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Ritorniamo in queste pagine su un argomento già trattato in maniera approfondita in questo sito (con la pubblicazione della tesi del Master conseguito dall’Avv. de Lalla) in tema di riconoscimento fotografico dell’indagato (secondo il disposto dell’art. 361 c.p.p.) e di ricognizione di persona dell’imputato (tramite il c.d. “confronto all’americana” o lineup  ex art. 213 c.p.p.  e ss. c.p.p.).

Abbiamo già avuto modo di osservare (e per ogni precisazione rimandiamo al lavoro pubblicato nelle news del sito al quale potrete accedere cliccando sui link in fondo a questa pagina) l’estrema importanza investigativa e la grande suggestività processuale degli adempimenti di cui trattiamo; ma abbiamo anche potuto osservare come si trattai di strumenti (l’uno investigativo e l’altro processuale) estremamente delicati e come siano effettivamente assai numerosi i falso positivi.

Gli errori più frequenti sono dovuti in parte alle risorse cognitive dell’uomo (la tendenza a focalizzare l’attenzione su un dato e a selezionare gli input percepiti), in parte al meccanismo della memoria (percezione, immagazzinamento, rielaborazione, rievocazione) ed in parte anche alle modalità con le quali è effettuato da investigatori e Giudici rispettivamente il riconoscimento fotografico e la ricognizione di persona (le foto sono bidimensionali, in bianco e nero e a colori, ne vengono somministrate in grande quantità al teste, spesso il teste cerca tra gli individui posti al suo cospetto quello che si discosta meno dal suo ricordo sebbene non si trattai dello stesso soggetto effettivamente percepito etc. etc).

L’argomento è e resta di grande attualità poiché – come detto – molto spesso procedimenti penali anche per reati di grande allarme sociale (dalle rapine alle violenze sessuali), in difetto di prove scientifiche (DNA e simili) e di filmati ripresi da telecamere di sicurezza, si basano esclusivamente sull’esperimento di una ricognizione o di un riconoscimento.

Peraltro, il nostro Legislatore ha completamente omesso di regolare la procedura di identificazione fotografica tramite album (ex art. 361 c.p.p.) di tal che ogni iniziativa è rimessa alla sensibilità (tanta o poca che sia) degli investigatori che provvedono a confezionare l’album, scegliere e reperire le foto, adottare le procedure che ritengono più consone per evitare la contaminazione dell’atto di indagine (che, non dimentichiamolo, ha la forza di orientare le indagini verso un soggetto o un altro) il tutto in assenza del difensore del soggetto che si reputa il sospettato (infatti, per il riconoscimento fotografico non è prevista la partecipazione del difensore).

A ciò si aggiunga che il nostro Paese, a differenza di quelli di common law come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno adottato fino adesso nessun protocollo operativo condiviso da tutte le forze di polizia in tema di riconoscimento fotografico.

Il Legislatore ha normato in maniera più attenta (anche perché, evidentemente, consapevole della potenziale fallacia) la ricognizione di persona (o confronto all’americana) ex art. 213 e ss c.p.p.; ma la pratica risulta essere ancora troppo lontana da una effettiva affidabilità.

E’ fuori di dubbio (ed è ormai assodato anche scientificamente) che al cospetto di più soggetti fra i quali riconoscerne uno, il testimone indicherà quello che assomiglia di più al suo ricordo senza nessuna garanzia di coincidenza tra visto realmente ed indicato; inoltre, l’esaminatore potrà veicolare anche inconsapevolmente messaggi analogici positivi o negativi che potranno influenzare colui che deve effettuare il riconoscimento; ed ancora, il testimone potrà essere incline ad indicare un soggetto determinato poiché spinto dalla volontà di gratificare gli investigatori e/o il Giudice.

Gli accorgimenti per arginare il pericoloso fenomeno dei falsi positivi (ma anche dei falsi negativi) esistono: a partire dalla presentazione consequenziale e non contemporanea dei soggetti da riconoscere, al sistema del doppio cieco nel quale sia l’osservatore sia chi dirige l’esame non ha contezza della presenza o meno del sospettato nel gruppo dei soggetti da riconoscere, all’utilizzo di foto recenti, a colori e di tre quarti ed altri semplici meccanismi che – ancora oggi – NON sono incredibilmente adottati nel nostro ordinamento.

Per un esame recente ed approfondito in chiave psico-giuridica dei fenomeni qui trattati, mi piace riportare un lungo passaggio di una interessantissima pubblicazione di Bona e Rumiati Psicologia cognitiva per il diritto – ricordare, pensare, decidere nell’esperienza forense (Il Mulino – 2013) che analizza in maniera attenta tutti i profili estremamente critici della ricognizione di persona e della individuazione fotografica e ne indica le modalità per la migliore esecuzione (il neretto è di chi scrive).

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… L’esempio forse più eclatante (perché maggiormente contro intuitivo, almeno per un giurista) è costituito dal problema dell’attendibilità del “lineup” o, per usare i termini del nostro codice di procedura penale, della “ricognizione di persone” (art. 213 c.p.p.). Nella ricognizione il giudice (o la polizia giudiziaria) procura un certo numero di persone il più possibile somiglianti a quella sottoposta a ricognizione, quindi chiede alla persona chiamata alla ricognizione se riconosca taluno dei presenti come l’autore dell’illecito. La persona chiamata alla ricognizione, quindi, viene messa davanti a una serie di individui che corrispondono più o meno alla descrizione che egli ha dato agli investigatori del presunto colpevole e deve decidere se tra di loro si trovi l’individuo che ha commesso il reato.
Le statistiche mostrano che la persona chiamata alla ricognizione, posta di fronte al lineup classico, identifica il presunto colpevole nel 90% dei casi. L’interrogativo che ci si pone immediatamente è come sia possibile che, in una circostanza come questa, la prova del testimone abbia un successo così elevato, se si considera che il lineup è costituito da individui che si assomigliano per molte caratteristiche. La risposta proposta da Mazzoni [2003] è che testimoni, in realtà, non individuano necessariamente il colpevole; spesso individuano una persona che al colpevole assomiglia più degli altri, ma che colpevole in realtà non è.
In altre parole, si tratta di “falsi allarmi”, cioè di falsi riconoscimenti. L’aspetto drammatico è che se nel lineup non c’è il vero colpevole, la percentuale dei falsi allarmi raggiunge un livello altissimo, fino al 76% dei casi.
Ciò significa che in 76 lineup su 100, in assenza del vero colpevole, qualcun altro sarà riconosciuto come autore del reato.
Uno dei fattori responsabili di questa prestazione distorta sembra essere il fatto che è implicita nella consegna data al testimone l’assunzione che il presunto colpevole sia presente tra gli individui che sono stati presentati. Perciò il testimone si sente impegnato a trovare il colpevole anche se il colpevole non c’è.
Un secondo fattore che può generare l’errore è costituito dal tipo di processo mentale impiegato per decidere se il colpevole è presente nel lineup. Il giudizio in questo caso è un giudizio comparativo, poiché il testimone, trovandosi a esaminare contemporaneamente i diversi partecipanti del lineup, deve effettuare un confronto tra loro e cerca di capire se nel lineup una certa persona è più simile a quella che è presente in memoria rispetto a un’altra persona del lineup. Così, al termine dell’esame è molto probabile che il testimone trovi una persona che assomiglia più delle altre presenti nel lineup all’immagine/traccia del colpevole registrata nella sua memoria.
Mazzoni suggerisce che per ovviare a questi problemi è necessario utilizzare una nuova procedura chiamata “lineup sequenziale”, procedura che si è iniziato a praticare in tempi recentissimi. Essa richiede che le persone vengano presentate una alla volta rispettando un intervallo di tempo tra le diverse presentazioni. In questo modo il testimone effettua un confronto tra le singole presentazioni e la traccia presente in memoria.
Con questa procedura si ottiene una significativa riduzione dei falsi allarmi fino al 50% e talvolta fino al 40%. Mazzoni [2011] fornisce qualche ulteriore suggerimento per ridurre la probabilità di false identificazioni come, ad esempio, utilizzare domande aperte nella fase di acquisizione delle prime informazioni, comporre il lineup con persone che presentino tutte le caratteristiche citate dal testimone (questo è già previsto dal codice di procedura penale per le ricognizioni giudiziali, ma è prassi ampiamente disattesa nel corso delle cosiddette “ricognizioni fotografiche” alle quali dà corso la polizia giudiziaria), registrare le parole esatte con cui il testimone manifesta la convinzione dell’identificazione esatta.
Sarebbe importante, inoltre, che colui che sta conducendo il lineup non sappia quale sia la persona sospetta per evitare che, che anche involontariamente, l’investigatore invii segnali volti a orientare la risposta di identificazione del testimone (anche se quest’ultimo suggerimento non è facilmente compatibile con l’attuale struttura del processo penale italiano).
Un’altra procedura che può provocare falsi riconoscimenti (e quindi falsi ricordi) è il cosiddetto “showup”. Tale procedura nel linguaggio della psicologia della memoria corrisponde alla tipica procedura detta di “riconoscimento vecchio-nuovo”. Infatti, al testimone viene presentato un singolo individuo e viene chiesto: “è questa la persona che hai visto commettere il reato?”. In tal modo al testimone viene chiesto di effettuare una corrispondenza fra la traccia in memoria (informazione vecchia) e lo stimolo che gli viene presentato (informazione nuova).
Naturalmente, il fatto di sapere che l’individuo presentato è un sospettato può condizionare la risposta del testimone nella direzione di un falso positivo.
Infatti, le ricerche sull’attendibilità di queste modalità di testimonianza hanno mostrato che i testimoni riconoscono erroneamente il sospettato presentato più frequentemente che con la modalità descritta nel lineup [Lindsay et al. 1997].

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…..Innanzitutto, anche leggere modificazioni verbali di un’affermazione o suggerimenti molto sottili possono influenzare il ricordo dei testimoni.
Ad esempio Loftus e Zanni [1975] hanno mostrato ai partecipanti a un esperimento sulla memoria un filmato relativo a un incidente automobilistico: ad alcuni di essi hanno chiesto se avevano visto “un” fanale rotto, ad altri se avevano visto “il” fanale rotto.
In quest’ultimo caso la frequenza di coloro che affermavano di aver visto un fanale rotto era maggiore rispetto a quella registrata nel primo caso e questo risultato si verificava anche se nel film non era apparso alcun fanale rotto.
Schacter [2001; trad. it. 2002, 136-137] ha commentato gli effetti di suggerimenti sottili involontari riportando un brano del resoconto di una testimone in un confronto all’americana all’interno di un caso effettivamente verificatosi ed esaminato da Wells e Bradfield [1998]. Il brano critico era riportato nel modo seguente:
TESTIMONE: Oh, Signore… non so…è uno di quei due… ma non saprei… Mamma mia… quello un po’ più alto del numero due… è uno di quei due… ma non saprei.
TESTIMONE (in un secondo confronto mezz’ora dopo): Non saprei… il numero due?
AGENTE DI POLIZIA: Va bene.
AVVOCATO DIFENSORE: (mesi dopo in sede di dibattimento): Era sicura che fosse il numero due? Nessun dubbio?
TESTIMONE: Nessun dubbio… ero assolutamente sicura.
I due ricercatori chiesero alla testimone se pensava che l’intervento dell’agente l’avesse in qualche modo condizionata.
Per appurare se la conferma dell’agente avesse avuto un qualche effetto Wells e Bradfield condussero un esperimento in cui veniva presentata a un certo numero di partecipanti la registrazione dell’impianto a circuito chiuso di un grande magazzino che mostrava l’ingresso di uno sconosciuto. Dopo aver visto la registrazione, ai partecipanti veniva detto che poco dopo quell’uomo aveva ucciso una guardia giurata e si richiedeva loro di identificarlo da una serie di fotografie, anche se nessuna di queste foto ritraeva il vero sospettato. A un gruppo veniva fornita una conferma del tipo: “bravo, hai riconosciuto la persona giusta”, a un secondo gruppo non veniva fornita alcuna informazione e infine a un terzo gruppo veniva detto che il colpevole era ritratto in una delle fotografie scartate in precedenza.
Dopo aver espresso la risposta di identificazione, tutti i partecipanti dovevano giudicare quanto erano sicuri della loro risposta e quanto ritenessero di essere stati completi e chiari nel riportare il loro ricordo.
I risultati confermarono che coloro che avevano ricevuto una conferma manifestavano una convinzione più solida degli altri di aver fornito una versione attendibile di quanto era successo al centro commerciale e una maggior sicurezza sull’abilità di aver ricordato i vari dettagli del caso.

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