La specialità del procedimento penale per reati sessuali richiede una Difesa altrettanto specializzata. I reati sessuali - soprattutto in danno di minori - richiedono una importante specializzazione anche in campi diversi da quello Giudiziario. per questo motivo la NUOVA SEDE DI ROMA dello Studio de Lalla ovvero la possibilità di essere ricevuto dall'Avv. de a Roma rende più agevole l'assistenza a Roma e nelle regioni circostanti oltre che in Corte di Cassazione.
In questo sito abbiamo già dedicato diverse riflessioni al rapporto cliente/avvocato (penalista).
Abbiamo sottolineato la peculiarità della relazione tra difeso e difensore e, anche in questa sede, si deve sottolineare che le prime determinanti notizie necessarie all’avvocato per organizzare ed attuare la migliore linea difensiva proverranno proprio dal cliente.
Invero, l’individuazione di fatti, circostanze, testimoni e peculiarità della vicenda umana oggetto del procedimento penale sarà possibile per il difensore proprio grazie a quanto riferitogli dal cliente.
A questo proposito, riteniamo che sia obbiettivamente corretto definire il primo colloquio tra cliente ed avvocato come il primo, indefettibile e determinante atto di indagine investigativa difensiva.
Dal canto suo, il difensore dovrà agevolare la comunicazione con l’assistito creando un canale “privilegiato” nonché approfondendo (ed eventualmente esplorando sollecitandoli) aspetti giuridicamente rilevati ed utili per la migliore difesa dell’interessato (per ottenere le risposte giuste occorre in primis porre le giuste domande).
Trascurare questo aspetto e non “investigare” in maniera opportuna il bagaglio conoscitivo del cliente (ritenendo che la valutazione giuridica del difensore possa prescindere dalla puntuale conoscenza di ogni aspetto ed anche impressione riferibile dal cliente medesimo) significa per il tecnico correre il pericolo di tralasciare presupposti fondamentali per la migliore tutela dei diritti dell’assistito.
La conclusione non muta nemmeno se il professionista deve interagire con una persona del tutto digiuna di conoscenze giuridiche oppure straniera e dalla quale è separata da un notevole gap culturale ed esperenziale: la ricerca di notizie dal cliente dovrà essere sempre completa ed attenta e spetterà poi all’avocato sviluppare ed approfondire quegli aspetti utili per tutelare la posizione del cliente.
Da tali premesse, ne discende il corollario secondo il quale – quando effettivamente possibile e quale obbiettivo cui deve tendere l’avvocato – le decisioni ed i passi inerenti la pratica attuazione della difesa (quali testi chiamare, quali documenti produrre, quale rito scegliere, quando se e come rilasciare interrogatorio o sottoporsi all’esame del Giudice etc.) devono essere spiegati al cliente illustrandogliene (tenendo conto che egli non è quasi mai un “addetto ai lavori”) gli aspetti centrali, i pro ed i contro (partendo comunque dal presupposto che il difensore è e deve essere indipendente nelle proprie scelte e che l’unica alternativa al dissidio profondo non superabile con l’assistito è la rinuncia al mandato).
Al fine di ribadire anche qui l’importanza davvero centrale del contributo del cliente per il lavoro del difensore e la peculiarità del rapporto che lega l’avvocato all’assistito (essendo spesso in gioco diritti fondamentali del secondo) credo opportuno richiamare ampi stralci di una trattazione esauriente dell’argomento a firma del Prof. Avv. G. Gulotta pubblicata su “Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale” a cura di Gulotta (Giuffrè Editore) pagg. 775 e ss:
“(…) Il rapporto dell’avvocato con il suo cliente non è precipuamente processuale ma spesso può precedere o seguire una situazione giudiziaria (…). Esistono due modelli di interpretazione del rapporto in oggetto (Rosentahal, 1974). Il primo, il modello tradizionale, assolutamente prevalente, considera l’avvocato come colui a cui fa capo la responsabilità totale della gestione della vertenza; secondo questo modello il cliente ha un ruolo passivo e il suo comportamento è completamente diretto dall’avvocato, riservandosi quest’ultimo la responsabilità di ogni decisione. Secondo l’altro modello invece (auspicato da chi scrive N.d.r.) quello partecipatorio, il cliente ha un ruolo attivo della decisione e l’avvocato gliene mostra, quando è il caso, tutta la problematicità (il neretto è di chi scrive N.d.r.). Il tutto sulla base di un “consenso informato” che deriva al cliente da un colloquio volto a dargli conto e ragione di tutti gli aspetti che è in grado di comprendere. Possiamo dire che per il primo il colloquio tra l’avvocato e il suo cliente è centrato sul problema, mentre per il secondo modello il colloquio è centrato sul cliente stesso (…)”
L’Autore distingue così in base ai due modelli due tipi di colloquio tra avvocato difensore: quello monopersonale e asimmetrico (modello tradizionale) in cui l’avocato prende le decisioni dopo aver ascoltato il cliente e quello bipersonale asimmetrico (il già richiamato modello c.d. partecipatorio) nel quale il difensore prende (comunque ed ovviamente) le decisioni dopo un colloquio con l’assistito ove non si limita ad ascoltare ma instaura con l’interlocutore un “interscambio” ovvero una comunicazione “a due”.
“Anche se gli avvocati tendono a una certa unicità di condotta nei confronti dei clienti – essendo quelli tra gli operatori sociali che meno di altri hanno sentito l’esigenza di studiare le tecniche del colloquio e la relazione col loro cliente (Goopaster, 1975) nonostante che su ciò si basi almeno l’80% della loro professione – la scelta di un modello piuttosto che dell’altro dovrebbe dipendere soprattutto dal tipo di questione trattata e dal tipo di cliente (…)”.
L’Autore – giustamente – pone l’accento anche sull’influenza che il luogo ove si svolge il primo incontro tra avvocato e difensore ha sul tenore e sul contenuto del colloquio medesimo sottolineando come il carcere “ponendo il cliente in un contesto restrittivo della propria libertà, nella più parte dei casi del tutto nuovo, con l’ansia ossessiva di venire al più presto scarcerato, rappresenta un contesto dove i normali metodi di colloquio sono certo notevolmente distorti. Come è stato giustamente osservato (Corss, 1977), è importante che per chi interroga rendersi conto che l’uomo che conosceva “fuori” non sarà lo stesso uomo che vede in prigione e che l’uomo che conosce in prigione sarà diverso quando sarà uscito (…)”
L’avvocato, dunque, deve saper instaurare con l’assistito uno scambio di informazioni costruttivo, chiaro e continuo (consapevole della molteplicità di variabili personali e situazioni che possono caratterizzare la relazione cliente/difensore) per il fine precipuo di ottenere dallo stesso il maggior contributo fattuale e personale per l’organizzazione e l’attuazione della difesa che svilupperà ed approfondirà tutti quegli elementi utili che l’avvocato avrà saputo ricercare e valorizzare a partire dal primo incontro con il diretto interessato.
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