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Trattiamo brevemente di una recentissima Sentenza della Cassazione (28 novembre 2012 – 29 aprile 2013 n. 18826 n. 18826) in tema di sostituzione di persona ex art. 494 c.p..


Commette tale reato chiunque al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica.
La condotta è costituita dal fatto di indurre taluno in errore scambiando (sostituendo)
la propria identità (persona)
o attribuendo a sé o ad altri
un falso nome,
ovvero un falso stato,
ovvero una qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici.
Si tratta di un c.d. reato a forma vincolata, potendosi realizzare soltanto in una delle forme tassativamente indicate nella norma e tale tassatività implica che la violazione possa essere realizzata con condotte meramente omissive (ovvero di “NON fare” come nel caso di “lasciar credere” senza mettere in atto alcuna azione specificatamente finalizzata a far nascere la falsa convinzione nella vittima).
Le condotte dell’agente indicate dalle norma per l’esecuzione del reato sono oltre che tassative anche alternative e, quindi, ne consegue che ove l’induzione in errore si realizzi con due o più di tali modalità sarà comunque configurabile un solo reato.
Il dolo del reato – ovvero la natura della volontà di colui che lo compie – è specifico l’agente deve avere quale preciso scopo della propria condotta “il fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno”.


Ebbene, in tema di sostituzione di persona ex art. 494 c.p., rilevante è la Sentenza qui in commento quale esempio di interpretazione delle norme penali finalizzata all’applicazione delle stesse a condotte materiali di commissione sostanzialmente diverse (dal punto di vista meramente pratico) rispetto a quelle ipotizzate dal Legislatore del 1930 al momento dell’introduzione della fattispecie nel codice penale.
Si tratta di un’esigenza ormai assai diffusa nella pratica quotidiana poiché accanto a norme del codice penale relativamente recenti, sopravvivono molte altre disposizioni pensate dal Legislatore in un contesto sociale e, soprattutto, tecnologico assai diverso rispetto a quello attuale.
Ecco allora che in assenza di un’interpretazione plastica delle norme del codice penale per adattarle a forme e modalità di commissione ignote al Legislatore del 1930, risulterebbero prive di sanzione penale condotte assai dannose per chi le subisce i cui effetti perniciosi sono del tutto sovrapponibili (a differenza delle condotte di realizzazione) a quelli che il codice penale ha inteso reprimere fin dalla prima stesura di oltre ottant’anni fa.
Bisogna in ogni caso sottolineare che tali possibilità di “attualizzazione” delle norme penali per mezzo di un’interpretazione innovatrice trova un invalicabile limite nel principio del divieto di analogia in malam partem e in quello di tassatività.
Secondo tali principi la norma penale non può essere applicata in casi – soltanto – analoghi rispetto a quelli effettivamente delineati nella norma stessa poiché con tale meccanismo rischierebbero di essere colpite anche delle condotte che “assomigliano” solamente a quelle vietate dalla legge penale con la conseguente incertezza circa ciò che è legale e ciò che legale non è.
Un esempio di legittima attualizzazione della disposizione penale mediante un’interpretazione innovatrice è la Sentenza in commento secondo la quale l’art. 494 c.p. può applicarsi anche al caso in cui la sostituzione di persona si realizzi tramite il sistema informatico (modalità di commissione, come detto, certamente non ipotizzata dal Legislatore del 1930).
Nel caso di specie, l’agente – spacciandosi per la legittima intestataria del numero di telefono – aveva inserito il numero telefonico della sua datrice di lavoro (ovviamente ignara) in una chat a contenuto erotico accompagnandolo da un nikname con lo scopo di danneggiare la persona offesa che, effettivamente, veniva raggiunta da plurimi telefonate e messaggi sconci e provocanti degli altri partecipanti alla chat convinti di contattare l’autrice dell’inserzione.
In questo caso la Corte ha dato atto della difficoltà di applicazione delle vecchie norme al progresso tecnologico ed opta per una interpretazione estensiva che viene indicata ben diversa dall’analogia in malam partem vietata dalla legge.

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