

I primi vittimologi cercavano di capire sia i fattori che conducevano il reo a scegliere determinate vittime (invece di altre) sia il comportamento, l’atteggiamento o il modo di essere di una vittima che poteva aver interagito con il criminale.

Dall’analisi degli atteggiamenti e delle qualità della vittima, si cercava di estrapolare i caratteri che conducevano, di regola, ad agevolare, avviare, incoraggiare o determinare la dinamica della vittimizzazione.

Conseguenza era l’elaborazione di tipologie e classificazioni di vittime e delle loro caratteristiche.

Già allora si evidenziarono quali fattori di rischio gli handicap fisici, sociali e psicologici che determinano una minore capacità di resistenza all’aggressione e un maggior rischio di vittimizzazione.

Lo scopo (ancora oggi perseguito) dello studio della vittima del reato è quello di identificare quali sono i fattori che favoriscono, attivano o causano l’interazione con il criminale.

L’obiettivo perseguito attraverso lo studio della vittima è, quindi, quello di ottenere un insieme di elementi utili per lo sviluppo delle discipline che si prefiggono di contribuire alla sicurezza, alla legalità e alla difesa sociale.

Oggetto della vittimologia è, dunque, lo studio della vittima del crimine, della sua personalità, delle sue caratteristiche psicologiche, morali, sociali e culturali, delle sue relazioni con il criminale e del ruolo che ha eventualmente assunto nella genesi e nello svolgimento del fatto/reato.

A questo proposito, non sfugge ovviamente il potenziale della vittimologia anche per la opportuna analisi della resposnabilità dell’offender alla luce dell’interazione dinamica con la vittima e, in particolare, delle condotte adottate dall’agente in risposta a quelle agite dalla persona offesa (lo si ripete: non in chiave moralistica e moraleggiante ma per un esame scientifico delle condotte umane coinvolte).

Le aree di analisi della vittimologia sono: 1) le caratteristiche delle vittime e i rischi di vittimizzazione; 2) le specifiche predisposizioni vittimogene e i meccanismi di vittimizzazione; 3) il rapporto tra vittima e criminale; 4) il contesto socio-ambientale entro il quale è stata compiuta un’azione criminale; 5) le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali; 6) la prevenzione del crimine dal punto di vista della vittima.

È possibile procedere ad una serie di sotto-distinzioni della nozione di vittima di reato secondo il grado di coinvolgimento della vittima ovvero secondo il contributo criminogenetico apportato dalla condotta della vittima stessa.

La ricerca vittimologica si è interessata dell’individuazione e dello studio: a) delle c.d. predisposizioni vittimogene; b) delle condizioni di vulnerabilità di alcune categorie di soggetti; c) dei contesti del crimine.

La dottrina si è chiesta se le probabilità di divenire vittima di un reato fossero distribuite in modo univoco tra la popolazione. Davanti ad una risposta negativa, sono stati enucleati fattori e condizioni che incidono sul rischio di vittimizzazione.

Esistono circostanze e qualità, tipiche di alcuni soggetti, che favoriscono certi tipi di condotta criminale: a questo proposito si parla di predisposizioni vittimogene, rappresentate dal nucleo di elementi e di caratteristiche che determinano, facilitano o ispirano la commissione di un dato reato. Le predisposizioni vittimogene abbassano le difese dell’individuo-potenziale vittima e ne aumentano la vulnerabilità.

Una predisposizione di ordine generale sarebbe riscontrabile nelle vittime c.d. nate ovvero in quelle c.d. recidive. Si tratta di quelle persone che subiscono continuamente episodi di vittimizzazione e sono soggette a durature relazioni abusanti sia dal punto di vista fisico che (sempre più spesso) psichico. In genere, si tratta di personalità che hanno una alta soglia di sopportazione della sofferenza, espressione di una volontà autopunitiva. Le cause sono da rintracciarsi in questioni di natura psicologica o patologica: ciò può dipendere da fattori inconsci, da stati depressivi che possono portare a impulsi e a tendenze autolesionistiche e autodistruttive.

Le predisposizioni vittimogene specifiche, invece, esprimono quello che viene chiamato “rischio differenziale”, ovvero quel rischio derivante da particolari caratteristiche, qualità o rapporti tipici del soggetto che lo contraddistinguono quale individuo particolarmente esposto ad un dato crimine.

Grande è stata l’attenzione dedicata dalla ricerca criminologica allo studio dei processi di vittimizzazione di alcune categorie che risultano particolarmente vulnerabili. L’interesse si è focalizzato su alcune categorie di vittime caratterizzate da due specifici elementi:

– la posizione particolarmente debole sul piano giuridico e sociale;

la ridotta possibilità di denunciare il reato.

Tra questi gruppi di vittime più esposti a rischi di criminalizzazione, discriminazione e violenze rientrano i bambini, gli anziani, le donne e gli appartenenti a minoranze etniche. In particolare, la violenza nei confronti della donna è un fenomeno oggi largamente diffuso ma che ha origini antichissime. Per molto tempo è rimasto nascosto e rinchiuso nelle stanze private delle famiglie. La convinzione che nella maggior parte dei casi l’aggressività maschile, contrapposta alla sottomissione e alla dipendenza femminile, sia un fatto naturale e, come tale, inevitabile, ha fatto sì che fosse accettata, per molto tempo, la violenza sulla donna come fenomeno “normale” e la donna fosse considerata una vittima “accettabile”.

La ricerca ha rivolto la sua attenzione anche ai contesti nei quali si verificano con più frequenza relazioni abusanti ovvero di prevaricazione fisica e psicologica.

Particolamrnete a rischio sono risultati quegli ambienti ove maggiore è l’interazione tra i soggetti: famiglia, scuola e luogo di lavoro.

L’indagine delle caratteristiche e del comportamento della vittima durante il reato si basa sull’osservazione:

a) del rapporto tra il grado di fungibilità della vittima e la pericolosità sociale dell’autore;

b) del grado di partecipazione della vittima;

c) del modo di tale partecipazione;

d) del grado della colpa.

Vengono definite vittime fungibili quelle che non adottano alcun comportamento che possa determinare il comportamento del reo. Non c’è alcun rapporto rilevante tra reo e vittima, l’identità della quale è pressoché indifferente per il criminale.

Vittime infungibili sono, invece, le vittime caratterizzate da una precisa relazione con l’agente. Tali soggetti assumono il ruolo di vittima per aver, in qualche modo, determinato, facilitato o indotto l’autore alla commissione del reato. Non significa che essi realizzino una condotta di collaborazione in senso penalistico, ma che semplicemente favoriscono la preparazione o la messa in atto del comportamento dell’agente anche solo sul piano psicologico e senza alcuna resposnabilità penale.

Le probabilità di vittimizzazione sono direttamente proporzionali all’infungibilità del soggetto e, quindi, all’intensità del rapporto interpersonale con l’offender. Del resto, pensando ai reati di violenza è statisticamente noto come la maggior parte dei reati si consumino in ambito famigliare/domestico e tra soggetti che hanno relazioni interpersonali.

La pericolosità del delinquente è direttamente proporzionale alla fungibilità della vittima. Nei reati a vittima impersonale o con spersonalizzazione della vittima (ovvero quando per l’autore non ha importanza l’identità della vittima) la motivazione del reo è molto forte e prescinde dalla personalità del soggetto passivo: ciò che conta è il perseguimento dello scopo criminoso.

La partecipazione della vittima al reato non significa necessariamente corresponsabilità della vittima, bensì solo coinvolgimento nella dinamica del reato. Di qui la distinzione tra vittima attiva e passiva.

Vittima attiva è quella che può aver collaborato nel determinismo del fatto delittuoso, secondo una prospettiva esclusivamente psicologica e morale ma non giuridica. Si pensi alla vittima che diventa tale a causa della specifica professione svolta (agenti di polizia e guardie giurate che devono contrastare attivamente rapine e rimangono vittime dei conflitti a fuoco). Si pensi alla vittima che aggredisce ovvero a quella che con il suo comportamento può addirittura aver favorito il delitto.

Vittima provocatrice, poi, è quella che subisce la violenza per aver, in precedenza al crimine, suscitato in vario modo l’esasperazione, l’ira o la ribellione di colui che poi reagirà perché provocato.

La vittima passiva è connotata da totale passività rispetto all’attivazione del reo. Non è ravvisabile alcun atteggiamento psicologico o alcun comportamento che abbia in alcun modo contribuito alla genesi del delitto, ovvero che abbia indotto l’autore a scegliere specificamente quella vittima. Si pensi alla vittima accidentale (che diventa tale per puro caso), alla vittima c.d. preferenziale (scelta specificamente dal reo a causa del suo ruolo, della posizione economica e delle altre situazioni oggettive favorenti quel delitto), alla vittima simbolica (che è scelta per ciò che rappresenta).

Il c.d. grado di colpa corrisponde al quantum di responsabilità da attribuire alla vittima per il verificarsi dell’evento delittuoso. Si passa dalla vittima completamente innocente (è il caso dei bambini), alla vittima per ignoranza o per colpa lieve (è il caso del passeggero che a bordo di un’auto distrae il conducente e causa la sbandata del veicolo a seguito della quale rimarrà ferito o ucciso), al soggetto colpevole quanto il delinquente (esempio del suicidio con la roulette russa o nel suicidio in coppia), al soggetto più colpevole del delinquente (è la vittima provocatrice che consapevolmente si assume il rischio della reazione incontrollata del reo.

Detto ciò, come insegna autorevole Autore (Mantovani, ndr) la difesa sociale e la politica criminale e, aggiungiamo noi, la giustizia concreta applicata, devono tendere alla “costante sintesi delle posizioni della vittima e del reo”.

(Con la collaborazione della Dr.ssa Annalisa Gasparre)

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