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Pubblichiamo in questa pagina un modello di motivi nuovi e aggiunti all’Atto di Appello disciplinato nel libro nono titolo secondo del codice di procedura penale e segnatamente dall’art. 593 e ss. c.p.p..

Come è noto, l’atto di Appello introduce il giudizio di secondo grado dopo la celebrazione del primo. Si tratta – in sostanza e rinviando la trattazione della disciplina specifica dell’Appello ad altre pagine del sito – di un secondo processo che si celebra però (di norma) alla luce degli atti presenti nel fascicolo processuale di primo grado (trascrizioni, verbali, documenti etc.) e non già ripetendo l’istruttoria dibattimentale eseguita in primo grado (ad esempio, NON verranno ascoltati nuovamente i testimoni).

E’ possibile chiedere – per la parti che presentano l’Appello –  la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ed è altresì possibile che sia la stessa Corte di ufficio a disporla; ma si tratta di casi piuttosto rari. Il Giudizio di secondo grado è e rimane un giudizio quasi sempre cartolare (per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale vedi l’art. 603 c.p.p.) ove le parti (Accusa e Difesa) intervengo rispettivamente con la requisitoria e l’arringa.

Le parti, quindi, hanno il diritto di rivolgersi alla Corte di Appello sottolineando tutte quelle incongruenze  – alla luce degli atti assunti in primo grado – della Sentenza richiedendone la riforma.

Possono proporre appello sia l’imputato che il Pubblico Ministero alle Sentenze emesse a seguito del giudizio ordinario, al giudizio abbreviato ed al Giudizio immediato (quest’ultimo riconducibile a quello ordinario o al giudizio abbreviato a seconda del rito scelto dall’imputato e contraddistinto dal fatto che non è celebrata l’udienza preliminare). La sentenza di patteggiamento NON ammette l’appello ed è ricorribile solo per Cassazione (peraltro, il ricorso per Cassazione è l’impugnazione che la Costituzione all’art. 111 garantisce per tutte le decisioni Giudiziarie).

La parte civile – ovvero la vittima del reato che si è costituita parte civile con l’apposito atto per affiancare l’accusa pubblica (il PM) e chiedere un risarcimento – può impugnare in Appello la Sentenza di primo grado esclusivamente per le sole disposizioni patrimoniali e non già reclamando la condanna dell’imputato alle sanzioni (detentive e non) previste dal codice penale per il reato contestato al soggetto processato.

L’imputato non può ovviamente impugnare le Sentenze di proscioglimento (si veda l’art. 593 c.p.p.: Casi dell’appello) e quella di condanna alla sola pena pecuniaria (tale disciplina è stata introdotta nel 2006 dalla Legge “Pecorella). In ogni caso, tutte le volte che il solo imputato presenta l’Appello, vi è il divieto di una riforma in peggio della Sentenza impugnata: nella peggiore delle ipotesi la Corte confermerà quanto deciso dai Giudici di primo grado. Diversamente, se la Sentenza è impugnata sia dalla difesa che dall’accusa o solo dall’accusa, la Corte potrà anche rendere più afflittiva la decisione del Giudice di primo grado.

L’atto di Appello si presenta di norma presso la cancelleria del Giudice che ha emesso la Sentenza di primo grado (ma si può anche spedire per raccomandata) e deve essere depositato entro precisi termini temporali previsti (a pena di decadenza) dall’art. 585 c.p.p. che variano a seconda dei termini che il Giudice del primo grado si è dato per il deposito delle motivazioni della Sentenza e possono essere 15, 30 o 45 giorni (e ciò rispettivamente se le motivazioni del primo grado sono state depositate – ex art. 544 c.p.p. – immediatamente, entro il quindicesimo giorno oppure entro il novantesimo giorno successivo alla lettura del dispositivo). In ogni caso – secondo l’art. 568 c.p.p. ultimo comma – l’atto di Appello è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione della qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta e se l’impugnazione è proposta al Giudice incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente.

L’art. 581 c.p.p. disciplina in generale le modalità formali con le quali deve essere redatto l’atto di impugnazione (ricorso per Cassazione ed Appello):

l’atto deve essere scritto e devono essere indicati tutti gli estremi dell’atto che si intende impugnare (chi lo ha emesso, quando ed in quale procedimento);

i capi ed i punti dell’atto impugnato ai quali si riferisce l’appello;

le richieste che si avanzano con l’atto di appello ovvero le riforme pretese;

– i motivi dell’impugnazione con l’indicazione specifica delle ragioni DI DIRITO E DI FATTO che sorreggono le richieste di riforma del provvedimento impugnato.

Questo è un aspetto fondamentale: l’atto di Appello deve indicare in maniera attenta, precisa e specifica tutti quegli aspetti di diritto e di fatto alla luce dei quali la parte che presenta Appello ritiene che la Sentenza debba essere riformata. Certamente l’intervento orale in udienza con la requisitoria e l’arringa permette alle parti di illustrare la loro posizione; ma la Corte le ascolterà dopo aver letto e studiato l’atto di Appello presentato che rimane la traccia ESSENZIALE alla luce della quale la Corte si pronuncerà. Da sottolineare che – diversamente dal ricorso per Cassazione che riguarda solo doglianze di puro diritto – con l’atto di Appello si possono muovere censure alla Sentenza sia di diritto (quindi, l’erronea applicazione ed interpretazione delle norme di Legge) che di fatto ovvero in ordine alla ricostruzione del fatto storico così come avvenuta durante il processo di primo grado e cristallizzata nella Sentenza di primo grado.

L’illustrazione scritta dei motivi di Appello, quindi, è di primaria, fondamentale e di intuitiva importanza in relazione all’istaurazione del Giudizio di secondo grado.

L’articolo 585 c.p.p. (termini per l’impugnazione) disciplina anche la presentazione dei motivi nuovi ed aggiunti. 

Ed infatti, una volta presentato l’atto di appello nei termini di cui sopra previsti dal medesimo art. 585 c.p.p., il comma 4^ prevede che ….fino a quindici giorni prima dell’udienza possono essere presentati nella cancelleria del giudice dell’impugnazione motivi nuovi nel numero di copie necessarie per tutte le parti. L’inammissibilità dell’impugnazione si estende ai motivi nuovi. 

Il Legislatore, con tale disposizione, dà quindi alle parti che hanno impugnato la Sentenza di primo grado, il diritto di illustrare fino praticamente al giorno della discussione (il termine di quindici giorni è da ritenere il minimo necessario per dare alla Corte il modo di prendere effettiva contezza delle nuove ragioni della parte impugnante) tutti i profili di illegittimità di diritto e di fatto che colpirebbero la decisione del Giudice del primo grado.

E’ effettivamente l’ennesima “spia” (oltre a quelle sopra accennate in ordine all’invio dell’atto di impugnazione anche per raccomandata e all’irrilevanza dell’errore della parte che ricade sulla qualificazione dell’atto di Appello ed il suo deposito presso il Giudice incompetente) alla luce della quale si intuisce chiaramente la posizione del Legislatore che estende e tutela il diritto più ampio della parte di invocare una revisione della decisione svantaggiosa. Senza contare che il deposito dei motivi aggiunti permette di fatto alla parte di giovarsi di un lasso di tempo assai ampio (fino a quindici giorni prima dell’udienza avanti alla Corte!) per organizzare la propria difesa in secondo grado dopo aver presentato i primi motivi entro i termini perentori di cui all’art. 585 c.p.p..

*****

Illustriamo qui di seguito il modello di motivi nuovi ed aggiunti di un Atto di Appello precedentemente depositato.

Si tratta di una grave vicenda ove imputato è un minore accusato di aver commesso una rapina ai danni di un esercizio commerciale.

Interessante è notare – oltre all’organizzazione grafica dell’atto (con una attenzione particolare alla chiara esposizione del motivo di appello quasi fosse il titolo di un articolo a cui segue l’attenta illustrazione delle motivazioni addotte dalla Difesa) – che l’atto di Appello riguarda censure sia di fatto che di diritto inerenti le indagini svolte.

ATTENZIONE: ALCUNI STRALCI DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO INSERITI IN FORMATO PDF NELL’ATTO ORGINALE QUI PUBBLICATO NON SONO STATI RIPRODOTTI PER MOTIVI DI RISERVATEZZA.

ILL.MA CORTE DI APPELLO
DI MILANO

Sezione penale per i minorenni
motivi nuovi e aggiunti
Reg. Gen. App. 77/2013
RG TRIB 462/12
RGNR 1148/08 mod. 21
Sentenza n. 567/14
Udienza del 28 maggio 2015

Il sottoscritto Avv. Giuseppe Maria de Lalla del Foro di Milano difensore di
G. Cristian
compiutamente generalizzato in atti, con domicilio eletto presso lo Studio dello scrivente difensore, imputato nel procedimento penale indicato in epigrafe,
PREMESSO
• Che in data 06.11.2014 il Tribunale per i minorenni di Milano condannava nel procedimento penale RG TRIB 462/12 – RGNR 1148/08 con Sentenza n. 567/2014 G. Cristian alla pena di anni 3 di reclusione ed € 516,00 di multa riconoscendolo colpevole del reato di cui al capo A) e altresì lo assolveva per il reato di cui al capo B);
• Che veniva fissato per il deposito delle motivazioni della Sentenza il termine di giorni 60;
• Che in data 07.01.2015 veniva depositata la Sentenza n. 567/14;
• Che in data 29.1.2015 veniva depositato appello dalla scrivente difesa con riserva dei motivi nuovi e aggiunti;
• Che veniva fissata udienza per la trattazione del predetto G.me la data del 28.5.2015
***
tutto ciò premesso, con il presente atto il sottoscritto difensore intende depositare, come in effetti, deposita
MOTIVI NUOVI E AGGIUNTI
Il presente atto ripercorrerà per confutarle le argomentazioni del Tribunale seguendo passo passo il dipanarsi delle inferenze operate dal Giudicante nel medesimo ordine di esplicazione adottato nella impugnata Sentenza.
Verranno analizzate le dichiarazioni dibattimentali della Z. (non solo sul fatto ma anche in tema di applicazione dell’art. 500 comma IV^ c.p.p.).
Poi dell’altro teste ovvero del fratello.
Ed infine saranno analizzati tutti i punti (diciamo, riassuntivi) del processo motivazionale del Collegio di cui a pag. 8 della Sentenza.
Il presente atto riporterà in parte stralci della sentenza e delle trascrizioni con l’inserimento nel corpo di piccoli formati PDF ed altri – per snellezza di lettura – semplicemente trascritti dal redattore.
Non mancheranno stralci in grassetto ed evidenziazioni nonché MAIUSCOLI per agevolare la memoria visiva di chi legge.
Naturalmente il presente atto rappresenta un unicum, con l’atto di appello già depositato.

1. Errata interpretazione ed applicazione degli artt. 512 c.p.p. e 500 comma III^ c.p.p. in relazione all’acquisizione dei verbali di S.I.T. rilasciate alla P.G. in fase di indagini preliminari dai due testi Z. Lindan e Z. Jinlai.
Errata applicazione indiretta dell’art. 500 comma IV^ c.p.p..

Come si legge nella Sentenza impugnata, al termine dell’istruttoria dibattimentale il Pubblico ministero avanza istanza ex art. 512 c.p.p. (pag. 2 della Sentenza) in relazione alle dichiarazioni dei due testi escussi:

Il tribunale decideva di acquisire i predetti S.I.T ex art. 500 comma III^ c.p.p. ritenendo gli stessi testi vittime di minacce (agite direttamente dall’imputato) tese a ritrattare in aula le dichiarazioni rilasciate in sede di sommarie informazioni (pag. 6):

Orbene, la decisone del Tribunale – che, lo si sottolinea fin d’ora, ha completamente falsato la ricostruzione processuale dei fatti – è censurabile sotto plurimi aspetti sia di fatto che più marcatamente procedurali.
Innanzitutto – sebbene si tratti di una richiesta del Pubblico Ministero – occorre qui censurare l’errato richiamo in sentenza dell’art. 512 c.p.p..
Ed invero, non vi è elemento alcuno emerso in dibattimento dal quale desumere che si siano realizzati gli estremi per l’applicazione dell’articolo in parola preso atto che i due testi venivano puntualmente citati ed escussi senza che si prefigurasse nessuna impossibilità imprevedibile ad effettuare la loro audizione durante il processo.
Ugualmente, il richiamo del tribunale all’art. 500 comma III^ c.p.p:

3. Se il teste rifiuta di sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante.

Non pare assolutamente conferente preso atto che vi è stato nessun rifiuto dei testi a deporre.
Il Tribunale, invero, cita ed applica un articolo di Legge errato.
Di fatto, veniva applicato il comma 4 dell’articolo in parola preso atto che nella Sentenza impugnata vi è un esplicito richiamo ad azioni tese ad intimorire i testimoni.
Il Giudice di prime cure, quindi, applica una norma di legge – l’art. 500 comma III^ c.p.p. -acquisendo i verbali di SIT che non trova alcun presupposto nel caso di specie

Di caratura assolutamente diversa e, soprattutto, con un effetto determinante sull’erronea decisione che qui si impugna, è la determinazione del Giudice di prime cure di acquisire i predetti verbali di S.I.T. dei fratelli Z. per l’errata rappresentazione di fatto del comma 4 dell’art. 500 c.p.p.; determinazione che si evince dal richiamo operato in sentenza di asserite minacce alle quali sarebbero stati sottoposti i due testimoni.
L’acquisizione in concreto dei due verbali di SIT veniva attuata dal Tribunale:
– pur in difetto dei presupposti di fatto (e, quindi, di legge);
nonché decisa sebbene evidenti le insanabili patologie dei due atti:
• assunti in assenza di un interprete (richiesto in dibattimento per la giovane testimone);
• utilizzando quale interprete il fratello – anch’egli persona informata dei fatti – per le dichiarazioni della sorella;
• assunti contemporaneamente dalle due persone informate sui fatti;
• redatti utilizzando chiaramente il “copia e incolla”;
• assunti con l’indicazione di elementi e circostanze disconosciute di fatto in dibattimento dai due testimoni (saranno analizzate nel proseguo dettagliatamente ma qui vale la pena menzionarne una tra le più eclatanti ovvero l’asserita indicazione in sede di S.I.T. dell’indirizzo di residenza del G. che la teste Zengh ripeteva più volte di non conoscere:

E’ però necessario ed utile in questa sede richiamare preliminarmente alcune decisioni giurisprudenziali atte ad individuare l’esatta interpretazione ed applicazione della norma in parola che, per la scrivente difesa, non è stata correttamente applicata nel caso di specie.
Dalla lettura della norma di cui all’art. 500 comma IV^ c.p.p., invero, si evince che la giusta applicazione della stessa dipende dal significato pratico che l’interprete dà ai termini elementi concreti (rectius: al concetto espresso dai suddetti termini) e, con più precisione, all’aggettivo utilizzato dal Legislatore.
Orbene, in numerose Sentenze plurimi Giudici – di merito e di legittimità – definivano tale fondamentale requisito della norma sottolineando la necessaria verificazione di fatti (deponenti per la minaccia e la violenza) dotati di precisione, obiettività significatività e verificabilità (come, ad esempio, la commissione di un crimine antecedente o contemporaneo al dibattimento in danno del teste o di persone allo stesso collegate).
Non è sufficiente, quindi, che vi sia discrasia e contrasto tra quello che i testi hanno riferito in sede di indagini preliminari (ovvero di S.I.T.) e quanto dagli stessi poi trasmesso alle parti ed al Giudice in aula nel corso del dibattimento; né che la deposizione, in generale, non sia veritiera.
Occorre, invero, che quanto il testimone riferisce in aula (evidentemente in contrasto con quanto antecedentemente esposto in genere alla PG delegata) sia effettivamente frutto di una coazione dovuta ad elementi esterni agiti e minacciati in suo danno (diretto o indiretto) che siano – quanto meno – individuati ed individualizzabili nella loro verificazione spazio/temporale e che oltrepassino la sfera della supposizione e raggiungano quella della plausibilità logica verificabile .
Una semplice congettura – magari anche alimentata da alcuni passaggi del dibattimento – non suffragata, però, da dati di fatto (antecedenti e/o contemporanei alla testimonianza) realizzatisi nella loro storicità ed in qualche modo documentati (perché verificatisi al cospetto dei Giudici o agli stessi trasmessi da precedenti atti di indagini), non ha (e non è legittimo attribuirle) quella “concretezza” sottolineata dal Legislatore nel corpo della norma.
Le massime riportate nelle note (ed anche quelle citate dal Tribunale) fanno riferimento a minacce, violenze (perpetrate anche a mezzo di omicidi), danneggiamenti ed altro che si sono effettivamente verificate e sono state ritenute idonee (a partire, come detto, dalla loro realizzazione) a coartare la volontà dei testi.
*****
Ciò detto occorre verificare se il tribunale di prime cure nel suo percorso logico/argomentativo ha esattamente individuato e ricostruito quegli elementi concreti e verificabili di minaccia alla luce dei quali i testi sarebbero stati coortati a modificare le loro dichiarazioni (e solo dopo sarà opportuno analizzare l’effettiva attendibilità di quanto cristallizzato nei verbali di S.I.T. le cui criticità sono state sopra solo sommariamente indicate).
Per la migliore analisi delle asserite pressioni agite a parere del Tribunale sui testi occorre analizzare separatamente la posizione dei due fratelli Zhang.

2. La asserita paura e coazione della testimone Zhang L. legittimanti l’applicazione dell’art. 500 comma IV^ c.p.p..
Il tenore delle sue dichiarazioni.

Dalla lettura delle trascrizioni si evince immediatamente che il Tribunale di primo grado ha indagato a lungo durante l’esame della teste in relazione all’esercizio nei suoi confronti di una qualche influenza riconducibile ad una di quelle pressioni materiali e psicologiche tese a modificarne il contributo processuale.
Infatti, più volte il collegio domandava alla giovane se in quel momento durante la testimonianza – provasse timore:

Ed è sempre il Presidente che incalza la teste – in sede di esame togliendo di fatto la parola alla Pubblica Accusa – con l’intento di chiarire se la vaghezza della sua deposizione dipendesse o meno dal timore provato nei confronti dell’imputato:

Il tenore delle risposte della giovane non lascia spazio ad una interpretazione diversa: aveva paura al momento dei fatti.
Sul punto non c’è alcuna ritrattazione: nella prima occasione (vedi sopra la prima estrapolazione della sentenza) la giovane alla domanda del Presidente adesso ha paura? Colloca temporalmente tale emozione nel passato ed utilizzando una preposizione di luogo là colloca il timore (comprensibilmente, visto che era stata vittima di una rapina…) al momento dei fatti.
La domanda è diretta; la risposta chiara.
Inoltre, la Z. specificava subito dopo io tremavo tutta collocando ancora una volta l’emozione negativa agli episodi passati utilizzando un verbo al passato.
Sul punto occorre subito fare comunque una riflessione che il Tribunale di primo grado per corroborare le sue errate conclusioni ha omesso del tutto.
La giovane:

– Non è mai stata vittima di una rapina a mano armata;
– Non ha mai testimoniato in un’aula di tribunale;
– Ha vissuto momenti di puro terrore al momento dei fatti;
– Sicuramente è rimasta vittima del c.d. weapon effect rimanendo concentrata sull’arma che le era puntata addosso anziché sulla figura del rapinatore;
– Non comprende correttamente la lingua italiana (anzi, sarebbe meglio dire: non la comprende afatto);
– Si trova al cospetto del tribunale ove viene immediatamente “rimproverata” per non avere il ricordo “fresco e vivo” di fatti accaduti sei anni addietro, sotto la minaccia di un’arma e durati una manciata di secondi;
– E’ oggetto di continue contestazioni in una lingua che non comprende (e sul punto ci dilungheremo oltre ma leggendo il verbale di SIT acquisito e le trascrizioni si evince in maniera lampante oltre ogni argomentazione difensiva che quelle parole verbalizzante dai CC non possono essere state espresse con quella correttezza dalla giovane Z. che sei anni dopo (ovvero dopo sei anni di esercizio della lingua italiana rispetto alla data nella quale veniva escussa a SIT!!) deve ancora esprimersi con l’interprete e soprattutto in maniera incompatibile con il tenore, il lessico, la grammatica e la sintassi che si evincono dal verbale di SIT e malgrado vi siano tali oggettivi impedimenti ad un resoconto sereno degli accadimenti, il tribunale – oltre il dato letterale delle risposte della giovane –

….imputa le insicurezze della giovane ad un timore attuale al momento del processo; timore del quale non vi è nessuna prova e che la teste nega a più riprese e che sicuramente se ci fosse sarebbe stato vivo al momento delle SIT nell’immediatezza dei fatti e non sei anni dopo (tenuto conto anche del fatto che l’esercizio commerciale in parola non è più da anni gestito dalla famiglia Z. che non ha poi negli anni successivi avuto più a che fare con il G.).
Si tratta di un fraintendimento, una forzatura interpretativa che il Tribunale così riassume:

La pura delle possibili ritorsioni è una inferenza del Tribunale basata su delle errate conclusioni e presupposti.
Leggendo attentamente le trascrizioni della testimonianza si evince che:
– La teste riferisce che è stato il fratello a ricondurre il rapinatore all’imputato (sulla base della voce);
– Che non è stata lei direttamente a fare tale collegamento avanti ai CC in sede di SIT;
– Che lei è stata escussa a SIT – come confermato dal fratello – unitamente al padre ed al fratello (che ha fatto da interprete…);
– Che ella non ha mai dato l’indirizzo del G. ai CC perché non lo conosceva.

…..e precisa subito che è stato suo fratello a fare il collegamento rapinatore/imputato:

Sul fatto riportato in sentenza che la teste NON abbia “negato le contestazioni” bisogna affermare che leggendo le trascrizioni si evince come la conclusione del Tribunale non sia corretta.
La teste – nella sua claudicante deposizione – è comunque ferma sul fatto che l’accostamento del rapinatore al G. era stato dal fratello (e sul punto è anche illuminante il controesame della ragazza a cui si rinvia) il quale a differenza di quanto sostenuto in Sentenza nel passo sopra riportato era presenta alla verbalizzazione da lei resa (pag. 28):
Difensore: quando è stata sentita dai carabinieri non c’era l’interprete?
Testimone: no.
Difensore: era in compagnia del papà?
Testimone: si e mio fratello.
Difensore: quando è entrata nella stanza nella stanza proprio per parlare con i Carabinieri eravate in tre?
Testimone: si.
Difensore: quindi quello che diceva lei lo sentivano anche gli altri due e viceversa?, giusto?
Testimone: si.
E si vedano anche le trascrizioni a pag. 58 ove il fratello riferisce esattamente la stessa circostanza.
La testimone – altra interpretazione verificazionista del Tribunale – precisa eccome (!) che i CC riportavano (evidentemente per un semplice errore a scanso di equivoci che questa affermazione potrebbe infondere se maliziosamente interpretata) un verbale che non rispecchia correttamente il suo corretto pensiero.
Vi è chiarezza sul punto ed il Collegio erra se ritiene che ci sia stata adesione della Z. a quanto contestatole in udienza.
Il Presidente – e qui credo che bisognerebbe riflettere sulla portata ansiogena che può avere un intervento di questo tipo del Presidente sulla serenità di una testimone giovane e straniera vittima di una rapina – arriva ad adombrare in maniera retorica il messaggio della teste per il quale i CC si siano inventati alcuni passi della sua escussione:

La teste – con buona pace della NON ritrattazione in sede di contestazione – precisa ancora una volta che (oltre a non sapere se i CC si sono inventati il contenuto del suo verbale…) che è stato suo fratello a “riconoscere” il G. e non lei e precisa – sconfessando di fatto il contenuto del verbale di SIT acquisito – che ella non ha MAI indicato l’indirizzo del G. (via Mazzini 34) ai CC:
Testimone: ma l’indirizzo….non l’abbiamo detto noi, perché noi non sappiamo dove abitano loro.
Presidente: Non sapeva che abitava lì vicino?
Testimone: Non l’abbiamo detto in che via… (sul punto si veda anche il controesame a pag. 32).
Dall’esame di tutti i passaggi riportati e dalla lettura delle trascrizioni, quindi, non risulta provato in modo alcuno che siano state operate sulla teste quelle pressioni tipiche dell’articolo 500 comma IV^ c.p.p..
Vi sono, infatti, come visto e riportato, molteplici e concreti aspetti alla luce dei quali è più che plausibile la fragilità della testimonia della giovane Z. al di là di qualsiasi forma di pressione e coazione (e più avanti si entrerà nello specifico argomentando circa la Sentenza di condanna del G. per la violenza privata tentata – reato così derubricato dall’originaria accusa di subornazione del teste -).
La teste, al contrario, ha risposto in maniera chiara alle domande del Presidente che le chiedevano contezza di una paura attuale che il Tribunale ha attualizzato al momento del processo con una forzatura letterale e logica prima ancora che giuridica.
A riprova di ciò bisogna sottolineare che la testimone – malgrado gli ammonimenti del Presidente che sicuramente non hanno giovato alla sua serenità – ha rimarcato le discrasie della sua deposizione con le SIT (indirizzo del G. in primis e riconducibilità del collegamento voce rapinatore/imputato al di lei fratello).
Sono passati molti anni, l’evento è stato breve, plurime le contaminazioni della sua memoria, del tutto travisato il rapinatore, assolutamente censurabili le modalità del tutto improprie di raccolta delle sue dichiarazioni quale persona informata dei fatti ed altro ancora sopra meglio illustrato: questi gli aspetti che hanno reso la testimonianza di fatto priva di attendibilità non certo asseriti e non provati timori.
Il Tribunale ha attuato quella che chi scrive deve definire una forzatura giuridica affidandosi ad un documento (il verbale di SIT) del tutto inattendibile (per di più. Come vedremo alla doglianza successiva) rimpiazzando così una testimonianza non in linea con le pretese accusatorie ma genuina pur nella sua approssimazione.
Direi emblematico che la Sentenza riporti il dato di fatto errato che la teste sia stata sentita a SIT senza la presenza del fratello e che – sempre errando – il Tribunale del primo grado affermi che la teste non ha smentito le contestazioni quando, come visto, la giovane ha più volte precisato le divergenze emerse in dibattimento con le SIT precedentemente rese.
E il meccanismo errato per scavalcare la testimonianza è stato quello di ritenere fondata l’applicazione dell’art. 500 comma IV^.

Massimamente suggestiva la “gomitata” della teste all’interprete riportata in Sentenza e che emergerebbe anche a pag. 11 delle trascrizioni.
Su questo tema bisogna fare diverse riflessioni che portano a concludere che il portato probante di tale eventualità è pari a zero.
Innanzitutto, l’udienza non è video registrata.
Non è possibile affermare che ci sia stata.
Attenzione: NON si tratta di affermare la malafede del Presidente che ne ha dato atto.
Tale conclusione non è ammissibile e non appartiene a chi scrive.
Molto più semplicemente NON è possibile né corretto escludere che si sia trattato dell’ennesimo malinteso dettato dal verificazionismo inconsapevole del Tribunale nel giudicare un pluripregiudicato della comunità Sinti (e che il giorno in cui si discuterà questo processo di secondo grado sarà l’imputato di altri due procedimento sui quali Codesta Corte dovrà pronunciarsi).
Come è possibile affermare che sicuramente il Presidente abbia percepito effettivamente ciò che è accaduto? Solo perché è stato verbalizzato?
Per qual che vale, il sottoscritto non ha percepito alcunché e nelle trascrizioni non vi è traccia in tal senso nemmeno da parte della Pubblica Accusa né da parte dell’interprete.
Ed in ogni caso, come è possibile sposare senza dubbio alcuno la fondatezza dell’inferenza del Presidente circa la veicolazione da parte della teste all’ausiliaria del Tribunale di un messaggio teso ad impedirle di tradurre correttamente?
Si noti questo sul punto: a pag. 12 – subito dopo che il Presidente invita l’interprete a non mettersi nei guai – l’interprete afferma che la teste avrebbe detto che…ci sono un pò di cose che non è vero…(e mi piace qui sottolineare come forse una interprete che sapesse davvero la lingua italiana avrebbe permesso una maggiore fluidità delle testimonianza limitando magari i fraintendimenti del Tribunale) riferendosi al SIT appena contestato alla Z..
Il Presidente, ancora una volta, insinua che la teste sosterrebbe la cattiva fede dei militari:….quindi se la sono inventata (e parliamo sempre dell’indirizzo esatto del G. Nd.R.) i Carabinieri quella dichiarazione signora Z. Lindan…? (e devo ammettere – ma è una nota di colore – che il fatto di chiamare la teste con il nome ed il cognome appare quasi già una condanna soprattutto se a pronunciarlo è un Giudice che ti ha ammonito fino a quale momento).
La teste in tutta risposta non dice di no. Afferma che non lo sa e che è stato il fratello ad affermare che assomigliava al G. il rapinatore ma non lei.
E quindi la ricostruzione del Presidente – gomitata come prova del timore della teste e finalizzata a far si che l’interprete non traduca elementi a carico dell’imputato – deve essere interpretata diversamente ovvero in linea con le altre risultanze della testimonianza della Z. ovvero come (se la gomitata c’è stata non notata nemmeno dal PM) volontà della teste di NON comunicare la Giudice che a parere suo i Carabinieri avevano inserito nel verbale di SIT ….un pò di cose che non è vero…giusto per utilizzare le parole che chi legge troverà nelle trascrizioni.
La paura non è nei confronti del G. ma di indispettire il Giudice sostenendo che i CC non avevano correttamente verbalizzato le sue dichiarazione che le vengono contestate.
Di questo è impaurita e sbigottita la teste. Non da altro.
****
Altro elemento suggestivo riportato in Sentenza: il Tribunale afferma che la rilettura da parte dei CC del verbale di SIT alla Z. è la prova della sua genuinità visto che la stessa lo ha firmato.
Io ritengo che tale conclusione alla luce delle trascrizioni della testimonianza sia inaccettabile e la Corte non può ignorare un dato di fatto che è tale e non è una argomentazione che si può liquidare come meramente difensiva.
La testimone Z. non parla e comprende correttamente la lingua italiana.
Questo è un dato di fatto che la lettura delle trascrizioni prova al 100%. Altro non si può osservare.
L’eloquio è a dir poco incerto. La grammatica inesistente. I verbi inappropriati. La sintassi del tutto scorretta. Il vocabolario basilare. I verbi non coniugati.
E questo dopo sette anni che la giovane vive e lavora in Italia rispetto a quando rilascia le dichiarazioni assunte a SIT dove vengono utilizzati termini come:
– Chiaro accento zingaresco (? Ndr);
– Pistola automatica (e poi vedremo che la teste non sa nemmeno la differenza tra arma automatica e a tamburo);
– Giovane travisato (!);
– Sotto la minaccia dell’arma;
– Lo stesso è ben conosciuto alla sottoscritta
Ed altro ancora.
Non vi è dubbio, non può esservi dubbio che tale linguaggio non può appartenere alla testimone che sette anni dopo (ovvero dopo un lasso di tempo durante il quale il suo italiano deve per forza essere migliorato non fosse altro che per l’esercizio quotidiano) si esprime come una analfabeta e ha bisogni per farsi capire di un interprete.
E dunque: quale logica ha, quale fondatezza può avere di fronte ad un dato di fatto l’evenienza tutta formale – che per il tribunale diventa il suggello dell’attendibilità delle SIT della teste (e si badi bene NON della sua testimonianza) – che il verbale sia stato riletto alla Z. dai CC prima di firmarlo??
Come è possibile ritenere che sia utile per l’accertamento della realtà dei fatti che quanto scritto le sia stato riletto se alla luce della testimonianza è evidente che il verbale di SIT rilasciato ai CC non può rispecchiare le parole della Z.?
La rilettura e la sottoscrizione non possono sanare una discrasia insanabile oggettivamente.
La Z. non ha nel 2015 e non aveva soprattutto nel 2008 gli strumenti culturali per comprendere cosa gli stessero leggendo i CC e a nulla vale che le abbiano riletto il verbale.
Lei non lo poteva leggere poiché non lo sapeva fare.
Non poteva utilizzare i termini e la sintassi riportate nel verbale perché a lei sconosciute tanto nel 2015 e ancor di più nel 2008.
Questo è un dato di fatto oltre ogni conclusione faziosa circa una incredibile e non sostenibile ipotesi di falso da parte dei CC. Su questo tema la difesa si guarda bene dal pronunciarsi poiché non vi è nessuna prova in tal senso.
Ma non può essere ritenuto un oltraggio o una calunnia sostenere a ragione che dei CC abbiano commesso un errore in buona fede e non con dolo.
Molto semplicemente – ma con un effetto disarticolante sulla pretesa punitiva – le parole utilizzate nel SIT non possono essere state quelle utilizzate dalla Z. in quella occasione e tale criticità NON è superata dalla rilettura del verbale da parte dei CC.
Un esempio in tal senso a dir poco probante: nel verbale di SIT risulta che la Z. avrebbe riferito che la pistola che vide era automatica.
Quando viene controesaminata dalla difesa sul punto riferisce pag. 29:
Difensore: …ascolti che differenza c’è tra una pistola automatica ed una pistola a tamburo ?
Teste: Penso che è uguale.
Difensore: sono uguali.
Teste: Eh.
Difensore:Quindi Lei non saprebbe distinguere una dall’altra (poi si parla di guanti indossati dal rapinatore Ndr).
Teste:adesso non mi ricorso più se si era messo i guanti o cosa.
Ed il fatto che il fratello escusso dal tribunale riferisca invece esattamente la differenza tra i due tipi di arma (vedi pag. 40 41) non fa che confermare che il copia incolla ed il fatto che i CC abbiano usato come interprete della sorella il fratello anche egli testimone/persona informata dei fatti, siano state due modalità che hanno del tutto inficiato la genuinità delle risposte ottenute dai due soggetti (soprattutto dalla sorella).
In questa sede bisogna anche censurare – cogliendo proprio l’occasione dell’indicazione delle domande del Presidente al teste di cui alle pagg. 40 e 41 – l’incessante intervento del Presidente che non rispettava il dettato dell’articolo 506 comma 2 c.p.p. intervenendo continuamente e sostituendosi per il tutto il dibattimento al PM nella conduzione dell’esame ponendo tra l’altro – si veda proprio in ordine alla descrizione dei modelli di arma – domande altamente suggestive con la prospettazione di ipotesi dicotomiche quali risposte veicolando al teste la suggestione davvero con il grado più nocivo dato atto dell’autorevolezza che il Giudice, prima ancora delle parti, riveste.
Vi è stata una sistematica violazione della norma in parola che seppure non implicante una sanzione processuale è stata pensata dal Legislatore per la tutela della genuinità del contradditorio che sotto questo profilo (e la Corte conti gli interventi del Presidente durante l’esame ma anche il controesame dei testi) è stato inficiato proprio da chi doveva garantirne la correttezza e produttività in termini di garantismo e completezza.
****
Quindi, l’asserita gomitata e la rilettura del verbale non demoliscono in alcun modo la credibilità della testimonianza della Z. né sono prova di una sua illegale volontà di ritrattare la sua deposizione.
Ed inoltre (come si approfondirà subito sotto) i SIT acquisiti appaiono del tutto inappropriati e fuorvianti per una corretta valutazione di quanto è emerso in dibattimento ed altresì per la effettiva ricostruzione dei fatti così come accaduti.

3. L’inattendibilità dei verbali di S.I.T. acquisiti:
– sia per la metodologia di redazione (copia ed incolla);
– sia in relazione alle modalità di assunzione delle dichiarazioni della persona informata.
Le discrasie e le criticità che non permettono di ritenerli attendibili.

L’analisi di tutte le censure che affliggono la testimonianza della Z. deve essere operata anche alla luce delle numerose, profonde ed insanabili criticità che colpiscono i verbali di SIT (sopra accennate in parte) dei due testi dell’accusa (i due fratelli Z. presenti nel BAR durante la rapina) acquisiti ex art. 500 comma IV^ (erroneamente indicati dal Tribunale come acquisiti ex art. 500 comma III^ c.p.p.)
Sulla erronea acquisizione abbiamo già argomentato.
Veniamo alle censure di tipo metodologico.
• Innanzitutto, è evidente che sia stato utilizzato il copia ed incolla ovvero che i CC abbiano utilizzato lo stesso modello di verbale per i due fratelli Z.. Le parole sono le stesse. La punteggiatura anche. E’ superfluo fare esempi. Li si legga.
Questo è inammissibile.
E’ una inaccettabile fonte di errore e di distorta ricostruzione della realtà oltre che la violazione di qualsiasi prudenza investigativa.
Certamente si risparmia tempo; ma è IMPOSSIBILE DEL TUTTO IMPOSSIBILE che due soggetti possano percepire, elaborare e esporre nella medesima maniera il medesimo accadimento.
In una vicenda di tale gravità – una rapina a mano armata – le persone informate dei fatti dovevano essere escusse in maniera corretta redigendo due verbali ex novo anche se la ricostruzione dei fatti resa presentava caratteristiche simili.
Fare come è stato fatto vuole dire livellare il contributo dei soggetti sentiti ignorando l’effettivo (personale e unico) contributo mnestico ed esperienziale necessario per la ricostruzione della vicenda sotto il duplice profilo dei due soggetti che l’hanno vissuta.
• Si è deciso di non redigere le domande poste ai soggetti. Nemmeno una. Nemmeno: ….esponga quanto sa in relazione a…. Leggendo i verbali si può solo immaginare che i due ragazzi si siano seduti davanti ai CC (TUTTI E DUE INSIEME) e abbiano rilasciato le loro dichiarazioni seguendo il medesimo filo logico, con le medesime parole, con la medesima concatenazione dei fatti, con le medesime espressioni e senza che fosse posta loro alcuna domanda.
Non vi è traccia alcuna del grado di suggestione o meno del quale i due testimoni sono rimasti vittime.
• Alla stesura dei verbali – ormai è noto – partecipano quasi che fosse un adempimento collettivo i due ragazzi ed il padre (si vedano anche le trascrizioni a pag. 58).
Sul punto dubbi non ve ne sono.
Non si comprende come mai in sentenza – pag. 3 – il Collegio affermi il contrario (…il fratello…che invece era stato sentito separatamete) e rimandi ad una nota incomprensibile: infra. Ma a quale infra ci si riferisce non è dato sapere:

Il giovane Z. riferisce ben altro (come la sorella come sopra abbiamo già riportato) pag. 58:
Difensore: (….) Quindi eravate tutti e tre insieme?
Teste: tutti e tre insieme.
Difensore: Chi ha parlato per primo?
Teste: No mi sembra c’era mia sorella prima di me
Difensore: lei ovviamente ha sentito quello che ha detto sua sorella)
Teste: si.
Il Tribunale si sbaglia ancora quindi.
Orbene, se il Legislatore ha inteso che il testimone non ascolti la testimonianza di un altro teste è per una esigenza di genuinità del contributo mnestico di chi può ricostruire anche solo in parte una vicenda passata; per evitare contaminazioni.
Nel caso che qui si discute tutti i testi dell’accusa venivano sentiti a SIT contemporaneamente cosicché il racconto dell’uno divenisse anche una parte del resoconto dell’altro con buona pace della genuinità di quanto riferito.
E difatti, ci troviamo di fronte a due verbali identici che davano vita a incomprensioni e inesattezze profonde (soprattutto per qual che riguarda LA teste Z.) che il Collegio ha potuto superare solo acquisendo e ritenendo i verbali (oltre ogni evidenza) attendibili.
• Strettamente correlata a questa vi è l’incredibile circostanza che i CC utilizzassero quale interprete delle dichiarazioni della Z. il di lei fratello anch’egli testimone degli accadimenti.
Ma come si può pretendere con una giusta e realistica dose di logica che tale procedura generi una ricostruzione che è davvero il frutto di DUE ricordi e non già di un miscuglio indefinito di contributi che divengono poi inestricabili (persino in dibattimento e si vedano le continue contestazioni, incomprensioni e richiami del Presidente e del PM)?

Prevengo l’obiezione che non vi è una norma codicistica che imponga una procedura o delle linee guida per la corretta escussione a SIT delle persone informate sui fatti.
Certo.
Ma esistono delle modalità note agli investigatori (o che per lo meno dovrebbero esserlo) affinché tali atti, oltre che formalmente validi, siano anche utili e genuini per la difficilissima ricostruzione di vicende umane passate.
Ed è logico che debbano essere il frutto del ricordo della persona escussa anche se non parla bene italiano e il verbale risulterà incompleto perché tale è il suo ricordo
Certamente quello di esasperare contaminazioni di ogni tipo dei ricordi dei soggetti interessati redigendo con una audizione collettiva due fotocopie e utilizzando una lingua praticamente sconosciuta ad una delle due persone informate dei fatti, non può che creare un mostro giuridico, procedurale e logico.
Ed in questo processo il tutto è stato elevato all’ennesima potenza poiché detti verbali sono stati acquisiti (erroneamente) e sono diventati un tassello del percorso decisionale del Giudice avvelenandone la logica e stravolgendone il corretto dipanarsi.
Hanno di fatto indotto il Tribunale a basarsi su elementi fallaci ed inesistenti (e si noti che per primo veniva formalizzato il verbale della sorella – alle 9,30 – affinché il fratello la potesse aiutare traducendo e poi è stato escusso il fratello – alle 10.10 – che non ha fatto altro che ripetere quello che aveva appena contribuito a ricostruire da e per la sorella ed evidentemente assimilandone anche i ricordi. E quindi è conseguente la produzione in fotocopia del verbale).

4. L’errata valutazione della testimonianza di Z. Jinlai (il fratello) ed in particolare:
– L’errore circa il timore che avrebbe legittimato l’applicazione dell’art. 500 comma IV^ c.p.p.;
– La sentenza depositata in relazione al tentativo di violenza privata quale prova dell’asserito timore.
– La contaminazione operata dal teste sul ricordo della sorella e massimamente durante la stesura del verbale di SIT.
– Il riconoscimento fonico della voce del G. e del motorino.

Le osservazioni illustrate in relazione all’inapplicabilità dell’articolo in parola devono essere qui integralmente richiamate.
Anche in questo caso il Presidente ha più volte chiesto al teste di un eventuale timore ed il testimone ha risposto negativamente dando anche una spiegazione:

Anche nel caso di questo teste il Tribunale in Sentenza illustra velocemente che il giovane ha paura al momento del processo e che dunque le sue dichiarazioni devono essere acquisite.
Sul punto l’argomentazione è illustrata a pag. 6 con un tratteggio di poche righe ricollegandosi a quanto osservato per l’altra teste che – per il Tribunale – dal momento che ritratta quanto dichiarato in SIT (che ricordiamolo: la teste ha disconosciuto in più punti oltre all’indirizzo del G. ed al modello di pistola), è sicuramente intimorita.
Il Tribunale è lapidario: anche con riferimento al fratello è evidente il timore palesato dallo stesso.
Nulla di più.
Quale è l’evidenza?
Quali sarebbero i motivi dell’evidenza?
Subito dopo (sempre pag. 6) il Tribunale – mi sia concesso – si “avvita” in un bizzarro ragionamento logico.
Afferma, infatti, che – sebbene impaurito – lo Z. confermava gli elementi a carico dell’imputato una volta “sgomberato il campo dalla necessità di dimostrare all’imputato di aver fatto il possibile per salvaguardarne la posizione”
Orbene:
– Come e quando e con quali parole sarebbe stato sgomberato il campo a cui si riferisce il giudice di prime cure? Dove vi sarebbe traccia di questa opera di persuasione e ad opera di chi (del Tribunale?). Chi e come avrebbe tranquillizzato il terrorizzato Z.? Si indichino le trascrizioni relative. Non ve ne è traccia.
– O Z. ha paura e allora non è attendibile in dibattimento e quindi si acquisisce ex art. 500 comma IV^ il verbale di SIT oppure non lo è – come sembra affermare il Tribunale – e quindi NON si acquisisce nulla. Sembra una ricostruzione giuridicamente schizofrenica per la quale il teste è spaventato….ma non troppo oppure non si sa perché ma ad un certo punto non lo è più e quindi conferma le accuse.
– Che traccia vi è documentale che il teste passa da uno stato di coazione ad uno di serena volontà a testimoniare?
Non vi è nulla a riguardo per il semplice motivo che non vi è stato alcun stato emotivo di timore.
****
Nemmeno la Sentenza depositata in atti nei confronti del G. appare idonea a provare lo stato di coazione di cui si tratta.
I fatti sono quelli del 19 dicembre 2011 ovvero “solo” quattro anni prima del processo del 2015 durante il quale il timore avrebbe dovuto essere di tal fatta da impedire una testimonianza genuina (che poi, come visto, sarebbe per il Tribunale effettivamente avvenuta una volta inspiegabilmente passata la paura).
In quell’occasione il G. – ma la sentenza non è ancora passata in giudicato – avrebbe incontrato la famiglia Z. e avrebbe loro intimato di recarsi CON LUI dai CC per “togliere la denuncia”.
Da qui l’imputazione ex art. 377 comma III^ c.p..
Tuttavia, dalla lettura della Sentenza si evince che l’accusa veniva derubricata in un tentativo (quindi nemmeno veniva ritenuta compiuta l’azione) di violenza privata ovvero un tentativo di una ingerenza con una valenza molto meno traumatizzante (diciamo) per i testi rispetto all’accusa che avrebbe in qualche modo legittimato l’art. 500 comma IV^ c.p.p. avanti al Tribunale di prime cure del quale qui si impugna la decisione.
Del resto – e questo è davvero il punto focale del tutto ignorato dal Collegio – è lo stesso teste in dibattimento che afferma che egli intendeva recarsi dai CC in ogni caso che avevano verbalizzato le sue dichiarazioni in termini di certezza in punto di identificazione fonica rispetto alla mera possibilità che egli aveva rappresentato e che gli apparteneva:

Ed ancora in sede di controesame sul punto pag. 62:
Difensore: quando lei è andato dai CC ha specificato che era stata scritta una cosa diversa da quallo che aveva detto?
Teste: l’ho detto si.
D.: Mi spieghi che cosa di diverso avevano scritto.
T.: Perché il carabiniere “era” che io avevo detto “era lui” invece volevo scrivere “forse era lui”.
D.: Quindi lei al di là del fatto che Cristian era venuto a parlare con lei, voleva correggere questa cosa?
T.: perché anche io non ho saputo che il Carabiniere aveva scritto che era lui. Io pensavo che avevano scritto….
D. che avevano scritto giusto?
T. Si.
D.: quindi quando si è reso conto dell’errore voleva correggerlo?
T.:si

Dunque:
– Il teste a domanda diretta afferma che NON ha paura;
– Il tribunale afferma che prima ha paura ma poi è credibile perché – non si sa come e da chi – è rassicurato;
– In ogni caso il verbale di SIT è acquisito ex art. 500 comma IV^ c.p.p.;
– La Sentenza per i fatti di 4 anni prima ridimensiona l’accusa in un tentativo di un reato molto meno grave e generico ovvero non riferibile nello specifico al dovere di verità del testimone;
– Lo stesso teste afferma in dibattimento che lui aveva detto ai CC che SEMBRAVA il G. e che lui non era certo e che avrebbe voluto recarsi dai CC proprio per correggere tale discrasia.
Ma malgrado tutto questo il Tribunale ritiene attuale lo stato di timore; lo ritiene cogente e decide di superare ogni perplessità a riguardo anche contro il significato e tenore stesso della testimonianza del teste resa in sede di esame pag 43 (citata a sproposito anche in Sentenza):
PM: senta Lei ha riconosciuto questo rapinatore?
Teste: io l’ho riconosciuto dalla voce
PM: l’ha riconosciuto dalla voce.
Teste: assomigliava a lui però non è detto che era sicuro lui.
Questo è il grado di dubbio che il Tribunale intende superare.
Il Tribunale non accetta che il teste riferisca con un margine di dubbio e ridimensioni gli antefatti dalla finestra e della banconota interpretandoli come tentativi di salvaguardarsi da eventuali ritorsioni sebbene – come visto – poi affermi in Sentenza che, non si sa come, il teste si liberi ogni soggezione divenendo del tutto credibile.

Il tema della contaminazione del ricordo dei testi e l’inaccettabile modalità di stesura e redazione dei verbali di SIT è già stato tema di doglianza.
Occorre però in questa sede sollevare una nuova censura che ancora una volta dimostra la profonda criticità del percorso logico seguito per la condanna dal Tribunale.
A pag. 7 della Sentenza il Tribunale afferma che:

Qui deve essere sottolineato che il Tribunale afferma la circostanza per la quale:
– La sorella non è stata influenzata dal fratello;
– Le dichiarazioni a SIT risultano essere genuine sotto tutti i punti di vista e mai forzate.
– Tale conclusione sarebbe provata dal fatto che durante il riconoscimento lo stesso sarebbe stato operato prima dalla sorella e poi dal fratello
Il Tribunale ovviamente si pone il problema contaminazione/genuinità e cerca di superarlo con argomentazioni NON conferenti.
Infatti:
– Il fatto che vi sia stato il riconoscimento fotografico è del tutto ininfluente: è stato riconosciuto il G. NON il rapinatore che aveva il casco e il passamontagna (e proprio questo è stato chiesto anche in dibattimento ai due testimoni).
– La contaminazione è avvenuta durante la stesura del verbale di SIT ove il fratello ha fatto da interprete alla sorella;
– La sorella ha spiegato – guadagnandosi più di un avvertimento del Giudice – che lei non aveva riconosciuto la voce del G. e che tale eventualità era stata adombrata prima dal fratello pag. 31:
D.: ascolti è stato suo fratello a dirle che forse quella era la voce di Cristian?
T.: penso di si.
D.: quindi dico bene se dico che quando questo signore è uscito dal BAR, appena uscito dal BAR nella sua mente non ha pensato che fosse Cristian?
T.: io non ho pensato a niente.
D.:quindi era stato suo fratello che ha detto “guarda che è lui”?
T.: perché lui capisce meglio di me, anche…….siamo insieme.

Non vi è nessuna rilevanza del riconoscimento.
La contaminazione è già avvenuta ma il Tribunale non può pronunciarsi sui SIT per i quali l’audizione collettiva e la traduzione sorella/fratello non permette di negarla.
Del tutto fuori luogo l’osservazione del Tribunale in ordine al fatto che i due testi non avevano alcuna ragione di mentire.
Tale eventualità non è stata mai nemmeno adombrata.
Non ha alcuna valenza. Nessuna conferenza.
L’argomentazione difensiva riguarda l’errata procedura adottata dai CC per la redazione delle SIT che ha prodotto degli atti altamente suggestivi ma privi di valenza probatoria confluiti – in maniera del tutto erronea – nel fascicolo del dibattimento e che hanno condizionato in maniera rilevante il tenore delle testimonianze (basta vedere il numero e la frequenza delle contestazioni) e del procedimento decisorio tutto.

5. Il riconoscimento fonico della voce del G. quale quella del rapinatore.

Come si evince dalla Sentenza e dal processo tutto – direi – l’elemento cardine del coacervo accusatorio è quanto riferito dal giovane Z. in merito ad aver pensato che la voce del rapinatore fosse quella del G..
Durante la fase dibattimentale è stato (fortunatamente) ritenuto privo di valore quel riferimento “all’accento zingaresco” menzionato nelle SIT (oramai famigerate) ed è risultato che entrambi i testimoni non hanno in alcun modo saputo indicare quali sarebbero gli elementi peculiari di tale tipo di inflessione (e anche in questo caso non si può che notare che le SIT redatte dai CC non sembrano essere in linea con quanto riferito dai testimoni in dibattimento pag. 15: Presidente (….) gli zingari parlano un italiano un po’ particolare? Testimone Z. L.: Non lo so quello).
Anzi, i testimoni – entrambi – riferivano che il G. parla benissimo italiano senza ombra alcuno di accento (zingaresco o meno. Cfr pag. 16 teste Z. L.: Lui parlava italiano (G. N.d.r.)

parla benissimo italiano, meglio di me. Trascrizioni pag. 59 di Z. J.: Difensore: Ascolti, parlava italiano questo signore? Teste: Parlava italiano si ).
Quindi, nessun accento zingaresco né del rapinatore né di G. (e certo si comprenderà che tale fatto non può essere probante o, comunque, determinante dato che siamo in Italia) e sempre più inspiegabile rimane l’indicazione in entrambi i SIT dell’”accento zingaresco”.
Ciò posto, il riconoscimento fonico – ovvero del timbro della voce – è e rimane l’unico indizio in base al quale il Tribunale giungeva alla conclusione che il rapinatore è il G..
Le conclusioni del Tribunale non sono accettabili.
Non lo sono per fondare una condanna in difetto di elementi concreti ed al di la di ogni ragionevole dubbio che rappresentino un riscontro oggettivamente apprezzabile (e mi riferisco ad un eventuale ritrovamento dell’arma, del motorino, della refurtiva, del casco e del passamontagna e del giubbotto su cui poi vi saranno altre osservazioni difensive).
La Sentenza si dilunga a dare la spiegazione giuridica del perché tale elemento è liberamente apprezzabile dal Giudice.
L’argomentazione non può ritenersi bastevole dal momento che è il fatto storico stesso – le modalità di tale riconoscimento- ed il dubbio più volte espresso dallo stesso Z. che impediscono di superare il dubbio ragionevole qualsivoglia sia la Giurisprudenza alla quale il Tribunale aderisce.
Tenga conto la Corte che sulle criticità e gli aspetti peculiari di tale riconoscimento il Tribunale non si è pronunciato.
E quindi si evidenzi che:
– SIT e testimonianze non corrispondo. In sede di SIT viene riferito di un accento (zingaresco…) che durante la testimonianza non viene menzionato. I casi sono due: o le SIT non sono veritiere (ma questa non è la posizione del Tribunale che le ha acquisite e utilizzate); oppure G. – che parla italiano senza accenti – non è il rapinatore. Il fatto che in dibattimento i testi affermino che il rapinatore parla italiano non prova nulla: tutti i cittadini italiani in Italia parlano italiano.
– Il rapinatore è completamente travisato. La bocca è coperta dal passamontagna e dal casco integrale. Anche solo la comune esperienza insegna che con queste modalità il suono della voce è completamente distorto e la combinazione di indumento + casco funge da cassa di risonanza distorcendo i suoni.
– Le frasi che sente il teste sono due. Brevissime: “dammi i soldi” e “tu che cazzo vuoi”. Non si tratta di una frase articolata ma di un comando detto nella concitazione del momento. Il suono da riconoscere è obbiettivamente brevissimo per non avere dubbi.
– Chi ascolta si trova in una situazione fortemente stressogena. Il teste – perché è solo il ragazzo che, come è noto, ha l’impressione che si tratti dell’imputato giacché la sorella farà l’associazione solo dopo aver accolto il suggerimento del fratello – è sotto la minaccia di un’arma e sicuramente non può dirsi lucidamente attento al suono delle parole (poche e veloci) che ode. Inoltre, come si legge (trascrizioni pag. 40), Lo Z. – di fatto – sente la prima delle due frasi (dammi i soldi) quando si trova in un locale diverso (seppur attiguo) rispetto a quello dove sono pronunciate. E’ ovvio che non stiamo parlando di una distanza siderale…ma è fuori di dubbio che per un riconoscimento fonico di tal fatta anche qualche metro fa la differenza e se così non si ritiene che sia (come fa il Tribunale), occorre che tale determinazione sia illustrata in motivazione (cosa che il Tribunale NON fa).
– Il teste è impegnato in una altra attività nel momento in cui sente le brevi frasi. Egli infatti è intento a giocare al PC (in un locale attiguo) ovvero concentrato su altro rispetto all’entrata del BAR (già chiuso, peraltro) e non intento ad ascoltare rumori, suoni o voci provenienti dalla zona dove di li a poco farà ingresso il rapinatore.
– Il teste non ha mai ascoltato le medesime frasi e nelle medesime condizioni pronunciate dal G.. Egli non ha un modello di riferimento e non per nulla nei caso in cui occorre effettivamente procedere ad un riconoscimento fonico a colui che lo deve attuare – visto il dettato degli artt. 26, 213 e 214 c.p.p. – vengono proposti più modelli tra cui scegliere ovvero più frasi pronunciate da più persone (come è noto si applica il modello del riconoscimento fotografico). Nel caso specifico, al teste non è stata posta in ascolto nemmeno la voce del G. per avere una conferma delle sue impressioni.
Il Tribunale – mi sia concesso – si affanna a elencare la Giurisprudenza che sottolinea la non tassatività dei mezzi di prova e la libera valutazione del Giudice per ammantare di plausibilità la conclusione adottata; ma il fatto concreto, l’evenienza che non si può scavalcare a colpi di sentenze è che il teste ode due frasi ovvero in tutto 5 parole, una delle quali in un altro locale, pronunciate da un soggetto con un casco ed un passamontagna che gli coprono la bocca ed il tutto sotto la minaccia di un’arma.
Per di più, tale impressione del testimone non è poi confermata dall’esperimento di una ricognizione con le minime accortezze che il codice di procedura penale impone (e condividendo la tesi del Tribunale ci si dovrebbe chiedere quale sia lo scopo delle indicazioni di cui agli articoli 216, 213 e 214 c.p.p. se poi il Giudice è libero di formarsi il suo libero convincimento ignorando le relative prescrizioni procedurali).
Appare poi del tutto fuori luogo la chiosa sul punto a pag. 8 della Sentenza secondo la quale ….Trattandosi di una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva (ed in questo caso uditiva) e manifestandosi attraverso una dichiarativa, la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale…. (il passo è estrapolato dal Tribunale dalla Sentenza n. 31454 del 2006).
Appare fuori luogo perché la dichiarazione confermativa del teste è assolutamente votata alla prudenza e più volte lo Z. (come sopra illustrato e come si legge dalle trascrizioni e come si evince proprio dall’annosa questione della verbalizzazione che lo Z. riteneva inesatta) riferiva in tutte le occasioni di NON essere sicuro che si trattasse della voce dell’imputato.
Non si può che censurare anche l’ultima suggestione del Tribunale operata nei confronti dello Z. al termine del controesame della difesa.
In tale occasione – pag. 64 – il Presidente pone una domanda che contiene al suo interno già la risposta: quindi in quel momento lei dice “io capivo che era lui, cioè lei si alza convinto che sia Cristian in quel momento?ed ovviamente lo Z. – aderendo – risponde affermativamente.
Ma il fatto che il teste abbia avuto tale intuizione nulla toglie a quanto sopra osservato né, soprattutto, alle reiterate dichiarazioni del teste di non essere per nulla certo della sua conclusione (tanto da voler recarsi dai CC a correggere il verbale di SIT).
***
L’elencazione dei punti sopra illustrati in tema di fragilità del riconoscimento fonico è illuminante sotto un duplice profilo:
– Innanzitutto si tratta di aspetti che effettivamente incidono sulla qualità del suono di una voce ed ostacolano un riconoscimento;
– Secondariamente, dal punto di vista formale ma altrettanto centrale, dimostrano come il Giudice del primo grado abbia omesso del tutto di analizzare in concreto tutti gli aspetti e le condizioni nelle quali il teste ha effettivamente effettuato la sovrapposizione della voce del rapinatore con quella del G..
Il Tribunale ha optato per una analisi del tutto superficiale (limitandosi a citare delle massime giurisprudenziali) e per delle conclusioni NON sorrette da un ragionamento SUL FATTO ovvero sui singoli aspetti che hanno influito sulla percezione sensoriale della voce del rapinatore da parte del teste che si è sempre dimostrato possibilista sul fatto che NON si trattasse del G..
La Corte che legge deve necessariamente esprimersi prendendo atto che non è possibile su questo tema – unico indizio sul quale ruota tutta la sentenza e, quindi, l’affermazione della responsabilità penale del G. – considerare superato il ragionevole dubbio.

6. Gli 8 punti riassuntivi quale elenco delle debolezze insanabili della ricostruzione accusatoria.

A pag. 8 della sentenza il Tribunale opta per una sorta di riassunto dei capisaldi della condanna inflitta all’imputato.
Tuttavia, come di seguito illustrato, non vi è uno solo passo dell’elenco che rappresenti una prova della pena responsabilità del G. e non possono dirsi ravvisati, anche con una analisi di insieme dei singoli rilievi indizi gravi precisi e concordanti.
1. Il primo punto è una sequela di estrapolazioni delle frasi verbalizzate nei due verbali di SIT acquisiti dal Tribunale. Circa la attendibilità di tali verbali abbiamo già abbondantemente argomentato. Censurabile massimamente è questa operazione di “taglia e cuci” operata dal Tribunale che predilige ora le testimonianze ora i predetti verbali a seconda del contenuto in linea con l’ipotesi accusatoria.
2. Il riconoscimento del G. operato dai due giovane NON è il riconoscimento del rapinatore del tutto travisato (come si legge espressamente nelle trascrizioni furono chiamati a riconoscere il G. e non già il rapinatore). Quindi questo è un elemento del tutto neutro.
3. L’altezza del G. non è un elemento dirimente. Le persone basse non sono rare. G. non è affetto da nanismo (circostanza che avrebbe ristretto il campo) e non ha una altezza che lo rende identificabile al di là di ogni ragionevole dubbio.
4. Il ritrovamento di giubbotti simili a quelli che sarebbe stato utilizzato per la rapina è un elemento solo suggestivo. Il giubbotto non è stato trovato e non è stato riconosciuto. Seguendo il ragionamento del Tribunale si cade nel più dannoso, profondo ed inquisotorio verificazionismo: se il giubbotto viene ritrovato ovviamente G. è colpevole. Se non viene trovato e non viene riconosciuto ma ce ne sono alcuni…simili…ovvero che assomigliano MA non sono quello; ebbene G. è colpevole lo stesso. E’ il medesimo Tribunale, peraltro, che in un altro passo della sentenza valorizza i dubbi dei testi in ordine ai giubbotti per confermarne l’attendibilità pag. 7: Inoltre quando hanno voluto manifestare dubbi lo hanno fatto tranquillamente (….) Z. Lidan: “non so dire se quello indossato dal rapinatore era proprio questo”; Z. Jinlai “non mi sento di indicare con certezza che è uno di quelli rappresentati nelle foto (…).
E quindi siamo nel campo logicamente inaccettabile per il quale il Giudice di prime cure da una parte, ovvero per argomentare la credibilità dei testimoni, ne sottolinea la posizione dubbiosa in riferimento al riconoscimento del giubbotto mentre solo poche righe dopo scavalca totalmente il dubbio fino a poco prima apprezzato per affermare che il giubbotto – non riconosciuto – siccome assomiglia…ad un giubbotto – diventa circostanza indiziante credibile e convincente.
5. La pistola non viene trovata. Il ritrovamento del caricatore non è un indizio univoco poiché:
– Non è dato sapere se si tratta del caricatore dell’arma usata per la rapina non conoscendosi il modello esatto dell’arma>;
– Ma soprattutto logicamente se G. avesse inteso far sparire l’arma non avrebbe avuto alcun senso NON far sparire anche il caricatore!
6. Il Tribunale sconfina poi in una azzardata analisi di natura criminologia. L’istinto predatorio della rapina sarebbe collimante con quello tipico di uguale natura manifestato dal G. in occasione del tentativo di spendita dei soldi falsi e della finestra lasciata aperta.
La ricostruzione del tribunale è fallace sotto tutti i punti di vista:
– Innanzitutto, la rapina è un tipico crimine predatorio che consta appunto di una azione violenta agita contro la persona della vittima; la spendita di denaro falso ed il furto non lo sono poiché difettano del tutto di una azione diretta contro la persona della vittima.
– Nemmeno i due testi hanno potuto con certezza riferire che la finestra fosse stata lasciata aperta proprio dal G. o apposta per compiere successivamente un furto. Si tratta di conclusioni direi apodittiche del Tribunale (si veda sul punto cosa riferisce il giovane Z. a pag. 46 e 47 delle trascrizioni) e del resto anche in relazione al tentativo di spendita del denaro falso il testimone riferisce di non ricordare bene (pag. 45 e 46) e che in ogni caso ricordava il G. soprattutto perché stava troppo vicino a coloro che giocavano alla macchinette e dunque per una circostanza che nulla ha a che vedere con la rapina.
7. I ciclomotori sono usati da giovani e meno giovani. Sono moltissimi e moltissimi circolano anche a Garbagnate. Il teste non lo vede nemmeno il ciclomotore e non ne riconosce il motore. Forzare tale circostanza come indizio a carico dimostra ancora una volta il verificazionismo del Tribunale.
8. Sapere di essere stato denunciato di un crimine dai proprietari di un BAR evidentemente non può essere un elemento di fidelizzazione per il cliente denunciato. Anche se innocente. Anzi, soprattutto se innocente. Non esiste il motivo per il quale il G., consapevole di essere stato denunciato dai gestori del locale poiché oggetto immediatamente di perquisizione domiciliare, avrebbe dovuto continuare ad andare in quel BAR ove – evidentemente – non era ben visto.

7. Il trattamento sanzionatorio e l’agG.nte.

La pena comminata è stata calcolata dal Tribunale tenendo conto (anche) de:
– Il comportamento processuale dell’imputato;
– Soprattutto le minacce espresse nei confronti delle p.o.;
– I precedenti penali dell’imputato.
Orbene, non si comprende quale sia il comportamento processuale stigmatizzante tenuto dall’imputato presente alle udienze.
Il fatto di non aver evidentemente confessato non può ricondursi ad una condotta da punire nel procedimento di quantificazione della pena.
Per quanto riguarda le asserite minacce, il ragionamento del Tribunale applica di fatto una doppia pena al G. poiché per quei fatti (che sappiamo essere stati assai ridimensionati in sede processuale quali mero tentativo di violenza privata) l’imputato è stato condannato in primo grado e si tratta di una fattispecie delittuosa per il quale è processato autonomamente.
Le attenuanti generiche possono essere concesse 8anche di ufficio) dato atto se non altro che l’ultimo reato compiuto dall’imputato (prima di quello per il quale si procede e quello strettamente a questo avvinto già giudicato in primo grado) risale a circa dieci anni addietro.
Da ultimo, la presenza del complice deriva sempre dalle dichiarazioni a SIT della Z. sulle quali la difesa ha largamente argomentato (in ordine alla scarsa attendibilità).
Emblematiche, però, e di segno opposto sono le dichiarazioni della teste a pag. 36 e 37 ove la Z. afferma che non usciva dal locale, non vedeva alcun complice e nessun motorino ed ugualmente si legga pag. 21 ove la Z. afferma di aver sentito il motorino che partiva quando il G. era già uscito dal locale e non è in grado di dire se i rapinatori erano due o uno (Teste Z.: Due persone ? Eh, non lo so). Sul medesimo punto anche il fratello della testimone non è in grado in alcun modo di indicare la presenza di un complice (pag. 49) perché quando sente il motorino questo si è già allontanato con a bordo il G..

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Per tutti i motivi sopra esposti e per quelli già illustrati con l’atto di appello depositato il sottoscritto difensore
INSISTE
Per l’accoglimento delle contestazioni già rassegnate.

Milano, il giorno 13 maggio 2015
Avv. Giuseppe Maria de Lalla

(articolo ed atto redatto dall’Avv. de Lalla. Ogni diritto riservato)

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