La violenza di genere e domestica e la novella Legislative della Legge 168/2023. Le modifiche del codice penale, di procedura penale e dell'Ordinamento Amministrativo. Il pericolo del diritto di Difesa dell'accusato e la necessità di una normativa a tutela dell'incolumità della vittima.
Pubblichiamo di seguito un breve ma esaustivo articolo a firma di Diana Bertoletti apparso sul n. 5 della collana “Scienza e Crimine” che tratta della prova video nel processo penale e la disciplina processuale della stessa.
Anche gli ultimi tristi casi di cronaca – vedi l’omicidio di Sharon Verzeni ed il meno recente assassinio di Loris da parte della madre Veronica Panariello – hanno confermato l’importanza basilare della prova video per la ricostruzione processuale della verità fattuale del fatto delittuoso. La prova video, invero, rimane davvero la “prova regina” nel processo penale ben più affidabile e rappresentativa di quella testimoniale.
Viviamo in luoghi che sono perennemente ed in maniera invasiva sorvegliati da telecamere pubbliche e private di tal che il reperimento delle immagini del fatto oggetto delle indagini (e per il quale verosimilmente sarà celebrato il processo) è praticamente sempre il primo passo (e spesso quello decisivo) degli investigatori.
Oltre alle immagini degli impianti di videosorveglianza, nel procedimento penale vengono realizzate ed utilizzate anche riprese di atti procedimentali per la migliore e più attendibile documentazione degli stessi. Ad esempio – a seguito della Legge Cartabia – l’escussione in fase di indagini delle persone informate sui fatti e l’interrogatorio dell’indagato devono essere integralmente video ripresi.
Vediamo nell’articolo qui di seguito la disciplina della documentazione video nel procedimento penale e l’importante apporto della Giurisprudenza sia della cassazione che della Corte Costituzionale.
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Le indagini video
L’ammissibilità nei processi penali
di Diana Bertolotti
Considerazioni introduttive
Le riprese video che hanno valenza probatoria all’interno del processo penale possono essere divise in due grandi categorie: nella prima ricadono quelle che contengono elementi utili all’accertamento di un fatto, nella seconda quelle che possono avere una funzione di supporto per altre attività processuali.
La distinzione si basa sull’oggetto della ripresa, nel senso che in un caso ci troviamo di fronte a un fatto esterno al procedimento, nel secondo di un’attività procedimentale. Per esempio, rientrano nella prima categoria i filmati realizzati a fini investigativi nel corso delle indagini preliminari con strumenti tecnici di captazione visiva in modo occulto, cioè all’insaputa del soggetto ripreso, e le videoriprese, palesi o occulte, fatte da soggetti pubblici o privati diversi dagli organi inquirenti che costituiscono una prova documentale. Nella seconda categoria ricadono invece le registrazioni fatte per interessi prettamente processuali come conservare la memoria delle attività compiute nel corso del procedimento attraverso la documentazione degli atti oppure consentire la partecipazione a distanza dell’imputato, o ancora la sua partecipazione all’udienza grazie a collegamenti ad audiovisivi.
Le videoriprese eseguite fuori dalla fase processuale.
Ragionando sulle videoriprese fatte per fini investigativi, occorre condividere qualche considerazione preliminare riguardo le videoriprese eseguite fuori dalla fase processuale. In questo ambito sono di particolare importanza le registrazioni che si devono a sistemi di videosorveglianza di proprietà o in uso a soggetti estranei alle forze dell’ordine, per esempio il sistema a circuito chiuso di una banca o di un supermercato. Per quanto riguarda la loro ammissibilità, si ritiene che i filmati registrati al di fuori del procedimento, e da soggetti la cui attività non è quella dell’indagine giudiziaria, possono essere considerati nel giudizio come prove documentali. In questo caso, la prova documentale rappresenta la prova precostituita per eccellenza, visto che viene formata all’esterno del processo. Per questo motivo è possibile acquisire scritti o altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. Perché tali prove siano ammissibili, sono necessarie due condizioni:
a) che il documento risulti materialmente formato al di fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento;
b) che l’oggetto della documentazione extraprocessuale appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al contesto del procedimento. In altri termini, se si guarda all’aspetto funzionale, ecco la caratteristica principale di questo tipo di documento: rappresenta e riproduce l’esperienza di un fatto precedente, fornendo quindi utili elementi di valutazione a chi è chiamato a decidere su quel fatto. Il documento, infatti, assolve alla triplice funzione di rappresentare, dimostrare e informare di un fatto cui si riferisce.
A tale riguardo, ricordiamo un iniziale contrasto che si è avuto nella giurisprudenza. In particolare, in una prima fase, la giurisprudenza di legittimità aveva inquadrato le riprese visive realizzate in luoghi pubblici anche come prove atipiche previste dall’articolo 189 del codice di procedura penale, avvenute sia al di fuori del procedimento sia nell’ambito delle indagini. Posta la questione alle Sezioni Unite, hanno sottolineato una certa confusione concettuale tra la prova documentale e la prova atipica, al punto che talvolta si ha l’impressione che le immagini videoriprese siano considerate al tempo stesso documenti e prove atipiche, cioè documenti formati attraverso una prova atipica. Al contrario, le due norme non sono complementari, ma individuano forme probatorie alternative. In quell’occasione, la Corte ha chiarito che le riprese realizzate al di fuori del procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale, mentre quelle registrate nel corso delle indagini costituiscono la documentazione dell’attività investigativa, e non documenti. Premesso questo, oggi si ritiene che i filmati possano essere inquadrati all’interno della categoria della prova documentale sia qualora la ripresa visiva venga effettuata in un luogo pubblico sia che venga effettuata in un luogo privato.
Un ulteriore aspetto che è bene sottolineare riguarda il possibile contrasto con le norme in materia di tutela della privacy. In tema di ammissibilità delle videoriprese nel processo penale, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, se le immagini provengono da un impianto di sorveglianza posto all’esterno di un negozio, benché siano state ottenute in violazione delle istruzioni impartite dal Garante della privacy, non possono essere considerate prove illegittimamente acquisite, trattandosi di prove documentali di cui il codice di rito consente espressamente l’acquisizione. Le stesse considerazioni valgono in tema di utilizzabilità dei filmati che provengono dall’interno dei luoghi di lavoro: il diritto alla riservatezza del dipendente deve cedere il passo, di fronte all’esigenza di tutela contro i furti del datore di lavoro. Sono quindi utilizzabili nel processo penale, a patto che l’imputato sia un lavoratore subordinato, le riprese che provengono dalle telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli degli addetti, perché le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non vietano i cosiddetti “controlli difensivi del patrimonio aziendale” e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.
Le videoriprese come atto di indagine nel procedimento penale.
Bisogna ora soffermarsi sul regime delle videoregistrazioni fatte dalla Polizia giudiziaria a fini investigativi: maggiori problemi determina infatti la disciplina in tema di riprese effettuate da soggetti pubblici come atti di indagine nel procedimento penale. Se da un lato tale strumento investigativo può rivelarsi particolarmente utile ai fini dell’accertamento dei reati per la sua alta capacità dimostrativa – come la prassi giudiziaria non ha mancato di sottolineare -, dall’altro, trattandosi di un mezzo fortemente invasivo, potrebbe incidere a fondo sui diritti tutelati a livello costituzionale e sovranazionale come il diritto alla riservatezza, all’inviolabilità del domicilio, alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni. In realtà, non c’è un vero e proprio regime normativo in tema di investigazioni video. A sopperire a tale carenza è intervenuta, in primo luogo, la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione; successivamente, c’è stato un ampio dibattito dottrinale. Dopo alcune iniziali oscillazioni, la giurisprudenza di legittimità ha recepito un criterio che distingue le riprese visive di comportamenti in due grandi categorie, a seconda che abbiano a oggetto “atti comunicativi” oppure comportamenti non diretti all’intenzionale trasmissione di messaggi. Si ritiene infatti che la ripresa di comportamenti comunicativi costituisca una forma di intercettazione: in estrema sintesi, il regime che le regola configura le intercettazioni di come captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più interlocutori che agiscano con l’intento di escluderne altri. Si tratta di una captazione operata da un soggetto estraneo grazie ad apparecchiature in grado di fissare l’evento e di vanificare le cautele normalmente poste a protezione del carattere riservato del colloquio. La natura di atto a sorpresa e la sua incidenza sulla libertà di comunicazione costituzionalmente protetta è limitabile solo per atto delle autorità giudiziaria. E questo strumento investigativo è ammesso solo per alcune tipologie di reati gravi. Per quanto riguarda la disciplina, il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni previste. L’autorizzazione viene concessa con decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato, e l’intercettazione è assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Il decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti, mediante l’inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, espone con autonoma valutazione le ragioni che rendono necessarie, in concreto, tale modalità per lo svolgimento delle indagini. In altri termini, come chiarito dalla stessa Consulta, la ripresa di comportamenti comunicativi costituisce una forma di intercettazione, dal momento che viene a essere compresso il diritto di libertà e quello alla segretezza delle comunicazioni.
Le riprese che riproducono comportamenti non comunicativi, hanno invece per oggetto la mera presenza di cose o persone e i loro movimenti. Sul tema, non senza poche incertezze, la Suprema Corte ha prospettato tre differenti discipline in base al luogo nella quale la captazione è eseguita, distinguendo così tra luoghi pubblici, domiciliari e riservati. Nell’ambito dei luoghi pubblici, non è prevista alcuna aspettativa di tutela della riservatezza, con la conseguenza che le videoriprese possono essere eseguite di propria iniziativa anche dalla Polizia giudiziaria. Trattandosi verosimilmente di un atto irripetibile, che entra in dibattimento come prova atipica – cioè non disciplinata dalla legge -, il giudice può acquisirla se risulta opportuna per accertare i fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede inoltre all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova. I luoghi definiti domiciliari, invece, sono caratterizzati dall’esistenza, in capo a un certo soggetto, del diritto di escludere chiunque altro (ius excludendi alios): tali spazi rientrano nell’area protetta dell’articolo 14 della Costituzione, che tutela l’inviolabilità del domicilio. Si deve infatti osservare che la norma in esame tutela il domicilio sotto due distinti aspetti: come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla riservatezza su quanto si compie in quei luoghi. Nel caso delle riprese visive, il limite costituzionale è importante non tanto – o non solo – come difesa rispetto a una intrusione di tipo fisico, quanto come presidio di un’intangibile sfera di riservatezza, che può essere lesa – attraverso l’uso di strumenti tecnici – anche senza la necessità di un’intrusione fisica. In assenza di una disciplina legislativa espressa, che regola i casi e i modi di un’eventuale limitazione del diritto fondamentale con un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, le videoriprese sono senz’altro vietate, e a pena di inutilizzabilità, risultando inammissibile l’acquisizione al procedimento dei relativi risultati sotto forma di prove atipiche. Non possono essere infatti incluse nella categoria delle prove non disciplinate dalla legge quelle fondate su un’attività che è vietata dalla legge stessa. Per essere legittime, queste misure che limitano la libertà di domicilio devono essere necessariamente rispettare le garanzie costituzionalmente previste: ossia la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Infine, le Sezioni Unite hanno individuato una terza categoria, quella dei luoghi riservati, caratterizzati dall’assenza della stabilità del rapporto che definisce il domicilio e, quindi, del diritto di escludere chiunque altro. Quest’ultimo si dà soltanto se il titolare è presente sul luogo: si tratta quindi di luoghi che, pur non rientrando nel concetto di domicilio, sono caratterizzati da una “aspettativa di riservatezza” maggiore rispetto ai luoghi pubblici. Il diritto a cui stiamo facendo riferimento affonda le proprie radici nell’articolo 2 della Costituzione, che protegge la riservatezza in maniera meno intensa rispetto all’inviolabilità del domicilio, non richiedendo una riserva di legge e di giurisdizione in materia di casi e modi della limitazione dei diritti fondamentali. Di qui la necessità che la rispettiva limitazione avvenga in base a un provvedimento dell’autorità giudiziaria accompagnato da una motivazione congrua. Per questi motivi, le videoriprese nei luoghi riservati possono essere disposte con un atto motivato del pubblico ministero e sono utilizzabili come prove atipiche. Sempre su questo tema, la Cassazione ha poi precisato che, affinché scatti la tutela costituzionale del domicilio, non è sufficiente che un comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre che sia riservato “in concreto”, cioè che non possa essere liberamente osservato dagli estranei senza ricorrere a particolari accorgimenti. È il caso, per esempio, di una persona che si pone sul balcone prospiciente alla pubblica via e viene osservata dai passanti, oppure di una persona che tenga spalancate le finestre della propria abitazione, così da rendere visibile da fuori ciò che avviene all’interno. Insomma, qualora il comportamento tenuto nel luogo domiciliare risulti in concreto incompatibile con l’esigenza di riservatezza vengono meno le ragioni della tutela. A quel punto le videoriprese sono sottoposte allo stesso regime di quelle effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Nella prassi, questo assetto complessivo della materia delle videoriprese – frutto della ricostruzione della giurisprudenza costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – è stato poi confermato da ulteriori interventi della Corte costituzionale, mentre la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo in numerose occasioni di puntualizzare come le videoriprese siano legittime- in assenza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria – in una serie di situazioni che, secondo alcuni, avrebbero potuto far dubitare sulla loro riconducibilità al concetto di luogo pubblico o aperto il pubblico. Così sono state ritenute legittime, e quindi utilizzabili, le videoriprese dell’ingresso e del piazzale di un’impresa fatte senza l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari con impianti installati dalla Polizia giudiziaria sulla pubblica via: in un caso del genere, non c’è stata nessuna intrusione indebita nel domicilio altrui. Allo stesso modo, questo riguarda anche le videoriprese fatte dalla Polizia giudiziaria, in assenza di preventiva autorizzazione del giudice, nell’area riservata all’ingresso dei dipendenti di un ufficio postale, dove si trova l’orologio marcatempo, non potendo qualificare l’atrio dell’ufficio o altre parti comuni come domicilio. La giurisprudenza ha escluso inoltre la natura di privata dimora in caso di videoriprese realizzate con un sistema di videosorveglianza, installato dalla Polizia giudiziaria sul pianerottolo dell’ultima rampa di scale che dà accesso al lastrico di un edificio condominiale. Questo perché i luoghi condominiali non hanno la funzione di accogliere la vita privata al riparo da sguardi indiscreti, essendo destinati all’uso di un numero indeterminato di soggetti.
L’impatto degli interventi giurisprudenziali è stato dunque notevole. Tuttavia, alcuni studiosi hanno sostenuto che le regole dettate dalla Corte costituzionale e della Corte di Cassazione per riempire il vuoto normativo in tema di videoriprese – benché apprezzabili sul piano del ragionamento giuridico e dell’analisi del tessuto normativo, nonché apparentemente esaustive – lasciano ampi margini di incertezza sul terreno applicativo, in quanto sottili distinguo operati dalle autorità giurisdizionali risultano talvolta avere caratteristiche di astrattezza. L’incertezza viene ritenuta criticabile considerando, da un lato, la natura e la delicatezza degli interessi lesi, e dall’altro la rilevanza probatoria delle immagini registrate. Secondo tale tesi, questo rischierebbe di portare nella prassi l’impossibilità di tracciare una netta linea di demarcazione tra “comportamenti comunicativi” e “comportamenti non comunicativi”, con la conseguenza che l’utilizzabilità della prova viene ancorata a parametri evanescenti. Apparirebbe così difficile classificare alcuni particolari tipologie di comportamenti come i gesti o le parole che esternano un contenuto di pensiero, sebbene non siano indirizzati a un’altra persona, come per esempio una smorfia, parole pronunciate ad alta voce tra sé e sé o discorsi indirizzati a un animale domestico. Non meno significativa risulta l’ambiguità che può riguardare l’esatta qualificazione di determinati luoghi cui si riconnette, secondo la ricostruzione operata dalla giurisprudenza, una netta differenza di regime giuridico. In questo senso, la giurisprudenza è orientata a interpretare restrittivamente la nozione di luoghi domiciliari, estendendo al contempo la legittimità delle videoriprese. Inoltre non può non destare qualche perplessità la difficoltà di individuare ex ante, e con esattezza, l’oggetto delle captazioni: è chiaro infatti che, al momento della collocazione degli strumenti di videoripresa all’interno del domicilio o in altri luoghi riservati, non è in genere possibile prevedere se registreranno comportamenti aventi o meno natura comunicativa.
Sempre nell’ipotesi dell’ambito domiciliare, quando ci si trova in presenza di comportamenti comunicativi nella previsione e non comunicativi nei risultati, in un primo momento la giurisprudenza di legittimità ha affermato l’utilizzabilità delle riprese di comportamenti meramente materiali e non comunicativi, se effettuate nel rispetto delle condizioni in materia di intercettazioni, purché la registrazione sia avvenuta incidentalmente nel corso di un’attività di indagine volta, in base a una valutazione effettuata prima, alla registrazione di comportamenti comunicativi, cioè di eventuali comunicazioni gestuali di interesse investigativo. In seguito, in dottrina si è evidenziato il pericolo di elusione del divieto di utilizzabilità delle videoregistrazioni di condotte non comunicative realizzate in ambito domiciliare. Proprio in considerazione del fatto che gli strumenti di ripresa visiva non sono in grado di distinguere comportamenti comunicativi e non, il pubblico ministero potrebbe limitarsi a prospettare al giudice per le indagini preliminari, nel presentare la richiesta di autorizzazione, l’eventualità di soggetti che, temendo la presenza di microspie acustiche, si comunichino a gesti i loro propositi criminosi. Poiché questa previsione è sostenibile sempre o quasi sempre, e dunque risultando la richiesta così argomentata non rigettabile da parte del giudice, appare verosimile che, in sede processuale, si finisca per ritenere generalmente utilizzabili le condotte non comunicative, visto che ciò che rileva è la legittima prospettazione ex ante, a nulla rilevando che ex post nessuna delle immagini captate abbia avuto a oggetto comportamenti comunicativi.
In conclusione, nonostante le critiche mosse al sistema di comunicazioni comunicative e non in tema di videoripresa, al momento appare largamente impiegata la distinzione delle categorie così come tracciata dalla stessa giurisprudenza costituzionale e di legittimità.