L'utilizzo nel processo penale della Prova video. Sia in fase di indagini preliminari che nel corso del dibattimento.
La disciplina legale e la fenomenologia attuativa
della procedura della ricognizione di persone ex artt. 213 e 214 c.p.p. Gli
aspetti procedurali pratici potenzialmente lesivi della genuinità della
ricognizione alla luce degli aspetti anche psicologici della stessa ed i possibili
presidi pratici per la limitazione della percentuale di errore.
di Avv. Giuseppe Maria de Lalla
(Pubblichiamo integralmente l’articolo dell’Avv. de Lalla il cui primo paragrafo – “Il riconoscimento fotografico durante le indagini preliminari” – è già stato pubblicato nelle news del sito in data 24 aprile 2013)
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1.2. I possibili bias tipici della procedura di individuazione fotografica.
Come vedremo in seguito, è possibile isolare degli errori procedurali intimamente connessi e comuni sia all’individuazione fotografica sia alla procedura di ricognizione personale ex artt. 213 e 214 c.p.p..
Si tratta di fallacie dovute al funzionamento dei meccanismi della memoria, al possibile condizionamento del soggetto autore del riconoscimento, al setting, alle modalità di esecuzione da parte degli operatori di polizia o del Giudice e ai molti possibili difetti di percezione dell’osservatore.
Vi sono, tuttavia, degli elementi che sono potenzialmente idonei ad inficiare in maniera precipua l’attendibilità dell’individuazione fotografica (che vanno a sommarsi a quelli sopra accennati e di cui oltre tratteremo diffusamente, comuni a tutte le ricognizioni di cose e persone) in quanto collegati ad essa per la stessa natura delle immagini che vengono poste all’attenzione di colui che è chiamato a riconoscere.
– La risalenza delle foto comprese nell’album. Il dato è tanto scontato quanto fondamentale: nel giro di due anni (o anche meno) il viso delle persone muta e la foto sottoposta al teste può non corrispondere più al volto della persona ritratta con conseguente elevata possibilità di falso negativo e falso positivo (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008 e 2000).
– La foto è necessariamente un’immagine monodimensionale, mentre la persona umana è ovviamente percepita in maniera tridimensionale dall’osservatore. La diversa percezione dei due dati fenomenici (foto e persona umana) implica che il riconoscimento tramite album fotografico poggi le sue basi su dati spaziali sostanzialmente diversi da quelli appresi osservando la persona dal vero (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008).
– Le foto segnaletiche che compongono l’album ritraggono esclusivamente il volto della persona da riconoscere (solitamente di fronte e di profilo) mentre, al contrario, l’osservatore l’ha solitamente vista in tutta la sua figura, potendone apprezzare quantomeno la statura, la fisionomia corporea e la gestualità. La mancanza di altri dati fisici della persona raffigurata nella foto impedisce al ricognitore di utilizzare tali elementi tipici del soggetto (osservati durante gli accadimenti) nel procedimento di individuazione. Studi a questo riguardo (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008 e 2000) hanno evidenziato come la posizione migliore per osservare e riconoscere un volto mostrato ad un osservatore in modo statico (quale è appunto la fotografia) sia quella di tre quarti che permette a colui che deve effettuare l’individuazione di condensare i dati appresi con una visone del soggetto sia di profilo che di fronte.
– Le foto segnaletiche sono spesso in bianco e nero diversamente dai dati reali percepiti dall’osservatore.
– Le espressioni dei soggetti fotosegnalati sono spesso difformi da quelle percepite dall’osservatore e comunque spesso innaturali nell’assenza di espressione.
– Quando un soggetto è chiamato ad operare un riconoscimento fotografico, egli rievoca i singoli aspetti del volto visto durante i fatti (occhi, forma del viso, forma del naso e delle orecchie, ecc.) e li paragona con quelli degli individui ritratti nelle foto. Tale meccanismo psicologico induce spesso l’osservatore a “riconoscere” non già l’individuo, bensì quella tra le foto che riporta il maggior numero di particolari simili (o meno difformi) rispetto a quelli ricordati. Inoltre, l’essere umano è programmato per riconoscere un volto nella sua completezza e non a descriverlo (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008) ovvero a percepirlo non nei singoli particolari (che, come detto, tendiamo a rievocare per riconoscerlo eventualmente in fotografia) poiché diversamente, nella realtà quotidiana, perderemmo la possibilità di percepirlo e riconoscerlo nel suo insieme (si afferma, invero, che la memoria riconoscitiva è assai diversa da quella descrittiva dei singoli elementi percepiti (Luisella de Cataldo Neuburger, 2008).
– Molto spesso la persona che deve effettuare il riconoscimento viene sottoposta alla visione di centinaia di foto (mug-shots book) (Guglielo Gulotta, 2011) di tal che l’osservatore è sottoposto ad uno stress cognitivo che incide direttamente sulle sue capacità mnestiche (e quindi di rievocazione dell’immagine della persona da riconoscere), con detrimento diretto dei processi necessari per una individuazione attendibile.
Alla luce di tali ineliminabili fragilità – che si aggiungo a quelle proprie delle ricognizioni di persone osservate in carne ed ossa di cui tratteremo – è facile intuire il limitato valore probante che dovrebbero possedere le individuazioni di persona effettuate in fase di indagini preliminari tramite l’esibizione di un album fotografico.
Il condizionale è d’obbligo poiché, come sopra evidenziato, spesso l’indizio rappresentato dall’individuazione fotografica è traghettato nel dibattimento – e colà assume di fatto un incisivo valore probatorio – tramite la ripetizione dell’individuazione fotografica, operata sottoponendo il teste ad una seconda visione dell’album o contestando al testimone una precedente positiva individuazione.
Peraltro, tale meccanismo della seconda visione dell’album durante il dibattimento aggiunge un ulteriore bias di notevole portata: il testimone sarà incline ad indicare nuovamente la fotografia già individuata in quanto memore di aver precedentemente visto quella foto e non già quella persona.
La giurisprudenza e la dottrina di common low interessate da tempo al fenomeno dell’individuazione (sia fotografica che tramite lineup) e da decenni impegnate ad isolarne le criticità con lo scopo di limitarne la fallacia, hanno sottolineato come l’85% delle sentenze di condanna fondate sui riconoscimenti dei testimoni oculari sia stato poi riformato in appello (Domenico Carponi Schittar, 2012) e come il riconoscimento fotografico sia uno dei mezzi di prova meno affidabili, trovandosi solo all’ultimo posto nella scala di attendibilità probatoria.
Alla luce di tale potenziale inattendibilità, la medesima giurisprudenza anglosassone ritiene che l’individuazione fotografica debba trovare ragione soltanto nelle esigenze investigative con le finalità proprie di una fase del tutto preliminare e prodromica rispetto a quella del giudizio (V. in Giurisprudenza la Sentenza Corte di Assise di Milano n. 16/2007 del 26 novembre 2007 richiamata anche da Luisella de Cataldo Neuburger, 2008).
Nel nostro procedimento penale una vasta Giurisprudenza nemmeno eccessivamente risalente ha confermato che l’individuazione fotografica effettuata durante le indagini preliminari, nell’ottica del principio della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del Giudice, è del tutto ammissibile anche se svolta in maniera informale e senza il rispetto di precisi canoni volti ad impedirne la contaminazione (tra le molte: Cass. Sez. I^ 8 giugno 1993, Novembrini; Cass. Sez. I^ 1° ottobre 1996, De Tommasi in CED Cass. N. 206090; Cass. Sez. IV^ 14 maggio 1996, Perez, in Arch. Nuova proc. Pen. 1996; Cass. Sez. IV^ 8 novembre 1995, Pennente in Cass. Pen. 1997; Cass. Sez. I^ 10 febbraio 1995, Archinto, in CED Cass. N. 200234).
Una linea interpretativa simile (seppur più limitata) sostiene che l’individuazione fotografica informale avvenuta in fase di indagini può essere posta dal giudice del dibattimento quale base del proprio convincimento in omaggio ai già ricordati principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudicante (V. ad es. Cass. Sez. VI^ 12 giugno 2003 in CED Cass. N. 225574).
Peraltro – con una valutazione censurata dalle successive Sentenze della Corte di Assise di Milano del 2007 (sopra richiamata) e del 2009 (V. oltre) e di buona parte della Dottrina – la Giurisprudenza ha anche evidenziato come la certezza del riconoscimento dipenderebbe non già dall’attendibilità intrinseca dell’individuazione come risultato probatorio (ovvero valutando lo stesso in maniera autonoma rispetto alle altre dichiarazioni del teste), ma dalla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica sicuro della sua identificazione; quasi che la dichiarazione di sicurezza di chi può essere caduto inconsapevolmente in errore sia garanzia di affidabilità (Cass. Sez. I^ 4 febbraio 1993, Maria, in Cass. Pen. 1995; Cass. Sez. VI^ 8 novembre 1995, Pennente; Cass. Sez. IV^ 1° febbraio 1996, Santoro).
In merito a tale superata posizione dei Giudici di legittimità, bisogna anche sottolineare che il ricordo ed il racconto di avvenimenti vissuti o percepiti (ovvero la testimonianza così come si svolge nel processo penale) poggia sull’utilizzo da parte del soggetto di griglie logico-sintattiche familiari (prima e dopo, causa-effetto, sincronia) e di categorie di avvenimenti ed interazioni largamente utilizzate (due persone che parlano, che litigano, che corrono, ecc.) di tal che il ricordo è guidato ed aiutato dalle normali esperienze vissute (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000); mentre la rievocazione di un volto è e rimane uno sforzo mnestico a-logico nel corto circuito di sensazioni razionalmente inesplorabili. Riprova ne è che solitamente il ricordo degli avvenimenti perdura anche quando non siamo più in grado di rievocare efficacemente il volto di coloro che vi hanno partecipato (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000).
2. La ricognizione di persone nel codice di procedura penale: gli artt. 213 e 214 c.p.p.
Differentemente dall’individuazione informale di persona attuata nel corso delle indagini preliminari, il codice di procedura penale disciplina in maniera particolareggiata i presupposti e le modalità del riconoscimento operato dal testimone quale mezzo di prova tipico esperito nel corso del dibattimento o nell’eventuale fase anticipata dello stesso quale è l’incidente probatorio ex artt. 392 e ss. c.p.p.
Benché il modello tipico della procedura di ricognizione sia quello delineato dal disposto degli artt. 213 e 214 c.p.p., il Capo VI^ del codice di procedura (Ricognizioni) disciplina anche la ricognizione di cose (art. 215 c.p.p.), la ricognizione di voci, suoni o di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale (art. 216 c.p.p.) e la pluralità di ricognizioni quando più persone sono chiamate ad eseguire la ricognizione della medesima persona (art. 217 c.p.p.).
Già si è osservato in merito alla fondamentale valenza investigativa (e per certi aspetti anche probatoria) del riconoscimento effettuato durante le indagini preliminari; nel caso della ricognizione, l’atto (oltre che grandemente suggestivo) fa piena prova poiché esperito in contraddittorio tra le parti con la direzione/supervisione del Giudice e secondo precise modalità stabilite dalla legge (anche a pena di nullità).
Nella pratica accade che il 90% dei testimoni chiamato ad effettuare la ricognizione è sicuro di aver individuato il colpevole (Guglielmo G., 2011) mentre precedentemente (1976) uno studio inglese ha verificato che nel 1973 in oltre 2000 ricognizioni il 45% aveva dato esito positivo e di queste nel 74% dei casi il procedimento si era concluso con una condanna ove la ricognizione era l’unica prova a carico dell’imputato (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000).
Come già osservato, la disciplina delineata dagli artt. 213 e 214 c.p.p. per la ricognizione delle persone è adottata dal Legislatore quale modello per l’attuazione del riconoscimento anche degli altri dati fenomenici suscettibili di percezione da parte dell’essere umano.
I bias più diffusi e potenzialmente idonei ad inficiare l’attendibilità della ricognizione di persona sono intuibili (almeno in parte) analizzando il testo delle norme in commento ovvero esaminando la tecnica compilatoria utilizzata dal Legislatore.
Invero, già dalla lettura degli artt. 213 e 214 c.p.p. emerge obbiettivamente che lo stesso Legislatore del 1989, consapevole dell’enorme portata del significato probatorio/indiziante della ricognizione personale, nonché – dato assai meno scontato e meno approfondito – delle intrinseche debolezze del predetto mezzo di prova, oltre che della multiforme natura delle possibili contaminazioni (sia connesse all’osservatore sia veicolate dai terzi), ha cercato di approntare dei protocolli attuativi (almeno) virtualmente idonei a contenere il rischio di possibili errori.
Ecco dunque che un mezzo di prova grandemente utilizzato (ma in maniera significativamente minore rispetto al meno garantito riconoscimento fotografico informale tipico delle indagini preliminari) e considerato ad altissimo contenuto probatorio è in realtà previsto dal Legislatore quale incombente giudiziario da disciplinare minuziosamente (anche nella fase preliminare oltre che attuativa), poiché oggettivamente esposto a multipli errori procedurali e sostanziali.
L’art. 213 c.p.p. (ricognizione di persone. Atti preliminari) prevede che:
1. Quando occorre procedere a ricognizione personale, il giudice invita chi deve eseguirla a descrivere la persona indicando tutti i particolari che ricorda; gli chiede poi se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento, se, prima o dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere, se la stessa gli sia stata indicata o descritta e se vi siano altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento. 2. Nel verbale è fatta menzione degli adempimenti previsti dal comma 1 e delle dichiarazioni rese. 3. L’inosservanza delle disposizioni previste dai commi 1 e 2 è causa di nullità della ricognizione.
L’art. 214 c.p.p. (svolgimento della ricognizione) prevede che:
1. Allontanato colui che deve svolgere la ricognizione, il giudice procura la presenza di almeno due persone il più possibile somiglianti, anche nell’abbigliamento, a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre, curando che si presenti sin dove è possibile, nelle stese condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata alla ricognizione. Nuovamente introdotta quest’ultima, il giudice le chiede se riconosca taluno dei presenti e, in caso affermativo, la invita ad indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa. 2. Se vi è fondata ragione di ritenere che la persona chiamata alla ricognizione possa subire intimidazione o altra influenza dalla presenza di quella sottoposta a ricognizione, il giudice dispone che l’atto sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima. 3. Nel verbale è fatta menzione, a pena di nullità, delle modalità di svolgimento della ricognizione. Il giudice può disporre che lo svolgimento della ricognizione sia documentato anche mediante rilevazioni fotografiche o cinematografiche o mediante altri strumenti o procedimenti.
Il Legislatore quindi, fin dalla redazione degli articoli in parola, ha direttamente evidenziato una serie di cautele da adottare per la corretta esecuzione del mezzo di prova.
2.1 I presidi (minimi) disciplinati dal Legislatore per la tutela dell’attendibilità della ricognizione di persone.
Le cautele codificate nel codice di procedura penale sono previste sia per la fase preliminare della ricognizione sia per la materiale attuazione della stessa.
Si tratta – come vedremo diffusamente oltre – di cautele necessarie, ma assolutamente insufficienti, il cui rigoroso rispetto è la base minima per evitare che la ricognizione si risolva in un atto tanto dannoso (non solo per l’imputato ma anche per la tutela dei diritti della persona offesa) quanto inattendibile.
Quale primo atto della fase preliminare, la richiesta della descrizione della persona da riconoscere è necessaria per permettere (alle parti interessate) la verifica della corrispondenza tra il ricordo del testimone e le caratteristiche della persona riconosciuta. Evidentemente, se il teste afferma di ricordare delle caratteristiche che non contraddistingueranno la persona riconosciuta, l’avvenuta individuazione sarà ab origine dotata di scarsa attendibilità (che sarà tanto più marcata quanto maggiore saranno evidenti e grossolane le difformità tra ricordo/descrizione e persona indicata).
Tuttavia, al fine di valutare realisticamente il correttivo che può rappresentare la preliminare descrizione (codificata dal Legislatore anche al fine di aumentare l’affidabilità della ricognizione), si deve sottolineare che è stato appurato (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000 e 2008, Gulotta G. 2011) come sia più facile riconoscere i volti che descriverli dopo averli richiamati alla mente. Ciò è dovuto al fatto che siamo soliti riconoscere un volto nel suo insieme e non già a concentrare la nostra attenzione sui singoli aspetti dello stesso (per imprimerli nella memoria).
Pregnante significato ha il dovere del Giudice di interrogare il teste (sempre nella fase preliminare) circa eventuali precedenti individuazioni (anche fotografiche) o l’avvenuta trasmissione di informazioni o la rappresentazione di altre circostanze che possano influire sul riconoscimento.
La previsione codifica la potenziale contaminazione del ricordo del teste, che può avvenire con diverse modalità: sia dirette (la visione delle foto o di altre immagini), sia indirette (il racconto e la descrizione), sia generiche (le altre circostanze la cui valutazione è curiosamente rimessa al teste, che ha l’obbligo di riferirle se ritiene di esserne rimasto condizionato).
È rilevante segnalare già in questa sede (rinviando ad altro paragrafo l’indicazione di tutti i bias che affliggono la ricognizione di persona oltre a quelli intuiti dal Legislatore) che i primi due casi di potenziali contaminazioni della individuazione effettuata dal testimone (la visione precedente di immagini e foto e la trasmissione ed il racconto di dati rilevanti inerenti il riconoscimento) sono caratteristici dell’individuazione informale operata dalla polizia giudiziaria in sede di indagini.
Infatti, molto spesso il teste, prima di essere chiamato in dibattimento o di partecipare all’incidente probatorio, è già stato sottoposto alla visione di uno o più album fotografici da parte degli investigatori ed ha avuto modo in quella sede (non solo, come succede il più delle volte, di individuare il sospettato) anche di colloquiare con gli operanti, ricevendo (soprattutto in esito all’avvenuta positiva visione delle foto) diverse informazioni circa la persona e gli accadimenti oggetto del procedimento penale.
Senza contare che la diffusione delle immagini del sospettato avviene spesso ad opera dei mass media in maniera del tutto incontrollabile (oltre che immediatamente e massicciamente fruibile) dal ricognitore.
Non meno significativi sono gli adempimenti obbligatori per la fase attuativa della ricognizione.
Il codice prevede che le persone che devono partecipare alla ricognizione oltre all’indagato/imputato da riconoscere (ovvero i cosiddetti “birilli”) non siano meno di due e che ovviamente assomiglino (anche nell’abbigliamento) alla persona oggetto della ricognizione.
Il numero minimo dei partecipanti previsti per legge a pena di nullità è davvero esiguo ed anche a fronte di una scelta del tutto casuale l’imputato è esposto ad una percentuale di individuazione assolutamente non trascurabile (sicuramente molti passeggeri di un volo di linea non salirebbero sull’aereo sapendo di avere il 33% di possibilità di precipitare).
La possibilità per il Giudice di predisporre la registrazione audio e video dell’incombente (oltre alla previsione della nullità dell’atto eseguito senza il rispetto della procedura legale) evidenzia ancora una volta come il Legislatore abbia inteso preservare l’atto dalle contaminazioni più grossolane, alla luce della delicatezza del compito a cui è chiamato il testimone.
3. Le differenze operative e sostanziali della ricognizione (quale mezzo di prova) e della individuazione durante le indagini preliminari. Il diverso grado di attendibilità.
Dal confronto degli artt. 213 e 214 c.p.p. con l’art. 361 c.p.p. si evince immediatamente che il Legislatore ha inteso garantire e preservare in maniera più vigorosa la ricognizione di persona espletata durante il dibattimento (o l’incidente probatorio) rispetto all’individuazione effettuata in fase di indagini preliminari (anche se, come sopra osservato, l’individuazione avvenuta nella fase investigativa è trasmessa spesso nella successiva fase di accertamento del merito).
La prima rilevante differenza tra le due procedure è che quella disciplinata dall’art. 361 c.p.p. è delineata dal codice senza formalità alcuna, disponendo la norma esclusivamente che la persona (o la cosa) che deve essere individuata sia presentata al ricognitore (anche in immagine).
Null’altro è codificato per l’individuazione del PM o della Polizia Giudiziaria: né la necessità di una preventiva descrizione, né il numero di campioni da sottoporre al soggetto, né particolari modalità di presentazione e composizione dell’eventuale album fotografico.
Il difetto di qualsiasi prescrizione operativa appare essere tanto più rilevante, non solo perché potenzialmente idoneo a minare alla radice l’attendibilità dell’individuazione, ma anche perché l’individuazione in fase di indagini preliminari è spesso prologo della ricognizione quale mezzo di prova (e già si è detto del pericolo che il teste riconosca la foto una seconda volta più che la persona) e comunque elemento di indagine assolutamente suggestivo, che quasi sempre influisce anche sulla successiva fase processuale di merito.
La mancata previsione di specifiche formalità durante l’individuazione fa sì che le forze di polizia si trovino ad agire con libertà operative assolutamente ampie, di tal che spesso il medesimo incombente è realizzato con accorgimenti ed attenzioni assai variabili a seconda della preparazione teorica e dell’organizzazione pratica degli operanti che la effettuano.
A ciò si aggiunga che non esistono attualmente linee guida largamente condivise e ufficiali tra gli operatori di law enforcement italiani.
Inoltre, dal momento che non è prevista la videoregistrazione dell’individuazione fotografica durante le indagini preliminari, nella successiva fase di merito o comunque avvenuta la discovery degli atti al termine della fase investigativa (secondo l’art. 415 bis c.p.p.), non è possibile nemmeno isolare errori procedurali commessi dagli agenti quali, ad esempio, comunicazioni verbali o non verbali che abbiano potuto influire sull’attendibilità dell’esito dell’individuazione (Vedi oltre per l’esame di tali patologie tipiche anche della ricognizione).
A differenza della ricognizione, inoltre, durante l’individuazione vengono di norma presentate alla persona informata dei fatti (che poi solo in dibattimento diverrà formalmente testimone) delle fotografie e non dei soggetti in carne ed ossa.
L’art. 361 c.p.p. non disciplina nemmeno la scelta delle immagini da sottoporre al testimone oculare ovvero né il numero di quelle “di controllo”, né il formato, né la vetustà delle fotografie.
La composizione dell’album quindi, malgrado sia uno dei principali presupposti della genuinità della procedura di individuazione che proprio attraverso la visione dell’album è realizzata, è completamente rimessa alla sensibilità dell’operatore e, anzi, la stessa scelta di non effettuare l’individuazione con la visione della sola immagine della persona da riconoscere non è un imperativo di legge.
Nella pratica, non sono rari i casi di individuazioni – per lo più con esito positivo – effettuate con immagini del sospettato assai datate, inserite in album composti solamente da 4 o 5 immagini (il cui grado di somiglianza con la foto del sospettato è rimesso sempre all’iniziativa dell’operante) e “guidate” (ovviamente in buona fede) dalle espressioni e dai comportamenti assertivi e di rinforzo dell’agente di polizia giudiziaria preposto.
È da ritenere un dato di vulnerabilità anche il fatto che l’individuazione ex art. 361 c.p.p. si svolga in assenza di qualsivoglia contraddittorio con la difesa del sospettato (contraddittorio che, come visto, non può dirsi neppure posticipato, dal momento che non sono previste videoregistrazioni), che non ha diritto alcuno di essere avvertita e di partecipare ad un atto che è e rimane formalmente di indagine, benché si debba segnalare – oltre che la già richiamata valenza suggestiva in fase processuale – anche la centralità dell’individuazione, capace di indirizzare verso un solo soggetto tutti i successivi sforzi investigativi.
Il Legislatore, con gli artt. 213 e 214 c.p.p., ha disposto maggiori cautele per l’effettuazione della ricognizione nella fase di merito, in considerazione della piena valenza probatoria che ha l’atto nella fase processuale (anche anticipata ex art. 392 c.p.p.).
Il primo dato davvero rilevante è che la ricognizione è effettuata tramite persone in carne ed ossa e non su delle immagini; non su dei volti ritratti in maniera monodimensionale ma su dei soggetti apprezzati nella loro figura intera. Viene riconosciuto (eventualmente) un individuo e non la riproduzione di una parte di esso.
La persona da riconoscere (che sia o meno il soggetto precedentemente osservato dal ricognitore) è al cospetto del soggetto che lo deve indicare, scongiurando così il pericolo di fotografie con espressioni innaturali o semplicemente superate per il trascorrere del tempo.
Già solo l’aspetto della “fisicità” assicura una maggiore attendibilità della ricognizione rispetto all’individuazione.
La ricognizione avviene solitamente in apposite aule di Tribunale, dotate di specchio unidirezionale affinché il ricognitore possa osservare senza essere visto.
Nell’aula ove si trova il soggetto che deve effettuare la ricognizione è presente anche il difensore dell’indagato, che è messo in condizione di poter assistere a tutte le operazioni e di prendere atto del rispetto di ogni disposizione di legge.
I birilli sono solitamente degli agenti di polizia e, sebbene la disciplina degli artt. 213 e 214 c.p.p. sia molto particolareggiata, non vi sono disposizioni precise in merito al numero massimo dei soggetti di controllo, alle modalità di presentazione degli stessi (anche se il significato del secondo periodo del 1° comma dell’art. 214 c.p.p. ….invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre…sembrerebbe escludere una presentazione sequenziale) ed alla possibilità per l’interessato di fornire a sua volta dei soggetti di controllo.
Peraltro, il codice prevede che i birilli siano il più possibile somiglianti al soggetto da riconoscere e che il Giudice sia garante di tale fondamentale aspetto.
In ordine a tale particolare, bisogna rilevare che spesso nemmeno il Giudice ha mai visto in carne ed ossa il soggetto per il quale è effettuata la ricognizione e la valutazione di somiglianza è rimessa (anche in questo caso) alle forze di polizia, che dovranno reperire i due agenti con le fattezze simili al sospettato (fatta salva la possibilità per il Giudice – anche con l’apporto della difesa – di sollevare profili di inidoneità dei soggetti di controllo appena prima di effettuare formalmente la ricognizione).
Dopo aver chiesto al testimone di descrivere le fattezze della persona che gli si chiede di riconoscere, il ricognitore (non visto tramite lo specchio unidirezionale) può osservare da vicino il lineup, concentrandosi per tutto il tempo che ritiene opportuno.
In questa fase, la partecipazione del difensore è opportuna affinché non siano veicolate informazioni (anche solo non verbali) che possano condizionare la scelta del testimone, sebbene già la domanda del Giudice secondo quanto prevede la Legge (….il giudice le chiede se riconosca taluno dei presenti…), senza altra specificazione, sembra essere una domanda suggestiva che postula la presenza del soggetto da individuare tra quelli di fronte al ricognitore.
L’attendibilità della ricognizione quale mezzo di prova è inoltre maggiormente garantita non solo dalla presenza del difensore dell’imputato, ma anche dalla direzione dell’incombente da parte del Giudice terzo e non già da una delle parti (la Pubblica Accusa) che, al contrario, è il dominus dell’individuazione in fase di indagini preliminari.
Per ovviare ai più rilevanti errori direttamente inficianti l’attendibilità della individuazione fotografica (e per prevenire le giuste osservazioni delle difese degli imputati in sede di discussione), le forze di polizia hanno adottato negli ultimi anni un protocollo, almeno in parte mutuato dal disposto degli artt. 213 e 214 c.p.p..
Infatti, prima di sottoporre l’album fotografico alla persona informata sui fatti, sono posti alla stessa e sono verbalizzati gli avvertimenti e gli inviti prescritti dall’art. 213 c.p.p. (descrizione della persona da riconoscere, precedenti riconoscimenti, pregresse visioni di fotografie, sussistenza di altre situazioni che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento) affinché siano ridotti i possibili bias connessi all’individuazione fotografica non disciplinata nei particolari dal codice di procedura.
Tale accorgimento, se da un lato mostra un apprezzabile sforzo della prassi operativa a prevenire (almeno formalmente) le maggiori cause di inattendibilità dell’individuazione, non può sopperire al difetto di controllo e contraddittorio durante l’incombente, che è gestito esclusivamente da una parte processuale, né risolve i limiti connessi alla natura stessa del riconoscimento operato su delle immagini (par. 1.2).
4. I fattori che possono maggiormente influenzare l’attendibilità della ricognizione di persona (che agiscono con il medesimo meccanismo anche sull’individuazione fotografica).
La procedura di ricognizione personale (e massimamente quella di individuazione fotografica ex art. 361 c.p.p.), quale mezzo di prova tipico non completamente assimilabile alla testimonianza, è esposto a diverse variabili che possono diminuirne (e spesso inficiano) l’attendibilità del risultato probatorio (Gulotta 2011, Luisella de Cataldo Neuburger, 2000 e 2008, Domenico Carponi Schittar 2012).
Si tratta di circostanze ricollegabili:
1) alle modalità di percezione dell’evento storico durante il quale l’osservatore ha visto la persona da riconoscere;
2) ai meccanismi della memoria e, in particolare, della rievocazione delle immagini del soggetto da individuare;
3) al setting ed alle modalità che caratterizzano l’esecuzione della procedura di ricognizione.
4.1 Le modalità della percezione.
La qualità della percezione è direttamente proporzionale all’attendibilità del riconoscimento, così come lo stesso dato è alla base di una testimonianza affidabile.
Quanto meglio il soggetto può osservare un fatto storico, quanto più lo vivrà intimamente senza sconvolgimenti emotivi, tanto meglio potrà immagazzinarlo – in maniera corrispondente agli accadimenti realizzatisi – tanto meglio lo memorizzerà.
Vi sono delle circostanze di fatto che impediscono all’osservatore di percepire correttamente quella immagine che poi sarà chiamato a rievocare e riconoscere durante la ricognizione e/o l’individuazione:
Il reato solitamente coinvolge il testimone in maniera diretta (massimamente se si tratta della persona offesa), provocando (soprattutto nel caso di reati contraddistinti da un’azione violenta) uno stato di stress e/o di paura. Lo stress ad un livello medio/basso può ottimizzare la percezione dell’osservatore acuendone i sensi; ma uno stato di stress “deflagrante” può causare errori nella procedura di immagazzinamento dei dati sensoriali e, nello specifico, omissioni importanti. Non sono insoliti, invero, casi di amnesia parziale o totale in casi di shock.
Elementi di distrazione possono cancellare del tutto l’attenzione dell’osservatore sulla fisionomia del soggetto che ha davanti. È noto il c.d. “effetto arma” (weapon effect) per il quale il testimone minacciato concentra la vista e l’attenzione sullo strumento per mezzo del quale è fortemente intimidito e/o coartato fisicamente anziché su chi lo impugna;
Eventuali deficit sensoriali (quali ad esempio la miopia) ostacolano e distorcono la percezione dell’osservatore, così come l’assunzione di alcool, droghe, psicofarmaci e altre sostanze psicoattive incidono direttamente sulla qualità e quantità dei dati percepiti.
L’età dell’osservatore incide sulla capacità dello stesso di osservare correttamente gli eventi circostanti: dai 4 o 5 anni fino ai 12 la capacità di percezione è maggiormente resistente rispetto ai pregiudizi ed alle abitudini, ma la capacità mnestica è ridotta rispetto a quella di un adulto. L’anziano è spesso ostacolato da deficit sensoriali, ma è più agevolato nel riconoscimento libero o guidato.
L’osservatore ha maggiori difficoltà a riconoscere un soggetto di etnia diversa dalla propria (si pensi ad un occidentale chiamato ad individuare un orientale);
Il tempo di esposizione all’evento è una variabile fondamentale per l’accuratezza della percezione e per l’immagazzinamento del ricordo. Tanto maggiore sarà il lasso di tempo durante il quale il testimone/osservatore è esposto ai fatti che dovrà ricordare (tra i quali, nello specifico, le fattezze di colui con il quale interagisce), tanto meglio avrà impressi nella memoria i dati sensoriali che dovrà rievocare per effettuare la ricognizione. Un volto osservato fugacemente e per qualche secondo non sarà che una traccia mnestica di difficile isolamento e comparazione.
Maggiore è il numero delle persone coinvolte negli eventi e minore sarà l’attenzione che verso ciascuno di essi l’osservatore sarà in grado di indirizzare.
Il difetto di tratti distintivi dell’autore del reato (cicatrici, tatuaggi, altezza e peso particolari, taglio di capelli, barba e baffi singolari, ecc.) non agevoleranno l’osservatore a ricordare le fattezze percepite, poiché non marcatamente differenti da molte altre osservate in precedenza e successivamente.
Il volto viene percepito nella sua globalità e l’attenzione, semmai, è maggiormente diretta verso capelli, naso, bocca e mento.
La luminosità è particolarmente importante poiché una diminuzione comporterà maggiore difficoltà a percepire gli avvenimenti accaduti.
Tanto maggiore è la prossimità tra osservatore ed osservato e tanto minore sarà l’attenzione del primo per particolari periferici degli eventi.
Tanto più un evento sarà considerato non particolarmente rilevante e significativo, tanto minore sarà l’attenzione che l’osservatore vi dedicherà.
4.2 I meccanismi della memoria nella rievocazione del volto.
La memoria può essere considerata come “la capacità di un organismo vivente di conservare tracce della propria esperienza passata e di servirsene per relazionarsi al mondo e agli eventi futuri. La funzione in cui si esprime la memoria è il ricordo, la cui diminuzione o scomparsa determina l’oblio” (Galimberti U. in Luisella de Cataldo Neuburger, 2000).
La memoria che è coinvolta nel riconoscimento è quella a lungo termine (MLT) ovvero quella che riguarda fatti ed eventi il cui immagazzinamento non deve protrarsi solo per pochi secondi (come avviene invece nella c.d. memoria a breve termine, che sembra operare in maniera molto simile a quella dei canali sensoriali).
Il flusso di informazioni che percepiamo dall’ambiente segue questo percorso (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000): elaborazione dei dati percepiti dell’osservatore dall’ambiente circostante e ingresso dei predetti dati (già oggetto – come detto – di una prima supervisione dell’agente) nel magazzino mnestico a breve termine (short-term store o STS); l’informazione così entrata a far parte del bagaglio esperienziale dell’osservatore può essere da esso trasferita nel compendio di informazioni da trattenersi a lungo termine (long-term store o LTS).
Per essere trattenuta più a lungo termine, l’informazione viene spesso ripetuta mentalmente (Gulotta G., 1987): occorre compiere quindi un atto volontario che colloca quello stimolo istantaneo (STS) nella memoria a medio o lungo termine.
La capacità di decidere ciò che deve essere ricordato da ciò che può svanire (con una sorta di svuotamento della memoria a breve termine) è stato definito “lo strumento più potente per operare una selezione e costruire un modo personale da ciò che William James chiamava il caos primordiale della sensazione” (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000).
Il dato esperienziale trattenuto e non cancellato istantaneamente è quello che, se occorre, il soggetto può rievocare ricordandolo.
Per una corretta analisi dei meccanismi alla base della testimonianza e quindi anche della ricognizione, occorre valorizzare il dato scientifico per il quale l’osservazione è sempre interpretata nel senso che contiene di più di quanto non osservato con il senso della vista. Questo dato ulteriore rispetto al percepito dagli organi di senso è rappresentato dall’organizzazione e decodificazione che apporta la mente dell’osservatore al percetto.
Si tratta di un lavorio mentale di ordine psicologico, per lo più inconsapevole, mediante il quale filtriamo il percepito (e lo apprezziamo immagazzinandolo secondo date modalità) alla luce delle nostre ipotesi, delle nostre spiegazioni, delle nostre idee preconcette, del nostro stato d’animo, della nostra cultura di fondo e delle nostre personali esigenze, anche inconsce.
Non si tratta quindi di immagazzinare e ricordare un ritratto della realtà ovvero un’asettica fotografia di dati percepiti con gli organi di senso, ma di una operazione dinamica innescata dagli avvenimenti circostanti che ci hanno colpito e/o coinvolto.
Il dato percepito mediante il meccanismo psicologico rielaborativo sopra accennato non è soggetto ad una sorta di “resurrezione fotografica” (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000) all’atto del ricordare.
Ciò che viene immagazzinato mediante le esperienze si può avvicinare di più ad un simbolo che ad una fotografia; simbolo che viene organizzato nella memoria e che viene rievocato quale esperienza di simboli all’atto del ricordare, quasi che il ricordo fosse una catena di sillogismi.
Bisogna quindi affermare che gli atti fisici e poi mentali del percepire, immagazzinare e rievocare sono assai lontani dal fedele e immutabile arricchimento per immagini del bagaglio conoscitivo dell’individuo, a disposizione quale vivida rappresentazione di quanto avvenuto in passato.
Si tratta invero di un bagaglio magmatico soggettivo fin dal momento della percezione, che rimane oggetto di manipolazione cognitiva sia durante la fase di ritenzione che successivamente all’atto della rievocazione.
Le capacità e le procedure mnestiche così delineate si rivelano particolarmente influenzabili per la loro stessa natura.
– Innanzitutto, è pacifico che le informazioni immagazzinate nella memoria a breve o lungo termine sono soggette a decadimento anche solo per il semplice trascorrere del tempo. Quanto più un evento è risalente nel tempo tanto più sarà difficile rievocarlo e riferirne i particolari. La variabile cronologica è particolarmente importante poiché il decadimento della traccia mnemonica è regola e poiché l’immagazzinamento da parte del soggetto di informazioni similari di segno diverso (anche non necessariamente opposto) si sovrappongono all’originario dato, facendolo dimenticare e, in ogni caso, il decorso del tempo rende via via più difficile il recupero di quella traccia archiviata nella memoria (dunque l’effetto del tempo sul ricordo è duplice ed implica il decadimento del dato e la maggiore difficoltà di accesso al dato medesimo).
– Anche la ripetizione continua del dato da ricordare è dannosa per l’attendibilità del ricordo. Invero, se da una parte è vero che la ripetizione (anche mentale) di quanto appreso e vissuto cementa il dato nella memoria, è anche vero che i processi di ripetizione implicano che il soggetto aggiunga e tolga particolari al dato ripetuto (e memorizzato), allontanandolo sempre di più da quello effettivamente vissuto.
– Si tende spesso a plasmare il ricordo dei fatti sul ricordo del proprio stato emozionale e psicologico al momento dei fatti di tal che un dato vissuto assume caratteristiche più marcatamente positive e negative (anche nella rievocazione dei singoli concreti aspetti storici) alla luce delle emozioni vissute dall’osservatore in quel momento (ed ecco che una discussione può assumere i caratteri di un litigio se come tale è stato rielaborato dall’osservatore).
– Il ricordo o, meglio, gli aspetti meno certi del ricordo, più nebulosi e quindi inspiegabili sono spesso oggetto di completamento e razionalizzazione da parte del soggetto secondo schemi logici e di comune comprensione.
– Le informazioni che dopo l’evento possono essere apprese dal soggetto (mediante conversazioni con altri soggetti, programmi televisivi ed articoli di giornale) incidono inconsapevolmente sul ricordo e lo inducono (al di là delle sue intenzioni) a rielaborare e rievocare il dato immagazzinato in armonia con quanto successivamente appreso (è il caso della memoria indotta, ad esempio, dalla forze di Polizia desiderose di incoraggiare il testimone o della memoria fantastica per la quale colui che deve ricordare opera un sunto di quanto appreso dalle diverse fonti e organizza il proprio ricordo alla luce del coacervo di dati appresi).
4.3 I principali errori metodologici nell’effettuazione del riconoscimento (sia in fase processuale con la ricognizione che durante le indagini preliminari con l’individuazione fotografica).
Un ulteriore e importante aspetto potenzialmente lesivo dell’affidabilità delle procedure di riconoscimento (sia in tema di ricognizione sia in tema di individuazione, della quale si sono già tratteggiati i bias specifici) è dovuto alle modalità pratiche di attuazione dell’incombente da parte degli “addetti ai lavori” ovvero Giudici, operatori di polizia, Pubblici Ministeri ed avvocati.
Si tratta di criticità particolarmente perniciose, poiché attuate involontariamente (soprattutto dal Giudice, dalla Pubblica Accusa e dai suoi ausiliari) ed altrettanto inconsciamente recepite dal testimone.
Le procedure errate, tuttavia, sono fortemente radicate nella prassi attuativa (complice anche una codificazione ormai obsoleta e non aggiornata sulla base degli studi di ordine psicologico già fatti propri da altri ordinamenti) e la loro effettiva portata deve essere correttamente valutata, preso atto dell’effetto sinergico che le caratterizzano unitamente alle debolezze già accennate del sistema percettivo e mnemonico dell’essere umano/testimone.
Il testimone in generale è vittima del c.d. “effetto yes” ovvero dell’innata volontà e desiderio di approvazione a cui aspira l’essere umano, oltremodo amplificato dal trovarsi al cospetto di soggetti autorevoli (la Polizia, il Pubblico Ministero, il Giudice) che richiedono la sua conferma e comunque, in generale, il suo aiuto e contributo per la repressione/punizione di un crimine (che magari è proprio quello di cui è rimasto vittima il testimone). Il fatto di non riconoscere è vissuto dal soggetto molto spesso come una sconfitta; una forma di incapacità e di frustrazione delle aspettative altrui (vissute tanto più cogenti perché proprie di soggetti autorevoli). Sintomatica in tal senso è l’elevatissima percentuale di risposte positive a richieste di ricognizione (circa il 90%. Gulotta G., 2011), che indica come il ricognitore sia propenso a soddisfare la richiesta di riconoscimento vincendo anche iniziali perplessità. Studi specifici hanno dimostrato come i soggetti chiamati ad effettuare una ricognizione siano incapaci di ammettere la precarietà del loro ricordo al cospetto delle aspettative delle forze di polizia (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000).
Secondo autorevoli studi (Buchout R., Freire V.), il testimone sarebbe oggetto di una suggestione al momento stesso della richiesta di ricognizione; suggestione dovuta alla convinzione che la scelta degli investigatori (o, massimamente, del Giudice) di convocarlo non può che nascere dalla pregressa individuazione del colpevole (che pertanto si troverà sicuramente tra quelli sottoposti alla sua attenzione di persona o in foto), che necessita solo di una conferma (si tratterebbe invero di una suggestione sempre diretta all’esito positivo). La letterale formulazione dell’art. 214 c.p.p., ove è previsto che il Giudice si limiti a chiedere al teste se riconosce qualcuno tra i soggetti presentati (senza specificazione riguardo al fatto che potrebbe legittimamente non riconoscere nessuno), parrebbe inserirsi proprio in tale forma di sottile suggestione.
Anche l’atteggiamento di chi organizza e dirige il riconoscimento ha fondamentale importanza per l’attendibilità dello stesso. Non si tratta di stigmatizzare rinforzi espliciti ed incoraggiamenti verbali altrettanto plateali (che sarebbero oggetto di immediata reazione del difensore durante il dibattimento) o profili operativi facilmente smascherabili e stigmatizzabili durante il controesame del “teste incoraggiato” già chiamato all’individuazione in fase di indagini preliminari, ma di evitare condotte sottilmente veicolanti al ricognitore messaggi di diniego o rinforzo quali sorrisi, cenni del capo, reiterazione della domanda “lo vede?”, richiamo dell’attenzione su uno specifico soggetto, ecc. Si è appurato (Luisella de Cataldo Neuburger, 2000 e 2008) che il semplice sorriso del richiedente implica nell’80% dei casi l’indicazione di un soggetto e nel 38% l’individuazione proprio del soggetto che aveva ricevuto il rinforzo positivo.
La presentazione simultanea del lineup implica che il testimone abbia la conoscenza diretta e preliminare dei soggetti tra i quali dovrebbe indicare la persona da riconoscere. Tale procedura rende concreto il rischio che l’osservatore indichi tra le persone presentategli (ovvero, in concreto, tra le possibilità prospettategli) quella che più si avvicina al suo ricordo e non già esattamente quella che ricorda e che ritiene di aver visto. Il ricognitore opererebbe una sorta di compromesso tra il suo ricordo e le possibilità che gli vengono fornite.
Il numero dei birilli è spesso inadeguato. Il numero di due indicato dall’art. 214 c.p.p. (sebbene mitigato dall’avverbio almeno) è del tutto insufficiente ed anche la percentuale positiva tipica di una scelta causale il (33%) è assolutamente rilevante.
La ricognizione durante il dibattimento o nel corso dell’incidente probatorio è spesso preceduta da una individuazione fotografica (che, se positiva, ha sicuramente implicato osservazioni in merito da parte degli operanti impegnati nell’espletamento dell’incombente), di tal che il testimone potrebbe operare l’indicazione della persona quale quella già riconosciuta in foto e non già necessariamente quella effettivamente osservata durante i fatti.
5. I possibili (ed auspicabili) rimedi per diminuire la percentuale di inattendibilità del riconoscimento (individuazione e ricognizione) dovuta ad errori procedurali e fallacie mnestiche.
Altri ordinamenti, soprattutto di common law, hanno già da tempo individuato i rimedi per attenuare la possibilità di errore nell’atto della ricognizione.
La nostra prassi (anche interpretativa) pare subisca ancora una tenace resistenza a considerare sul piano teorico e a valutare su quello pratico la differenza sostanziale tra testimonianza e ricognizione e a considerare (anche in un’innovativa prospettiva pratica) le peculiarità della seconda.
Invero, la testimonianza concerne la ricostruzione tramite la rievocazione di eventi vissuti o percepiti dal teste (che può essere guidato in tal senso dalle domande dell’interrogante), mentre la ricognizione è una procedura sotto certi aspetti illogica (i fatti possono legarsi secondo schemi mentali condivisi; il ricordo di un’immagine non è un processo mentale sorretto dalla logica), sotterranea, contraddistinta dalla comparazione tra ricordo e dati (immagini o modelli) forniti dall’interrogante (Campo A. 1994, Capitta, 1996).
E a tale particolarità si aggiungono tutti i potenziali bias già affrontati (in parte e brevemente) in questo lavoro.
La Giurisprudenza ha solo negli ultimi anni abbandonato una posizione di sostanziale indiscutibilità degli esiti della ricognizione (ed anche per certi aspetti dell’individuazione in fase di indagini preliminari) per aprirsi a valutazioni più realistiche della effettiva valenza del prodotto della memoria visiva e della capacità comparativa dei testimoni.
La ricognizione (per tratteggiare anche solo sommariamente l’iter della Giurisprudenza) è stata ritenuta sufficientemente attendibile (al di là di ogni ragionevole dubbio) e unica prova valida su cui basare la responsabilità dell’imputato anche a fronte di un alibi (sebbene non del tutto confermato) (Cassazione penale, sezione VI, 11 luglio 1992, n. 503 V. anche Cassazione penale, sezione II, 4 luglio 1995 – 5 ottobre 1995, n. 10141)
In maniera forse più preoccupante, i Giudici di legittimità hanno anche statuito nel 1994 (quindi quando il “nuovo” codice del 1989 e gli artt. 213 e 214 c.p.p. non erano più eccessivamente innovativi) che una ricognizione espletata con birilli con fattezze completamente diverse da quelle del soggetto da individuare era da considerarsi (e valutarsi) idonea a sorreggere il convincimento del Giudice sulla base del suo prudente apprezzamento (Cassazione penale, sezione I, 7 settembre 1994, n. 9676, udienza del 15 giugno 1994).
E nella medesima direzione si è orientata più volte la stessa Corte affermando che il riconoscimento operato dalla persona offesa durante l’udienza senza formalità alcuna può essere il presupposto della sentenza di condanna (tra le altre, Corte di Cassazione 11 giugno 1992 n. 6922, V. anche Corte di Cassazione 16 luglio 1998, n. 8409, ric. De Vuono).
Tali pronunce – evidentemente segno di una lettura del tutto parziale del dato scientifico/psicologico ed esperenziale delle caratteristiche salienti e dell’intrinseca inattendibilità delle procedure ex artt. 213 e ss. cp.p. e 361 c.p.p. – sono ad oggi superate (o almeno dovrebbero esserlo del tutto) a seguito di “coraggiose” decisioni di alcuni giudici di merito.
L’innovazione di tali Sentenze consta proprio del pragmatico e realistico approccio che operano al mezzo di prova della ricognizione (valutata più attendibile dell’individuazione fotografica tipica delle indagini preliminari) e del riconoscimento mediante la visione di album ex art. 361 c.p.p.
La prima è quella della Corte di Assise di Milano del 21 gennaio 2008 n. 16/07 (decisa il 26 novembre 2007, redatta dal compianto Presidente Dott. Luigi Domenico Cerqua), secondo la quale bisogna prendere atto (anche in contrasto con il precedente filone giurisprudenziale) di tutti i limiti dell’individuazione fotografica, atteso che “….Quanto alle individuazioni informali di persone, la giurisprudenza, nell’ottica del principio della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice, ritiene ammissibili i riconoscimenti fotografici senza l’osservanza delle formalità previste dal codice. Si sostiene al riguardo che anche il riconoscimento fotografico avvenuto in fase di indagini può essere posto dal giudice del dibattimento a base del suo convincimento, in omaggio proprio ai ricordati principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento. L’interpretazione non sembra possa essere condivisa nella sua impostazione dogmatica. Desta soprattutto perplessità, come ha posto in evidenza la dottrina, l’affermazione in base alla quale la certezza della prova dipenderebbe non già dal riconoscimento come risultato probatorio, ma dalla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica sicuro della sua identificazione. Le ricerche nel campo della psicologia della ricognizione, al contrario, hanno dimostrato come una tale affermazione di principio sia quantomeno fuorviante, atteso che l’attendibilità dell’individuazione fotografica non va misurata sulla certezza del ricognitore, bensì sull’attendibilità intrinseca del riconoscimento….”.
Dello stesso segno (e della medesima portata innovativa) è stata poi la Sentenza del 28 aprile 2009 (emessa dalla stessa Corte di Assise milanese ed anch’essa redatta dal Presidente), che ha ribadito (se possibile con una valutazione più ampia della fallibilità dell’individuazione fotografica e della maggiore attendibilità della ricognizione con una disamina ancora più attenta degli aspetti psicologici dell’incombente) come: “…L’esperienza giudiziaria e la ricerca psicologica hanno evidenziato che la ricognizione di persona, fondandosi essenzialmente su basi magmatiche quali la memoria – il ricorso – e l’evocazione è forse, tra i mezzi di prova, quello che fornisce il maggior numero di errori. Molta cautela occorre quindi nella valutazione di questo particolare mezzo di prova. Del resto, il riconoscimento di persona esprime sempre una valutazione del soggetto che è chiamato ad effettuarlo, il quale richiama alla memoria il complesso delle espressioni visive nel suo ricordo, lo pone a confronto con le sembianze della persona da riconoscere ed esprime un giudizio di corrispondenza o meno tra questa e quella vista in precedenza. Si comprende quindi come, rispetto alla figura generale della testimonianza, la ricognizione di persona comporti una ben maggiore aleatorietà per l’inevitabile presenza perturbatrice di fattori emotivi e per la sua non agevole verificabilità, in assenza di un costrutto logico narrativo. Ha rilevato al riguardo la dottrina che il soggetto chiamato ad effettuare una ricognizione di persona opera nel corto circuito delle sensazioni; gli risulta noto un viso a proposito del quale non rammenta niente; subisce inoltre forti variabili emotive. Le pure impressioni visive, poi, durano meno della memoria storicamente elaborata: si ricordano gli avvenimenti quando i visi sono già svaniti; il meccanismo con il quale vengono i volti richiamati alla memoria e le curve dell’oblio differiscono nettamente nei due casi. L’atto ricognitivo, nonostante sia dotato di una grande forza impressionistica, costituisce un mezzo di prova di estrema delicatezza, che reca in sé numerose insidie. Il legislatore si è mostrato ben consapevole di questa realtà: come si legge nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, “la marcata diffidenza verso l’attendibilità dei risultati di questo mezzo di prova e l’esigenza di assicurare nella maggiore misura possibile il rispetto di regole dirette ad evitare esiti influenzati e precostituiti” lo hanno indotta “ad accentuare una regolamentazione minuziosa delle attività preliminari della ricognizione vera e propria e dello svolgimento di questa.” Le modalità del riconoscimento di persona, previste dagli artt. 213 e 214 del codice del rito penale (la c.d. lineup dell’esperienza americana), dovrebbero essere osservate in maniera scrupolosissima, per evitare che il soggetto chiamato alla ricognizione possa essere indotto ad errate identificazioni. In particolare, la dottrina di lingua inglese ha osservato al riguardo che le persone messe in fila debbono essere abbastanza omogenee al presunto colpevole in relazione a peso, altezza, età, vestiario, ecc. Inoltre, poiché i testimoni tendono a percepire la colpevolezza in base ad uno stereotipo facciale, si deve tener conto che inserire solo soggetti con il viso normale e simpatico può portare a deviare il loro giudizio su cui presenta i connotati tipici dello stereotipo del criminale. Occorre inoltre considerare le differenze fisiche esistenti tra persone originarie di Paesi diversi e distanti tra loro. La dottrina ha dimostrato come i reati vengono generalmente consumati in condizioni del tutto particolari, cariche di stress per l’osservatore, che diminuiscono la sua possibilità di percepire correttamente ciò che sta accadendo di fronte a lui, anche perché i movimenti si svolgono rapidamente e il testimone può percepire solo immagini frammentarie e pochi particolari. Le ricerche psicologiche hanno dimostrato che nel corso del riconoscimento fotografico il testimone è chiamato a cercare di formare nella sua memoria, unendo i frammenti particolari del volto della persona vista, un’immagine unitaria, onde poterla raffrontare alle fotografie che man mano gli vengono mostrate. Questa fase è generalmente carica delle aspettative dell’interrogante e dello stesso teste ad operare un riconoscimento positivo: la persona chiamata ad effettuare il riconoscimento è generalmente mossa dal desiderio di assolvere bene il proprio dovere civico e di venire incontro alle aspettative delle autorità di polizia. Si deve inoltre considerare che, una volta individuato l’autore di un omicidio sulla base della visione di alcune fotografie, il testimone raramente sarà portato a rivedere successivamente, davanti al giudice, la propria dichiarazione, anche perché non raffronterà più il soggetto identificato con il soggetto presente sulla scena del delitto, ma con il soggetto precedentemente riconosciuto: il che può condurre ad una percezione alterata sino ad arrivare ad una errata identificazione…”.
Bisogna aggiungere, tuttavia, che se tali Sentenze hanno – giustamente – sottolineato la debolezza dell’individuazione informale e posto l’accento su aspetti peculiari della ricognizione ex art. 213 e 214 c.p.p., non hanno messo in evidenza i possibili errori procedurali propri delle ricognizioni personali e soprattutto non hanno anticipato quelle che potrebbero essere delle valide soluzioni correttive.
Già nell’ottobre del 1999, al contrario, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America ha pubblicato un serie di linee guida per la raccolta e la conservazione delle prove fornite dal testimone oculare intitolata Eyewitness Evidence: A Guide for Law Enforcement nella quale si indica l’opportunità della presentazione consequenziale dei soggetti da riconoscere e del “doppio – cieco” (V. oltre) (Gulotta G. 2011). Solo dopo due anni, le linee guida divenivano Legge ad opera dell’“alto funzionario dello Stato del New Jersey” per tutte le identificazioni effettuate nello Stato.
Sempre del 1999 è il protocollo stilato dal Technical Working Group for Eyewitness Evidence in tema di ricognizione di sospetti i cui risultati sono tutt’ora punto di riferimento per la maggioranza dei Paesi di Common Law in fatto di ricognizione (https://www.ncjrs.gov/nij/eyewitness/tech_working_group.html).
Estremamente utili le indicazioni che ben potrebbero adottarsi anche nel nostro sistema penale per garantire la migliore affidabilità della ricognizione personale:
– Per quanto possibile, bisognerebbe operare la ricognizione di persona con le garanzie del dibattimento (eventualmente in fase di incidente probatorio) entro il più breve lasso di tempo possibile dall’accadimento e, ove fattibile, non far procedere l’incombente da una individuazione informale in fase di indagini preliminari per mezzo della visione di album fotografici.
– Bisognerebbe evitare per quanto possibile la preliminare visione dell’album fotografico e/o dell’immagine del sospettato affinché il testimone, in sede di ricognizione, non sia indotto a riconoscere l’immagine ritratta anziché il soggetto visto durante i fatti.
– La ricognizione dovrebbe essere operata con il sistema del “doppio – cieco” (double-blind procedure. Gulotta G., 2011) secondo il quale chi la dirige (P.M., Giudice o Polizia Giudiziaria) dovrebbe ignorare se tra i soggetti che compongono il lineup è effettivamente presente l’individuo sospettato. Tale posizione del soggetto dotato di maggiore autorevolezza agli occhi del testimone (perché appunto padrone della scena e di un ambiente di solito non familiare al ricognitore) dovrebbe essere comunicata al teste per diminuire l’“effetto-yes” e l’errata interpretazione di atteggiamenti prima facie di rinforzo (sorrisi, sguardi rassicuranti, domande ripetute, ecc.).
– Dovrebbe dirsi esplicitamente al teste, con istruzioni chiare e precise, che il soggetto da individuare potrebbe non essere presente tra quelli che gli verranno sottoposti e che il contributo che gli si chiede (l’individuazione) è positivamente assolto anche se non dovesse riconoscere alcun soggetto.
– La presentazione dei soggetti dovrebbe essere consequenziale senza una preliminare informazione circa il numero degli stessi, affinché il testimone non sia indotto ad indicare quello che gli assomiglia di più tra le varie possibilità prospettategli.
– Dovrebbe essere previsto un numero minimo di birilli non inferiore alle quattro unità e dovrebbe altresì essere esplicitamente previsto dalla Legge che l’interessato ha il diritto di presentarne almeno la metà.
– Nel caso di riconoscimento da parte di più testimoni, le operazioni dovrebbero avvenire con procedure separate e con l’accortezza che i testi non possano comunicare tra di loro dopo l’incombente (l’ideale sarebbe procedere nella medesima giornata per tutti i testi).
– L’affidabilità della ricognizione dovrebbe essere preservata da feedback postivi o negativi soprattutto nel caso in cui il testimone potrebbe essere nuovamente chiamato ad effettuare una ricognizione.
Bibliografia:
“Appunti in tema di ricognizioni e ravvisamento”, Campo A. c.p. 1994, p. 127.
“Esame e controesame nel processo penale”, collana di diritto e psicologia, Luisella de Cataldo Neuburger, CEDAM 2000.
“Esame e controesame nel processo penale” collana di diritto e psicologia, Luisella de Cataldo Neuburger, CEDAM 2008.
“Esame e controesame teoria e tecnica”, Domenico Carponi Schittar, Giuffrè Editore 2012.
“Compendio di psicologia giuridico-forense, criminale e investigativa”, collana di psicologia giuridica e criminale, Guglielmo Gulotta, Giuffrè Editore 2011.
“Investigazione di Polizia Giudiziaria. Manuale delle tecniche investigative” Alberto Intini, Angelo R. Casto, Domenico A Scali, LAURUS ROBUFFO settima edizione 2006;
“Investigare. Manuale pratico delle tecniche di indagine” Antonio Manganelli e Franco Gabrielli, CEDAM Casa Editrice Dott. Antonio Milani 2007.
“Ricognizione coatta, comunicative evidence e diritto al silenzio” Capitta ,G.P 1996, I, p.106.
“Suggestivity in Lineups and Photospreads” a cura di Buckhout R., Freire V. Centre for Responsive Psychology, Brooklin College, CUNY, New York in “Esame e controesame nel processo penale”, collana di diritto e psicologia, Luisella de Cataldo Neuburger, CEDAM 2000.
“Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale a cura di Guglielmo Gulotta”, collana di psicologia giudiziaria e criminale, Cristiana Panseri, Giuffrè Editore 1987.
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