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Commentiamo in questa sede una recente e interessante pronuncia della Corte di Cassazione Sez. VI Penale (Sentenza 9 febbraio 2016 n. 5258) in materia di maltrattamenti in famiglia, che, in sostanza, ha affermato che non sussiste il reato in esame quando in un contesto familiare di forte conflittualità vi è parità tra i coniugi.


Nel caso di specie, la Cassazione aveva ritenuto fondata e correttamente motivata la valutazione operata dai Giudici d’Appello nella Sentenza (poi impugnata dalla persona offesa) che, in riforma della decisione di primo grado, aveva assolto il marito dal reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie.
In particolare, i Giudici di secondo grado avevano ritenuto non sussistente il reato di cui all’art. 572 c.p. nella condotta del marito dal momento che, in considerazione della tipologia delle relazioni familiari intercorse tra i coniugi e delle loro qualità personali, non si era venuta a creare una effettiva situazione di prevaricazione nei confronti della moglie, presunta vittima del reato, la quale aveva sempre reagito alle intemperanze del marito senza assumere mai un atteggiamento di passiva soggezione nei confronti di quest’ultimo.
Invero, è pressoché pacifico in giurisprudenza che integra il reato in esame la sottoposizione dei familiari (anche conviventi) a comportamenti abituali caratterizzati da una serie di atti (tra cui ingiurie, percosse, molestie, minacce, etc.) che producono sofferenze fisiche e morali, tali da sottoporre la vittima ad un regime di vita vessatorio e a rendere penosa la sua esistenza.
Deve essere, dunque, provato un certo grado di afflizione della vittima, dovuto all’imposizione, a causa della reiterazione dei maltrattamenti da parte del familiare, di un regime di vita oggettivamente vessatorio ed umiliante.
A tal proposito, la Cassazione nella citata Sentenza, riportandosi all’orientamento prevalente, specifica che “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze”.

Per la sussistenza del reato, dunque, non sono sufficienti singoli e sporadici episodi occasionali di percosse o lesioni, ma occorre che tali atti – i quali presi singolarmente potrebbero anche non essere punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela) – siano collegati tra loro da un nesso di abitualità, acquistando così rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.

La condotta abituale che si compone, come detto, di ripetuti atti lesivi dell’incolumità personale, della libertà o dell’onore di una persona della famiglia, deve, inoltre, essere idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile per la vittima (che si trova in una posizione psicologicamente subordinata rispetto al maltrattante, assumendo un atteggiamento di passiva soggezione).

Tornando al caso di specie, secondo la Cassazione hanno operato correttamente i Giudici di secondo grado che hanno escluso la sussistenza del reato di maltrattamenti nella condotta del marito, in considerazione della tipologia delle relazioni familiari intercorse fra i coniugi e delle loro qualità personali: infatti, fra l’imputato, notaio, e la parte civile, avvocato, “dotati entrambi di un livello di formazione professionale, cultura, condizioni sociali ed economiche ben superiori alla media,.. si è venuto ad instaurare un rapporto di accesa conflittualità, tensione e radicata contrapposizione, causa di grave disagio soprattutto per la figlia minore,…” che per tale ragione, nella causa di separazione, veniva affidata ai servizi sociali e non ad uno dei genitori (n.d.r.).

Ebbene, all’interno di tale rapporto conflittuale protrattosi per anni, i Giudici se da un lato rilevano “il temperamento irascibile e non incline alla moderazione dell’imputato, i suoi accessi di collera anche a fronte del più banale contrattempo, il ricorso a toni di particolare veemenza ed i comportamenti spesso trasmodanti nella maleducazione” dall’altro evidenziano come la donna era solita reagire ai comportamenti dell’uomo, senza mai assumere un atteggiamento supino nei suoi confronti.

Da ciò ne deriva “l’impossibilità di configurare,” nel caso in esame, “un comportamento obiettivamente caratterizzato da tratti di abituale e sistematica prevaricazione, basato su una posizione di passiva soggezione dell’una nei confronti dell’altro”.

Proprio le qualità personali dei coniugi, la tipologia delle loro relazioni familiari, la capacità reattiva della moglie di fronte alle intemperanze del marito con la conseguente impossibilità di stabilire chi, tra i due, avesse mai assunto una effettiva posizione di supremazia nei confronti dell’altro hanno portato ad escludere l’esistenza dei maltrattamenti e, dunque, la sussistenza del reato di cui all’art. 572 c.p..

(Articolo redatto dalla Dott.ssa Silvia Meda dello Studio Legale de Lalla. Ogni diritto riservato).

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