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GLI ASPETTI PECULIARI DEL PROCESSO PSICOLOGICO DECISIONALE.

In questa sezione dedicata agli APPROFONDIMENTI desidero pubblicare un estratto del volume “PSICOLOGIA COGNITIVA PER IL DIRITTO” a cura di Carlo Bona e Rino Rumiati (edizioni il Mulino) dedicato alle dinamiche decisionali collegiali dal titolo “Le decisioni di gruppo e i collegi giudicanti”.

Il procedimento penale tutto (ovvero dalla fase delle indagini preliminari a quella dell’accertamento del fatto reato) è una vicenda tutta umana così come lo sono i fatti storici oggetto del procedimento stesso.

L’approccio degli investigatori ai fatti ed alle persone che indagano ed escutono, quello dell’accusato e delle vittime, le relazioni tra inquirenti, testimoni e le parti, la partecipazione del testimone al processo, l’esame ed il controesame della persona offesa e dei testimoni terzi, l’interrogatorio della persona accusata, il processo decisionale del Giudice e dei Collegi Giudicanti, ed altri aspetti del procedimento penale non possono e non devono essere analizzati per la loro completa comprensione solo ed esclusivamente dal punto di vista giuridico.

Ed invero, come detto, trattandosi di una interazione di persone a vari livelli e con intensità e scopi diversi (l’accusato intento a difendersi, il PM ad accusare, il teste a riferire quanto di sua conoscenza, il Giudice a ricostruire gli accadimenti e a darne un inquadramento ed una definizione giuridica) è innegabile che per la migliore gestione e comprensione del procedimento penale (da parte, peraltro, di tutte le parti in causa Giudicante compreso) è necessario adottare ANCHE un approccio di natura prettamente psicologica atto a comprendere, analizzare proficuamente, prevedere e prevenire le condotte, le emozioni, le reazioni e le analisi che tutti coloro che sono coinvolti nel procedimento penale provano, adottano ed alla luce delle quali agiscono e reagiscono (come detto, nell’adozione ed esecuzione del loro ruolo NEL procedimento penale).

Controesaminare un teste in dibattimento avendo come guida solo e solamente le norme del codice di procedura penale che disciplinano la testimonianza, non assicureranno minimamente un contro esame proficuo per la parte che lo esegue senza conoscere i meccanismi della memoria, i concetti di attendibilità e credibilità, quelli di capacità a testimoniare generica e specifica, i bias cognitivi più diffusi, la teoria della mente.

Sempre in tema di testimonianza, l’aspetto psicologico della stessa è massimamente rilevante – ed anche il Legislatore si è determinato in tal senso con le specifiche norme che disciplinano l’incidente probatorio e l’intervento dell’ausiliario del Giudice esperto di psicologia dell’età evolutiva – nel caso dell’esame del minore sospetta vittima di abuso sessuale.

A tal fine sono state da tempo formalizzate le migliori linee guida per l’ascolto del minore (la Carta di Noto nella sua ultima versione è sicuramente il protocollo maggiormente autorevole) che prendono le mosse proprio da concetti, prassi e principi di natura prettamente ed univocamente psicologica.

Certo, la psicologia e la prassi giudiziaria si rivolgono a campi e scopi quasi antitetici: la prima è finalizzata a comprendere l’agire umano ed eventualmente a curarne gli aspetti patologici mentre la seconda ha quale scopo la ricostruzione del fatto storico al fine di ricondurlo eventualmente ad una fattispecie di reato codificata con la conseguente punizione del colpevole.

Ma, tuttavia, come detto, il processo penale E’ una vicenda umana che ha alla base un accadimento che vede degli esseri umani protagonisti o testimoni dello stesso di tal che non è possibile capirne ed affrontarne compiutamente ogni aspetto prescindendo dalla scienza che ha quale obbiettivo lo studio della condotta e dei processi umani mentali e cognitivi.

Di particolare interesse è la psicologia della decisione ovvero i processi emotivi e mentali di coloro che, uniti in un collegio giudicante, devono emettere una Sentenza nei confronti dell’accusato.

Negli ordinamenti di common low – per intenderci, massimamente nei processi che si celebrano negli Stati Uniti – è legge e tradizione che sia una giuria di cittadini a giudicare un consociato sotto la direzione e l’egida di un Giudice togato il cui potere decisionale è limitato il più delle volte alla sola quantificazione della pena ed invero, sul fatto storico, la decisone spetta solo e solamente ai giudici popolari.

La scelta dei giurati riveste una grandissima importanza e le parti – soprattutto la Difesa come abbiamo imparato dalla filmografia anche meno recente – si avvalgono di esperti in psicologia per individuare i migliori candidati (probabilmente) più inclini ad assecondare le loro argomentazioni

In Italia operano collegi di svariata composizione.

Nella materia civile e penale la gran parte dei collegi, siano essi di tribunale o di corte d’appello, è costituita da tre giudici togati, che decidono a maggioranza e devono motivare le proprie decisioni. La Corte d’assise e la Corte d’assise d’appello, che si occupano dei procedimenti relativi ai reati più gravi, decidono però in collegi composti da due giudici togati e sei laici.

La decisione viene presa a maggioranza e i giudici laici decidono sia sul fatto sia sul diritto.

Presso i tribunali e le corti d’appello è previsto operino sezioni specializzate in determinate materie (diritto agrario, minorenni ecc.) che aprono, in vario modo, alla presenza di giudici laici «esperti» del settore.

La Corte di cassazione decide, sempre a maggioranza, in collegi di cinque giudici togati, che diventano nove per le decisioni rimesse alle Sezioni unite.

Composizioni ancora diverse sono previste per i tribunali amministrativi regionali e per il Consiglio di Stato ecc..

Le decisioni dei collegi italiani sono comunque sempre motivate.

Sebbene sia assai verosimile che gran parte degli effetti psicologici che riguardano le giurie si producano anche in relazione ai collegi giudicanti italiani, in futuro sarebbe opportuno condurre approfondite ricerche sul modo in cui questi effetti variano a seconda della composizione del collegio, del maggior o minor grado di expertise dei suoi componenti (distinguendo, in particolare, tra collegi composti da soli togati e collegi aperti alla partecipazione di laici) e della materia che viene trattata.

L’articolo qui pubblicato (che fa parte di una trattazione molto interessante e ben più ampia dedicata all’intreccio tra diritto e psicologia cognitiva) affronta e tratta proprio le dinamiche decisionali dei collegi giudicanti e come il singolo si inserisca in tali consessi finalizzati ad esprimere un giudizio.

Inoltre, gli autori si soffermano anche sui bias cognitivi e le emozioni che colpiscono i collegi (come accade per i singoli impegnati in una decisione) e come gli atteggiamenti del soggetto da giudicare possa influire sulla presa della decisione.

Le decisioni di gruppo e i collegi giudicanti

Descritti processi di pensiero implicati nel giudizio, ci possiamo adesso chiedere se questi restino invariati quando la decisione, anziché da un individuo, venga presa da un gruppo di individui. In questo capitolo ci occuperemo della decisione di gruppo, o «collegiale», analizzando in quale misura questa ripeta caratteri e strutture della decisione individuale e in quale misura, invece, se ne differenzi. In particolare saranno esaminati i meccanismi che guidano la persuasione e la costruzione di decisioni condivise e i fattori responsabili di decisioni collegiali povere.

1. GRUPPI E COLLEGI

Come abbiamo ampiamente osservato, parti, giudici e avvocati ragionano e decidono, sovente, in modo difforme rispetto a quanto sarebbe prescritto dai modelli normativi. A fronte di ciò, un modo intuitivo per aumentare il livello di razionalità nei ragionamenti e nelle decisioni sembra essere quello di coinvolgere più persone nella decisione.

La convinzione che più persone (più «teste») ragionino e decidano meglio di una, oltre a essere intuitiva, è stata spesso coltivata anche in ambito scientifico.

Già nel XVIII secolo Jean-Antoine Condorcet formulò un affascinante teorema della giuria. Il teorema, descritto nell’Essai sur l’application de l’analyse à la probabilité des décisions rendues à la pluralité des voix («Saggio sull’applicazione dell’analisi alla probabilità delle decisioni prese a maggioranza di voti») del 1785, si basa sulla supposizione che vi sia un gruppo di individui ai quali viene richiesto di rispondere a una domanda con un sì o con un no. Si suppone, inoltre, che gli individui diano la loro risposta indipendentemente l’uno dall’altro e che le risposte siano corrette in una qualche misura superiore al 50%. Date queste condizioni, la probabilità che una maggioranza all’interno di quel gruppo risponda correttamente alla domanda posta aumenterà in funzione dell’aumento della numerosità del gruppo. Se traduciamo il teorema nel contesto dell’attività di una giuria o di un collegio decidente, si può affermare che se la decisione relativa al giudizio binario di innocenza o di colpevolezza viene presa a maggioranza: a) la probabilità che la decisione presa sia corretta sarà maggiore della probabilità che sia corretta la decisione presa da qualunque individuo del gruppo; b) la probabilità che una decisione sia corretta aumenta quanto più ampia diventerà la giuria o il collegio decidente.

In tempi più recenti Leavitt [1975] ha sostenuto che le decisioni prese collegialmente da piccoli gruppi di individui sono più efficienti di quelle prodotte singolarmente. Lo stare in gruppo consentirebbe di soddisfare il bisogno fondamentale di appartenenza sociale e al contempo:

  • i gruppi manifesterebbero una maggior capacità creativa dei singoli;

  • il gruppo potrebbe capitalizzare più informazione rispetto ai singoli componenti;

  • i membri del gruppo potrebbero intervenire per correggere gli errori commessi dagli altri membri.

Nel famoso volume La saggezza delle folle [2004], Surowiecki, per citare un altro autore che si è impegnato su questi temi, ha commentato una serie di eventi per dimostrare che insiemi collettivi, non necessariamente organizzati, possono produrre risultati migliori rispetto a un qualche individuo considerato in isolamento. La forza della saggezza dei soggetti collettivi sembra derivare dalla possibilità di combinare tra loro una certa quantità di giudizi differenti e indipendenti.

Il fatto che l’idea della maggiore efficienza delle decisioni di gruppo e collegiali su quelle individuali sia non solo intuitiva ma variamente sostenuta a livello scientifico concorre a spiegare perché sovente, nel prendere le decisioni implicate nel giudizio, parti, avvocati e giudici si riuniscano in gruppi o si costituiscano in collegio.

Le parti si riuniscono frequentemente in gruppi, che vanno dai consigli di famiglia, che si è soliti costituire quando si deve decidere se instaurare una causa, ai consigli di amministrazione. L’idea è sempre la stessa: si reputa che il singolo componente della famiglia o il singolo amministratore sia meno efficiente, nel prendere decisioni, del gruppo e più esposto all’errore.

Gli avvocati, specie a fronte dei casi più complessi, si riuniscono in collegi difensivi, più o meno articolati. Si va dalla riunione del lunedì nel piccolo studio legale, in cui si discutono assieme i casi più delicati, al dream team che ha assunto la difesa di O.J. Simpson nel caso del quale abbiamo già parlato (cfr. quadri 2.5 e 4.3).

Infine, l’ordinamento prevede che in alcuni casi la decisione venga presa da collegi di giudici. Ciò avviene, in Italia, nei procedimenti civili di primo grado più delicati, nei procedimenti civili d’appello e di cassazione, nei procedimenti penali più gravi e in alcuni dei procedimenti penali in fase di impugnazione.

I collegi possono poi essere costituiti da soli giudici togati, da giudici togati affiancati da esperti (come avviene nel tribunale dei minorenni o nel tribunale di sorveglianza) o da giudici togati affiancati da giudici popolari (come nelle corti d’assise italiane o nei processi statunitensi che prevedono la giuria). Sovente, quindi, confidiamo sull’idea che le decisioni di gruppo e collegiali siano più efficienti e affidiamo i giudizi a gruppi e collegi. Ma le decisioni dei gruppi sono veramente più «razionali»? E, se lo sono, in quale misura?

Nel tempo la fiducia verso la maggiore efficienza delle decisioni collegiali si è un po’ incrinata. Guarnaschelli, McKelvey e Palfrey [2000] hanno sottolineato ad esempio il fatto che per quanto i modelli basati sul teorema di Condorcet abbiano mostrato di essere efficienti, almeno sul piano sperimentale, essi non sembrano in grado di catturare tutti gli aspetti di dettaglio che possono caratterizzare un singolo ambito di applicazione, come quelli che riguardano la sfera giudiziaria. Il modello, infatti, mentre consente di indagare lo scarto tra le scelte razionali e quelle guidate da razionalità limitata, non sembra capace di prendere in considerazione alcuni componenti contestuali della decisione che possono influenzare il comportamento in specifiche applicazioni.

Si sono condotti svariati esperimenti dai quali emerge che i collegi sono esposti a errori decisionali tipici, ulteriori rispetto a quelli ai quali è esposto il singolo decisore.

Anche Surowiecki [2004] pone precondizioni rigorose alla maggiore efficienza delle decisioni di gruppo. Perché siano più efficienti, precisa, devono concorrere quattro condizioni.

1. Il gruppo deve riflettere differenti abilità, opinioni, conoscenze e prospettive.

2. Deve esserci un’assoluta indipendenza tra i diversi giudizi espressi dai membri del gruppo, nel senso che le conoscenze e le opinioni di ciascun membro non devono essere influenzate da quelle degli altri componenti del gruppo.

3. I membri del gruppo devono manifestare giudizi genuini e sinceri, non condizionati da obiettivi strategici.

4. Il singolo deve disporre di uno strumento che gli consenta di aggregare e di riassumere i giudizi dei singoli individui in un unico giudizio.

Date queste precondizioni, la teoria descritta da Surowiecki sembra incentrarsi più sull’efficienza delle regole statistiche che su reali forze di interazione tra gli individui e sulla condivisione di conoscenze responsabili e consapevoli.

Le quattro condizioni difficilmente potranno concorrere in giudizi concreti, come quelli nei quali sono impegnati i collegi giudicanti italiani o le giurie attive nei sistemi di common law. In questo capitolo dobbiamo quindi analizzare con attenzione i meccanismi psicologici che muovono gruppi e collegi. Utilizzando, per comodità, una tassonomia diffusa [Kerr e Tindale 2004], dobbiamo distinguere:

  • i meccanismi che caratterizzano e limitano il ragionamento e la decisione del singolo componente del collegio;

  • i meccanismi che incidono sul ragionamento e sulla decisione del singolo quando si pone in relazione con il gruppo;

  • i meccanismi che incidono sul ragionamento e sulla decisione del gruppo, come complesso di individui.

E’ appena il caso di osservare, peraltro, che la tassonomia viene utilizzata per semplice comodità espositiva. Nella realtà tutti questi meccanismi operano congiuntamente, senza che se ne possano sempre tracciare nettamente i confini d’operatività.

2. IL SINGOLO COMPONENTE DEL GRUPPO O DEL COLLEGIO

Il fatto che una parte si riunisca con altre persone per prendere una decisione, o che più avvocati si riuniscano in un collegio difensivo, o che più giudici decidano a loro volta riuniti in collegio non esclude che per il singolo componente del gruppo o del collegio valga quanto detto finora sulla struttura e sui caratteri dei ragionamenti e delle decisioni. In altri termini, il singolo, quando entra a far parte del gruppo o del collegio, continua a essere un individuo che pensa nel modo da noi descritto nei precedenti capitoli.

Ciò comporta che i singoli componenti del gruppo o del collegio sono esposti agli errori decisionali e alle distorsioni rispetto alla razionalità «olimpica» che abbiamo ormai ampiamente descritto. Ovviamente, le distorsioni che riguardano il singolo si riflettono, o quantomeno possono riflettersi, sulle decisioni del gruppo o del collegio. Di ciò abbiamo ampio riscontro sperimentale nei lavori sulle giurie nordamericane.

Negli Stati Uniti le parti possono concorrere alla selezione della giuria. La consapevolezza che il singolo giurato possa essere esposto a pregiudizi nei confronti dell’oggetto del processo ha alimentato vari studi sulla selezione scientifica delle giurie. L’idea di fondo [MacCoun 1989] è che le caratteristiche di personalità dei giurati possano predisporli ad assumere posizioni coerenti in sede di formulazione del verdetto. Questo ha spinto molti avvocati nordamericani a sollecitare l’aiuto di esperti di scienze sociali nello svolgimento di selezioni scientifiche dei giurati. Gli strumenti utilizzati erano per lo più costituiti da interviste o sondaggi sulle conoscenze generali della comunità di riferimento e sugli atteggiamenti nei confronti degli aspetti coinvolti nella causa. I contenuti delle indagini dovevano servire a determinare le preferenze, ponendole in relazione con altre variabili demografiche, personologiche e attitudinali, in maniera tale da favorire la costruzione di un profilo del giurato ideale.

I sostenitori della «selezione scientifica della giuria» hanno rilevato che, nei processi in cui le sentenze possono avere come conseguenza la pena capitale, gli atteggiamenti dei giurati nei confronti della pena di morte possono essere dei predittori affidabili della decisione di votare la colpevolezza di un imputato accusato di omicidio.

MacCoun, ancora, sostiene che le fonti che producono gli effetti più solidi sull’espressione del giudizio da parte delle giurie sembrano essere costituite dalle informazioni esterne allo specifico ambito del giudizio. Infatti, ricerche condotte con giurie simulate hanno documentato che gli effetti più importanti e maggiormente attendibili derivano dalle caratteristiche fisiche degli imputati e delle parti in causa e dalla pubblicità data dai media al caso in discussione prima che il processo venga celebrato.

QUADRO 7.1.

Giurie e collegi giudicanti

Una parte significativa degli studi sulle decisioni collegiali ha riguardato le giurie. Queste, nei paesi di common law, hanno storicamente accompagnato il giudice togato nella decisione e continuano ad accompagnarlo soprattutto negli Stati Uniti, dove il diritto alla giuria è costituzionalmente protetto dal VII emendamento. Le giure presentano caratteri peculiari, che le distinguono da molti nostri collegi giudicanti. Volendo riassumerne i tratti più salienti [Kalven e Zeisel 1971; Mattei 2001]:

  • la giuria è giudice del fatto; le questioni di diritto sono rimesse alla decisione del giudice;

  • il verdetto della giuria non è mai motivato;

  • le giurie sono composte da giudici popolari, non da giudici togati;

  • le giurie sono formate, di regola, da 12 persone (sebbene in diverse giurisdizioni sia consentito alle parti di optare per giurie dalla composizione ridotta);

  • le giurie decidono, di regola, all’unanimità (sebbene le parti, in certi contesti, possano accordarsi per una decisione a maggioranza).

In un lavoro condotto da MacCoun [1990] si è osservato che le qualità positive dell’aspetto fisico di un imputato influenzavano le valutazioni espresse dai singoli giurati e dalle giurie simulate dopo la formulazione della deliberazione. Più precisamente, si è visto che, quando l’imputato appariva at-traente, i giudizi tendevano a spostarsi verso il riconoscimento di innocenza; al contrario, se l’imputato appariva non attraente, questo spostamento non si verificava. Il risultato, quindi, era che le giurie simulate mostravano una maggior propensione a giudicare innocente l’imputato che presentava caratteristiche attraenti rispetto all’imputato in possesso di caratteristiche non attraenti. Kaplan e Miller [1978] hanno svolto ricerche volte a provare gli effetti dell’etnia dell’imputato, del suo aspetto fisico, dell’inflessione del procuratore e di altri aspetti irrilevanti per il giudizio. I risultati hanno permesso di rilevare un impatto di tali fattori sul singolo componente della giuria (pur concludendo che le giurie nel loro complesso parrebbero essere meno condizionate di quanto possano esserlo i singoli giurati).

Altrettanto rilevanti sembrano essere gli effetti sul comportamento della giuria della pubblicità precoce a cui un processo viene esposto prima dell’inizio del procedimento, sia esso civile o penale. La ricerca, infatti, ha generalmente dimostrato che questo fenomeno può influenzare, soprattutto nei casi penali, la percezione di gradevolezza dell’imputato, della sua credibilità, le manifestazioni di simpatia verso di lui e i giudizi di colpevolezza prima ancora che il dibattimento abbia inizio [Studebaker e Penrod 1997].

Naturalmente, i segni di questi effetti sono determinati per lo più dai segni corrispondenti con quelli del materiale utilizzato per produrre la copertura mediatica o la comunicazione pubblicitaria. Perciò gli effetti distorcenti possono essere ridotti, o addirittura eliminati, contrastando tempestivamente la pubblicità precoce negativa diffusa prima dell’inizio del processo con la pubblicità precoce positiva. Oltra a ciò il risultato può tradursi in un bias a favore dell’assoluzione o comunque favorevole alla difesa [Ruva et al. 2012].

Anche le prove inutilizzabili sembrano produrre effetti sul giudizio dei singoli componenti della giuria. Carretta e Moreland [1983] hanno condotto un esperimento utilizzando giurie simulate composte da sei persone alle quali venivano fatti leggere degli appunti relativi a un processo per un caso di omicidio e si chiedeva loro di esprimere una valutazione sulla colpevolezza dell’imputato prima e dopo la discussione di gruppo. Nel corso del processo veniva prodotta un’intercettazione ritenuta dal giudice inutilizzabile. La prova in una condizione era favorevole all’accusa e in un’altra era favorevole alla difesa. I risultati dimostrarono che la prova inutilizzabile, sia che favorisse l’accusa sia che favorisse la difesa, produceva reazioni distorte dei soggetti nei confronti dell’imputato e distorceva indirettamente i comportamenti dei giurati nel corso delle discussioni di gruppo. Un’estesa analisi condotta sui risultati di diverse indagini sugli effetti di prove inutilizzabili ha mostrato che i giurati esposti alla prova condannavano più frequentemente di quelli non esposti, anche quando la corte aveva ammonito la giuria a non considerare la prova [Steblay et al. 2006].

Altri fattori cognitivi provocano i fenomeni, anche questi molto studiati dalla dottrina nordamericana sulle giurie, della distorsione predecisionale e della dissonanza postdecisionale.

La distorsione predecisionale è un bias particolare che si riflette sulla pronuncia finale [Carlson e Russo 2001]. Nonostante i giurati vengano istruiti, all’inizio del procedimento, a non trarre conclusioni fino a quando non abbiano esaminato tutte le informazioni e le prove che via via vengono presentate nel processo, non si può escludere che essi giungano a conclusioni premature o seguano una linea di giudizio senza un sostegno obiettivo dei dati. In tali condizioni un bias molto forte cui sono esposti i giurati è proprio la distorsione predecisionale: la tendenza a interpretare e a valutare la nuova informazione prodotta nel dibattimento a supporto dell’ipotesi che attualmente si sta imponendo nel corso del processo decisionale, quale essa sia.

Carlson e Russo, per spiegare il fenomeno, riportano il seguente esempio:

Si immagini che, a un passaggio intermedio del processo, a due giurati A e B venga presentata una nuova prova. Pur avendo i due giurati osservato la nuova prova nello stesso momento, poniamo che il giurato A fino a quel momento sia stato propenso a ritenere più condivisibile l’impostazione dell’attore e che il giurato B abbia ritenuto più condivisibile l’impostazione del convenuto. Entrambi i giurati tenderanno a una lettura distorta della nuova prova nella direzione delle ipotesi di giudizio che si sono imposte nella loro mente. Per ogni singolo giurato questa lettura distorta potrebbe essere spiegata da un’interpretazione caratteristica della prova che si verifica a supporto dell’ipotesi di verdetto che attualmente si trova in posizione di vantaggio rispetto ad altre ipotesi. Certo, non ogni prova può essere interpretata in modo da confermare l’ipotesi preferita dal singolo giurato. Ma, considerando più elementi di prova, le variazioni caratteristiche nelle valutazioni dovrebbero produrre un risultato medio e produrre distorsioni che favoriscano sistematicamente l’attore per il giurato A e il convenuto per il giurato B.

Come osservano Carlson e Russo, questo bias non è facilmente eliminabile con le sollecitazioni fornite alle giurie prima dell’inizio del dibattimento. Alle giurie viene regolarmente suggerito di valutare l’intero complesso dei dati emersi dall’istruttoria e di procedere alla valutazione solo a istruttoria conclusa, in modo da evitare valutazioni parziali. Ma le ricerche finora condotte hanno mostrato che i componenti delle giurie manifestano una comprensione drammaticamente bassa delle istruzioni e delle linea guide loro fornite [Hastie, Penrod e Pennington 2002]. Un aiuto per ridurre la tendenza alla distorsione predecisionale potrebbe al più essere quello di rendere consapevoli i giurati della modalità con cui si manifesta il bias e delle sue conseguenze sul giudizio finale.

Un altro fenomeno ampiamente studiato è quello della distorsione postdecisionale. Il componente di un gruppo, dopo aver preso una decisione, può rendersi conto che essa non appare compatibile, opportuna o efficiente rispetto ad alcune delle informazioni che si avevano a disposizione. Si può pensare al giudice, componente di un collegio, che opta per la colpevolezza quando c’è almeno una prova significativa che, contro le altre, avrebbe fatto propendere per l’assoluzione. In questi casi il giudice, come tutti gli individui che si trovino in circostanze analoghe, si troverà in una situazione di dissonanza cognitiva e sarà spinto a risolverla [Festinger 1962].

Alla dissonanza abbiamo già fatto cenno (cfr. cap. 6, par. 8). Per ricordarne le caratteristiche possiamo riportare un altro famoso esperimento di Festinger e Carlsmith [1959]. I partecipanti, tutti studenti universitari, venivano assegnati in maniera casuale a una delle seguenti tre condizioni sperimentali.

Nella prima condizione si chiedeva loro di eseguire per un’ora in laboratorio dei compiti molto noiosi. I compiti proposti erano del seguente tipo: nella prima mezz’ora gli studenti dovevano, usando una sola mano, riempire un vassoio con delle bobine, svuotarlo, riempirlo di nuovo, e poi svuotarlo e così via. Nella seconda mezz’ora ricevevano una tavoletta perforata contenente 48 chiodini a sezione quadrata e dovevano spostarli sempre con una sola mano di 45 gradi verso sinistra e poi di nuovo di 45 gradi a destra, quindi nuovamente a sinistra e poi ancora a destra e così via. Alla fine della prova i partecipanti erano invitati a dire a degli altri studenti, che stavano aspettando fuori dal laboratorio, che i compiti effettuati erano interessanti e piacevoli, ottenendo 1 dollaro come ricompensa di questa «bugia». Nella seconda condizione altri studenti, dopo aver svolto lo stesso compito, erano invitati a dire la stessa bugia, ma in questo caso ricevevano come ricompensa la somma di 20 dollari.

Infine nella condizione di controllo gli studenti dovevano soltanto svolgere quei compiti noiosi.

I soggetti che avevano manifestato la loro disponibilità a «mentire» entravano in una situazione di dissonanza cognitiva. Costoro, infatti, mettevano in atto un comportamento che si scontrava con l’atteggiamento negativo nei confronti della prova sperimentale, assunto a seguito dell’esperienza fatta.

Ma i soggetti consenzienti, dopo aver ricevuto la ricompensa, interrogati nuovamente sulla valutazione dei compiti effettuati in laboratorio, fornivano una valutazione del tutto difforme da quella iniziale: le prove fatte apparivano adesso proprio come erano state descritte ai colleghi che stavano aspettando, cioè piacevoli! Ciò che rendeva il risultato interessante era il fatto che i soggetti non avevano bisogno di essere rinforzati con 20 dollari per dichiarare che il compito appariva effettivamente piacevole. In realtà costoro avevano un’ottima ragione esterna per mentire, appunto 20 dollari: perché quindi avrebbero dovuto successivamente riconoscere che in effetti il compito era piacevole? Ai soggetti che avevano ricevuto solo 1 dollaro, invece, era stata fornita una giustificazione appena sufficiente, perciò il comportamento assunto aveva innescato un conflitto tra ciò che essi avevano affermato e il loro effettivo convincimento. La dissonanza tra ciò che si è sperimentato e ciò che si è affermato mentendo richiede che il conflitto debba essere risolto e ciò sarà possibile nella misura in cui la valutazione del compito cambierà per adattarsi al comportamento assunto nei confronti di coloro che dovevano sottoporsi successivamente all’esperimento.

La soluzione del conflitto può portare il singolo giudice (o componente del gruppo, o comunque del collegio) a darsi una ragione della decisione già presa (ecco il carattere postdecisionale della dissonanza) mediante forme di sottovalutazione dell’informazione che genera la dissonanza. Ciò, a sua volta, può tradursi in una sottostima dell’importanza di quell’informazione (di quella prova, di quell’argomento…) ai fini della motivazione. Con il rischio che la sentenza venga impugnata per non aver il collegio esaminato sufficientemente il punto.

Così come sulla decisione del singolo componente del gruppo o del collegio incidono fattori cognitivi, parimenti incidono le emozioni. Anche in questo caso abbiamo vari riscontri relativi alle giurie. Pettys [2007], discutendo di come le emozioni possono influenzare l’attività delle giurie, propone che le si debba raggruppare in tre distinte categorie:

la prima comprende le emozioni che mettono in relazione gli sforzi dei giurati nel valutare la credibilità delle testimonianze;

la seconda fa riferimento alle emozioni che si manifestano quando i giurati tentano di costruirsi storie coerenti che rendano conto di tutte le prove assunte;

la terza raccoglie le esperienze emotive associate alla volontà di esprimere un verdetto che sia fedele ai fatti che ritengono siano stati corroborati dalle prove prodotte nel corso del processo.

Analizzando come le emozioni appartenenti alla prima categoria possano incidere sulle giurie, Pettys sottolinea il fatto che i giurati, nel sistema giudiziario angloamericano, sono sollecitati a prestare attenzione al modo in cui i testimoni parlano e si comportano mentre rendono testimonianza.

La rilevazione delle emozioni nel testimone e l’esperienza che gli individui hanno degli effetti prodotti dalle loro emozioni possono aiutare i giurati a fare intuizioni sulla possibilità che il testimone si stia comportando in maniera ingannevole. La ricerca, però, ha mostrato che la nostra abilità nel valutare la credibilità facendo leva sul modo di comportarsi assunto dai testimoni non è infallibile. Si è osservato che le espressioni facciali e l’assenza di contatto visivo non costituiscono indicatori inequivocabili della condotta ingannevole di un individuo. Infatti, è stato dimostrato che gli individui sembrano più abili a rilevare la condotta ingannevole proprio quando essi non hanno accesso a quei segnali rispetto alle circostanze in cui li possano rilevare [Zuckerman et al. 1981]. Al contrario, altri aspetti del comportamento, come l’eccessivo autocontrollo nelle risposte, potrebbero fornire un aiuto all’osservatore per riconoscere la menzogna.

Le emozioni poi influenzano i giurati nella costruzione e nella selezione delle storie che riassumono coerentemente le prove assunte nel processo. Come abbiamo visto (cfr. cap. 6, par. 6), i giurati si costruiscono diverse storie sulla base del materiale acquisito nel corso del processo e sulla base delle conoscenze in loro possesso [Pennington e Hastie 1988]. Molte di queste storie saranno rigettate senza che venga dedicata loro una particolare attenzione, mentre altre saranno mantenute per una più attenta considerazione. Le emozioni possono orientare la scelta di una storia quando una particolare narrazione degli eventi genera nel giurato una dissonanza cognitiva. L’emozione negativa generata da questo conflitto segnala al giurato che qualcosa non va e gioca un ruolo centrale nel processo volto a superare il conflitto.

Il conflitto può manifestarsi perché, ad esempio, nella storia non c’è corrispondenza con elementi di una testimonianza che il giurato sarebbe incline ad accettare in altre circostanze, oppure perché il giurato registra interferenze tra varie inferenze generate dalle prove prodotte, inferenze che in altre situazioni avrebbe accettato, e ancora perché la rappresentazione del funzionamento del mondo posseduta dal giurato, e comunemente accettata in generale, si scontra con il modo in cui funziona il mondo e in cui si comportano gli individui nel caso oggetto del giudizio: modalità, queste ultime, che testimoni e procuratore stanno tentando di suggerire.

Poiché la dissonanza cognitiva genera uno stato emotivo negativo, le opzioni narrative che il giurato si è costruito e che risultano responsabili della dissonanza saranno marcate negativamente, come suggerisce Damasio [1994]. Se, infatti, si considerano le diverse decisioni che attengono alle singole storie, l’esito negativo associato a una o più di esse produrrà una sensazione spiacevole, somatica, che contrassegnerà un’immagine, cioè il marcatore somatico. Nella teoria elaborata da Damasio, al marcatore somatico viene assegnata la funzione di forzare l’attenzione sull’esito negativo al quale può condurre una certa azione, agendo come un segnale automatico d’allarme e restringendo notevolmente la gamma di scelte possibili. I marcatori somatici renderebbero così più efficiente e preciso il processo di decisione. Se questa particolare marcatura è sufficientemente forte, il giurato sarà indotto a riorientare l’attenzione abbandonando una certa storia ed esplorando altre possibilità.

La terza categoria analizzata da Pettys [2007] riguarda le emozioni che si manifestano nel pronunciare la decisione. I giurati, essendo spesso esposti alla visione di immagini cruente della scena di un delitto o dei corpi delle vittime o ai racconti efferati dei testimoni, possono esperire emozioni forti e potrebbero sentire il desiderio di esprimere quelle emozioni attraverso il verdetto.

I giurati possono utilizzare le loro emozioni per spronare la loro volontà di giungere a una pronuncia che sia fedele ai fatti che emergono dall’istruttoria, nonostante lo stress che una tale pronuncia può causare. Pettys, però, paventa un rischio, e cioè che le emozioni che un aspetto particolare dell’istruttoria provoca siano tanto forti da impedire ai giurati di effettuare una valutazione corretta di tutte le prove acquisite nel corso del processo. C’è il rischio che i giurati manifestino le emozioni che tanto fortemente hanno provato nella sentenza, la quale a questo punto non rifletterà in maniera accurata i dati emersi dall’istruttoria.

3. IL COMPONENTE NELLA SUA RELAZIONE CON IL GRUPPO O IL COLLEGIO

Ai meccanismi psicologici che abbiamo appena analizzato, e che caratterizzano il pensiero del singolo componente del gruppo o del collegio preso, per così dire, nella sua individualità, si aggiunge una serie di meccanismi che incidono sul ragionamento e sulla decisione del singolo quando si pone in relazione con il gruppo.

Il primo di questi è la propensione al conformismo. In un famoso esperimento condotto da Milgram, Bickman e Berkowitz [1969] a un «federato», cioè un individuo che faceva da spalla ai ricercatori, i tre psicologi sociali chiedevano di fermarsi in un trafficatissimo e frenetico marciapiedi di New York e di fissare un punto qualsiasi nel cielo per una sessantina di secondi. La maggioranza dei passanti lo aggirava e passava oltre: soltanto il 4% si fermava per vedere che cosa egli stesse guardando. L’esperimento veniva successivamente replicato, ma questa volta le persone che venivano poste a guardare nel vuoto erano 5; in questo caso il numero delle persone che si fermavano saliva di quattro volte. Quando, poi, i federati che guardavano il punto in cielo diventavano 15, coloro che si fermavano salivano al 45% e aumentavano fino all’80% dei passanti quando il numero dei federati aumentava ancora.

Il comportamento dei passanti si giustifica con ciò che i tre studiosi hanno denominato «conferma sociale». Se un certo numero di persone aderisce a un determinato comportamento, si è portati a presumere che ci sia una buona ragione per farlo.

Da questo e da altri esperimenti sui processi imitativi emerge come il gruppo costituisca una potente leva per favorire l’imitazione. Si tratta di processi adattivi. L’imitazione favorisce la coesione sociale e quindi si rivela sotto molti aspetti efficiente.

Il problema è costituito dal fatto che in certe ipotesi l’imitazione cessa di essere una strategia efficiente e può essere foriera di errori. Come suggerisce Surowiecki [2004], in certi contesti il gruppo cessa di essere intelligente.

Ciò emerge da svariati esperimenti, divenuti ormai classici, sulle leggi di base relative alla costituzione e all’aggregazione di minoranze e maggioranze nella formazione delle decisioni. Nelle giurie, come in tutti i gruppi orientati a raggiungere un obiettivo, i componenti si orientano a costituirsi in maggioranza e minoranza e ciò produce effetti significativi sul comportamento dei componenti del gruppo. Tali dinamiche sono state provate sperimentalmente in studi ormai classici a partire dagli anni ’30 del secolo scorso.

Sherif [1935] per primo ha osservato come valutazioni soggettive di aspetti relativi alla sfera percettiva possano essere sensibilmente condizionate. II suo esperimento utilizzava l’effetto autocinetico, un effetto già noto in psicologia della percezione, questa volta però lo si calava in un contesto sociale.

Nella prima fase dell’esperimento ai partecipanti veniva chiesto di fissare un puntino luminoso intermittente posto a una distanza di 5 metri e di stimare se e di quanto si spostasse. A causa di un’illusione ottica i soggetti avevano l’impressione che il punto luminoso si muovesse anche se in realtà era immobile e riferivano che si spostava di circa 10 centimetri. I partecipanti, però, mostravano di essere fortemente influenzati dalle opinioni espresse da coloro che fungevano da «spalla» dello sperimentatore e che partecipavano all’esperimento. Le stime dell’ampiezza del movimento espresse dai partecipanti aumentavano e diminuivano a seconda che le valutazioni dei federati con lo sperimentatore andassero nell’una o nell’altra direzione.

Muovendo da questi dati, lo studio dei meccanismi alla base dell’influenza sociale si è sviluppato in due direzioni. La prima si è volta a indagare l’influenza maggioritaria, forma di influenza facilmente comprensibile e più frequentemente osservabile; la seconda ha affrontato lo studio dei meccanismi dell’influenza minoritaria, forma quest’ultima meno intuitiva rispetto alla prima.

L’influenza maggioritaria ha come effetto quello di indurre gli individui ad assumere condotte compiacenti o conformistiche. Questo effetto è stato osservato da Asch [1951] con compiti in cui ai partecipanti venivano mostrati tre segmenti di differente lunghezza e dovevano dire quale dei tre fosse uguale a un altro segmento presentato come campione. Tutti i membri del gruppo, tranne il soggetto sperimentale, d’accordo con lo sperimentatore, sostenevano che i segmenti erano uguali al segmento campione, anche se obiettivamente non lo erano. I risultati mostrarono che circa un terzo delle valutazioni espresse dai soggetti del gruppo sperimentale risultava erroneamente influenzato dalla maggioranza.

L’influenza minoritaria fu studiata per primi da Moscovici e Faucheux [1972] con il cosiddetto «paradigma blu-verde», mediante il quale si chiedeva ai partecipanti di denominare i colori che venivano loro presentati. Due partecipanti, federati con lo sperimentatore, fungevano da minoranza e riconoscevano le diapositive blu come verdi. I risultati mostrarono che i giudizi espressi dai partecipanti venivano influenzati da quelli della minoranza. Si osservò, inoltre, che la forza dell’influenza era maggiore quando la minoranza era costituita da almeno due persone e quando costoro esprimevano una posizione coerente nel tempo. Il film La parola ai giurati (1957), diretto da Sidney Lumet e interpretato da Henry Fonda, rappresenta in modo magistrale come la posizione iniziale di una giuria chiamata a esprimere all’unanimità un verdetto di colpevolezza o innocenza in un caso di omicidio possa progressivamente modificarsi.

Il film inizia con il giurato interpretato da Fonda come il solo favorevole all’assoluzione. Nel corso del film la sua posizione si rinforza con l’adesione di un altro giurato. Si forma così una piccola minoranza. Questa minoranza, mantenendo una posizione stabile e solida di fronte agli attacchi critici degli altri componenti della giuria, riesce progressivamente a modificare le posizioni dei singoli, ottenendo alla fine l’unanimità sulla pronuncia assolutoria.

4. I FENOMENI PSICOLOGICI CHE RIGUARDANO IL GRUPPO

Continuando a seguire la tassonomia che abbiamo abbozzato all’inizio del capitolo, altri fenomeni psicologici riguardano il gruppo in sé.

Il primo fenomeno da analizzare, uno dei più studiati tra quelli che riguardano le decisioni collegiali, è quello del groupthink, o «gruppo-pensiero». Janis [1972] ha analizzato alcuni dei disastri decisionali dell’amministrazione americana, imputabili principalmente a un fattore che intuitivamente sembrerebbe una caratteristica positiva dell’attività dei gruppi, ovverosia la coesione di gruppo.

Nelle organizzazioni le decisioni spesso vengono prese facendo ricorso all’aiuto di gruppi di lavoro. In queste situazioni si presume che i partecipanti al gruppo di lavoro siano mossi da spirito cooperativo e che tale atteggiamento sia quello che potrà favorire il migliore esito possibile per l’organizzazione. Le decisioni prese in gruppo possono, tuttavia, avere esiti diversi e ciò dipende da una molteplicità di fattori come, ad esempio, la dimensione dei gruppi, la natura dei compiti per i quali i gruppi sono stati costituiti, la distribuzione delle competenze e delle abilità tra i partecipanti al lavoro dei gruppi, la disponibilità delle risorse necessarie per il raggiungimento degli obiettivi ecc. Uno degli aspetti che favoriscono l’efficacia delle decisioni di gruppo è la diversità delle competenze e delle posizioni all’interno del gruppo. Tali differenze permettono al gruppo di sperimentare la cosiddetta «controversia costruttiva», che consente di affrontare creativamente i problemi e di produrre decisioni efficaci. Tuttavia, è stato osservato che in certe circostanze il lavoro di gruppo produce decisioni qualitativamente povere, proprio a causa della forte coesione del gruppo. Se questa è la precondizione, gli effetti che si ripercuotono sull’attività di gruppo sono una condizione particolare denominata appunto «groupthink». Tale condizione si manifesta in uno sforzo collettivo volto alla ricerca dell’unanimità che annulla la motivazione dei singoli membri a valutare realisticamente le alternative attuali o potenziali. Quindi il groupthink è responsabile di una sorta di deterioramento dell’efficienza mentale, della valutazione della realtà e del giudizio morale e di una tendenza a ignorare le informazioni esterne incongruenti con il corso d’azione favorito. I sintomi che segnalano la presenza di questo deterioramento, descritti da Janis e Mann [1977], sono i seguenti.

  • L’illusione di invulnerabilità, caratterizzata da un ottimismo ingiustificato e da una tendenza altrettanto ingiustificata ad assumere condotte rischiose che dispone i membri del gruppo a ritenere di essere immuni da attacchi o da accuse.

  • L’autocensura, per cui i membri del gruppo minimizzano qualsiasi dubbio venga sollevato circa l’esistenza del consenso apparente del gruppo.

  • L’illusione di unanimità, che porta a ritenere che tutti i partecipanti al lavoro di gruppo siano d’accordo; tale illusione può portare i membri a manifestare dei comportamenti di pressione esplicita diretta al conformismo.

  • La costruzione artificiosa di giustificazioni per qualsiasi azione il gruppo stia intraprendendo, impedendo in tal modo l’emersione di dubbi o il riesame appropriato delle posizioni già espresse.

  • La costruzione di stereotipi dei gruppi con cui si entra in contatto o in conflitto, cosicché la tendenza prevalente sarà quella di respingere i rivali o gli antagonisti potenziali come soggetti troppo deboli per reagire efficacemente o troppo infidi per assumere tentativi genuini di negoziazione.

L’effetto del groupthink sembra essere stato il principale responsabile di decisioni disastrose che hanno segnato la storia dello scorso secolo. Uno di questi eventi riguarda l’attacco nipponico di Pearl Harbor nel 1941. Nelle settimane precedenti l’attacco i comandanti militari americani delle Hawaii erano esposti a un flusso continuo di informazioni sui preparativi di un attacco giapponese. Quindi l’intelligence militare interruppe i contatti radio con le portaerei giapponesi che avevano cominciato a muovere sulle Hawaii. I ricognitori avrebbero potuto individuare le portaerei o almeno dare l’allarme qualche minuto prima dell’attacco imminente se avessero mantenuto un’elevata vigilanza. Ma i comandanti decisero di non adottare queste precauzioni! Un altro fiasco decisionale imputabile sempre al groupthink è stato il tentativo di rovesciare il governo di Castro da parte del presidente John F. Kennedy. Il fatto, noto come l’«invasione della Baia dei Porci», si riferisce alla decisione presa da un gruppo di funzionari dell‘intelligence americana, senza un’adeguata preparazione in questioni militari, di introdurre segretamente nel territorio cubano un gruppo di esiliati anticastristi. Il risultato di questa operazione fu che tutti gli appartenenti a quel contingente furono uccisi o catturati appena sbarcati sul suolo cubano.

Potendo il groupthink produrre effetti deleteri anche in relazione alle scelte delle parti di intraprendere o continuare giudizi, o in relazione alle scelte di collegi difensivi, o, ancor più, in rapporto alle decisioni di giudici collegiali, appaiono particolarmente importanti i suggerimenti che Janis [1972] dà per ridurre l’impatto del bias. Basandosi il groupthink su una forte tendenza al conformismo, si dovrà favorire l’emersione del pensiero critico. A ciò si può pervenire, in certi contesti, prevedendo votazioni segrete o in assenza del leader, ma, in contesti come quelli implicati nei giudizi, il suggerimento preferibile è quello di far assumere a uno dei componenti del gruppo o del collegio il ruolo di «avvocato del diavolo». Affidando a un membro il ruolo di criticare l’opzione su cui sta convergendo la scelta, si permette di far emergere punti di vista e informazioni che altrimenti sarebbero destinati a venir sacrificati. Un altro elemento di notevole impatto è quello della polarizzazione di gruppo. Tale fenomeno è stato documentato per primo da Stoner [1968] in una situazione in cui si chiedeva ad alcuni studenti di economia di risolvere problemi che comportavano dei rischi. I partecipanti dovevano scegliere tra una condotta cauta, che comportava un modesto beneficio, e un’altra rischiosa, che offriva una ricompensa finale consistente. Stoner osservò che quando i partecipanti affrontavano il problema in gruppo optavano per opzioni più rischiose rispetto a quando prendevano le decisioni da soli. Il fenomeno, quindi, rende conto del fatto che, quando la maggioranza dei componenti di un gruppo propende per una certa soluzione, la discussione spinge sovente il gruppo ad adottare una posizione più estrema rispetto a quella oggetto della discussione.

Gli effetti della polarizzazione sono stati osservati anche sulle deliberazioni delle giurie [Myers e Kaplan 1976]. È accertato che, di solito, una giuria propensa a liquidare danni punitivi liquiderà una somma di denaro significativamente maggiore della media delle liquidazioni dei singoli componenti il collegio [Sunstein et al. 2002]. Così come si è accertato che i giudici di nomina repubblicana adottano posizioni estremamente conservatrici quando fanno parte di collegi composti da soli giudici repubblicani (posizioni molto più conservatrici di quelle che adotterebbero decidendo individualmente e, di converso, giudici democratici che fanno parte di collegi composti da soli democratici diventano estremamente progressisti [Sunstein, Schkade e Ellman 2004].

Le ragioni che possono favorire la polarizzazione sono diverse. Alcune derivano dagli effetti delle dinamiche sociali che si attivano nei gruppi. Una di queste potrebbe essere ricondotta alla tendenza delle persone a essere considerate positivamente dagli altri componenti del gruppo. Per favorire questa valutazione, gli individui, nelle situazioni di gruppo, controllano sistematicamente gli atteggiamenti e le reazioni degli altri componenti in maniera tale da «aggiustare» la propria posizione all’interno del gruppo stesso [Isenberg 1986].

Un’altra ragione può essere ricercata nella tendenza dei componenti del gruppo a essere condizionati dall’«identità sociale», ovverosia a identificare le varie caratteristiche che li denotano come gruppo e li differenziano dagli altri gruppi. Quindi la polarizzazione contribuisce ad accentuare la distanza percepita tra la norma del proprio gruppo e le norme che vengono attribuite agli altri gruppi [Mackie 1986]. Altre ragioni sono riconducibili non solo ai processi cognitivi, ma anche a processi che attengono agli aspetti informativi delle interazioni tra i componenti del gruppo. La prima di tali ragioni si riferisce alla teoria della forza persuasiva delle argomentazioni. Tale teoria si fonda sull’osservazione che, prima che inizi la discussione di gruppo su un particolare aspetto, un componente del gruppo avrà usualmente formulato una posizione iniziale e formulato argomenti volti a sostenere la propria posizione. La discussione di gruppo, allora, esporrà i partecipanti a nuovi argomenti che potranno consolidare la sua posizione o alternativamente distoglierla dalla posizione inizialmente espressa. Nel caso in cui la consolidino, ovviamente finiranno con l’estremizzarla [Brauer, Jud e Gliner 1995]. La seconda ragione si riferisce a una particolare caratterizzazione delle conseguenze dell’interazione fra i componenti del gruppo, nel senso che le discussioni all’interno del gruppo sulle preferenze inizialmente espresse spronano coloro che le hanno manifestate a spiegarle agli altri membri. Questo percorso ha come conseguenza l’accrescimento della loro fiducia su quelle preferenze, anche se talvolta possono non essere del tutto convincenti o solide [Heath e Gonzalez 1995]. Questa ipotesi è stata provata anche da Sunstein [2000]. Infatti, è stato osservato che, quando una propensione inizialmente manifestata dalle persone trova conferme attraverso il confronto nel gruppo, esse tenderanno ad acquisire maggior fiducia sulle posizioni precedentemente espresse, muovendo così in direzioni più estreme. Va ricordato, inoltre, che le persone non desiderano essere diverse dai propri simili, ma nemmeno essere identiche. Gli individui desiderano avere una relazione con gli altri che vada nella giusta direzione e con la giusta gradualità. Supponiamo che un individuo sia sostenitore di azioni contro la discriminazione razziale e si trovi all’interno di un gruppo che abbia posizioni abbastanza simili (più di quanto egli ritenga faccia la media delle persone). Se aveva intenzione di cambiare, tenderà a spostarsi su posizioni più entusiastiche nei confronti della lotta alla discriminazione, proprio per non rinunciare alla rappresentazione preferita che ha di sé con riferimento a quella condotta. Il fenomeno della polarizzazione, come ha dimostrato Sunstein [2003], sembra essere estremamente diffuso. Per tali ragioni si è reso necessario ricercare condotte o elementi contestuali che consentano di moderarne gli effetti. Alcune ricerche hanno portato a una serie di suggerimenti volti a ridurre gli effetti della polarizzazione nelle condotte decisionali dei gruppi [Sunstein 2000]. La polarizzazione, si osserva, può essere ridotta nei gruppi che svolgono la loro attività in modo continuativo e ripetuto per periodi lunghi, potendo questi far tesoro dei riscontri e delle valutazioni sulla qualità delle loro decisioni.

Non è però il caso delle giurie o dei collegi giudicanti nelle corti d’assise e d’assise d’appello: questi organismi vengono costituiti di volta in volta prima dell’inizio del processo. Per tale ragione soltanto i piccoli gruppi che operano nelle organizzazioni, i collegi difensivi affiatati, i collegi giudicanti che sono frequentemente chiamati a decidere in una certa composizione possono far tesoro dello svolgimento continuativo della loro attività. Un altro fattore di moderazione della polarizzazione può derivare dalla tensione del gruppo a rendere più solide e certe le proprie preferenze per preservare il prestigio presso coloro che hanno proposto e sostenuto i diversi componenti del gruppo. Infine, la tendenza alla polarizzazione può essere attenuata favorendo l’assunzione di elementi di discussione che incoraggino larghezza di vedute e prospettive tipicamente minoritarie: si torna all’utile suggerimento di affidare a uno dei componenti del collegio il ruolo di «avvocato del diavolo».

RIEPILOGO

  • Si può essere intuitivamente portati a ritenere che la collegialità aumenti il tasso di razionalità di una decisione; quest’idea, intuitiva, è stata abbracciata anche da alcuni teorici della decisione.

  • L’analisi sperimentale ha però ridimensionato la fiducia verso la maggior «razionalità» delle decisioni collegiali.

  • I singoli componenti del collegio, infatti, sono tendenzialmente esposti agli stessi errori sistematici ai quali sono esposti gli individui, sebbene la partecipazione al collegio possa, in situazioni ideali, far emergere gli errori.

  • I componenti del collegio sono ulteriormente esposti a fenomeni distorsivi collegati alle relazioni che si instaurano tra singolo e gruppo: si fa in particolare riferimento alla tendenza al conformismo.

  • I gruppi, infine, sono esposti a effetti distorsivi che derivano dal gruppo-pensiero e dalla polarizzazione delle posizioni.

 

 
NB: le immagini sono state generate con IA

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