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Pubblichiamo in queste pagine un vero e proprio Speciale riguardante l’invalidità degli atti del procedimento penale.

Una disamina approfondita, attenta e completa che prende le mosse da un articolo di Irene Scordamaglia e Laura Paglica pubblicato sul mensile “POLIZIAMODERNA” del febbraio 2018.

L’articolo analizza le diverse patologie nelle quali possono incorrere gli atti del e nel processo penale e le conseguenze nelle diverse fasi procedimentali:

  • l’inesistenza e l’abnormità;
  • l’inammissibilità;
  • la decadenza;
  • le preclusioni;
  • le nullità generali, assolute e a regime intermedio;
  • le nullità relative
  • la deducibilità delle nullità e le sanatorie previste dalla Legge;
  • le inutilizzabilità quale rimedio procedurale alle nullità;
  • i vizi del giudicato.

Quasi una guida per “addetti ai lavori” ed utenti che permette di conoscere mediante un linguaggio chiaro e immediato i diversi (e numerosi) aspetti nei quali può presentarsi l’illegittimità degli atti del procedimento penale che – aspetto anch’esso centrale della certezza del diritto – devono essere conformi al modello disciplinato dal Legislatore al fine di garantire i diritti del cittadino (tanto imputato quanto persona offesa)

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Il concetto di invalidità, nel processo penale, è strettamente connesso a quello di fattispecie, nella sua accezione di complesso di elementi dell’atto, necessari e sufficienti per il prodursi di un determinato effetto giuridico previsto dalla legge. A differenza del processo civile, nel quale vige il principio della libertà delle forme, in quello penale, la conformità dell’atto al suo schema tipico è, infatti, premessa imprescindibile della sua efficacia all’interno del processo. La regola appena enunciata è, peraltro, costituzionalizzata all’interno dell’art. 111 comma 1 che recita: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla Legge”. Ciò sta a significare che lo stesso procedimento penale non è altro che la sequela degli atti che, perché possano dirsi produttivi di effetti giuridici, devono essere conformi al modello legale previsto in astratto.
Il Libro II^ del codice di rito, a tal fine, prevede in modo dettagliato i requisiti degli atti processuali che integrano il modello legale e che li rendono validi ed efficaci. Ne consegue, a contrario, che l’atto è invalido quando si discosta dal modello descritto dalla norma. Occorre precisare, però, che non sempre l’ordinamento giuridico decreta l’invalidità quale conseguenza di qualsiasi difformità dal modello legale. L’atto, infatti, è invalido solo quando la difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti dalla legge:
– La decadenza;
– L’inammissibilità;
– La nullità;
– L’inutilizzabilità.
Tutte le altre difformità dal modello legale sono, invece, considerate prive di rilevanza dal Legislatore e idonee a determinare una mera irregolarità dell’atto.
Si parla di irregolarità, in particolare, quando la norma, pur descrivendo il modello legale, non ne sanziona l’eventuale inosservanza: l’atto, se pur irregolare è, dunque, valido ed efficace. L’obbiettivo, dunque, è quello di delineare la disciplina delle singole invalidità, previste dal codice di procedura, ovvero, elaborate, nel corso del tempo da dottrina e giurisprudenza.

L’INESISTENZA E L’ABNORMITA’.
L’inesistenza ricorre quando l’atto manca degli elementi strutturali essenziali perché possa definirsi tale.
Inesistente è l’atto caratterizzato da assoluta estraneità rispetto al sistema: quello, cioè, privo dei requisiti minimi necessari per inquadrarlo come atto processuale. Ne consegue che l’atto inesistente è assolutamente inidoneo a produrre qualsiasi effetto all’interno del procedimento penale. Proprio per questa ragione l’inesistenza non può essere inquadrata tra le invalidità, posto che quest’ultima ricorre soltanto allorché ciò che è stato compiuto presenti i caratteri essenziali dell’atto. Alla stregua di tali criteri possono pertanto dirsi inesistenti, ad esempio, la sentenza che è emessa da un soggetto che non è Giudice o l’atto di costituzione di parte civile che non rechi la sottoscrizione dell’interessato ma solo quella del suo difensore non munito di procura speciale.
Dal punto di vista del regime giuridico, il vizio in parola, infine, determina l’inefficacia e la irrilevanza dell’atto, che si propaga a catena a tutti gli atti successivi. L’inesistenza è insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche successivamente alla formazione del giudicato. In questo senso, da parte della giurisprudenza di legittimità, si è affermato che un provvedimento inesistente è suscettibile di impugnazione, al contrario dell’atto abnorme che, invece, conserva pur sempre l’attitudine a dar luogo a preclusioni.
Al pari dell’inesistenza, l’abnormità è un vizio dell’atto non esplicitamente disciplinato dal codice, ma frutto di elaborazione giurisprudenziale. In particolare, essa può riguardare due diversi profili. Dal punto di vista strutturale, è abnorme l’atto che, per la peculiarità e la stranezza del contenuto, si ponga al di fuori dell’intero sistema processuale. In tal senso è stata ritenuta affetta da abnormità genetica o strutturale la Sentenza di proscioglimento emessa dal GIP successivamente all’opposizione a decreto penale di condanna, poiché il giudice in tale fase è vincolato all’adozione degli atti di impulso previsti dall’art. 464 c.p.p., e non può pronunciarsi nuovamente sullo stesso fatto reato dopo l’emissione del decreto né revocare quest’ultimo fuori dai casi tassativamente previsti. Sotto il profilo funzionale, invece, è abnorme l’atto che, pur se none straneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo. E’ stato ritenuto tale , ad esempio, il provvedimento con cui il Giudice dell’udienza preliminare restituisca gli atti al Pubblico Ministero per genericità o indeterminatezza dell’imputazione, senza avergli previamente richiesto di precisarla; il provvedimento dello stesso Giudice che, investito della richiesta di rinvio a giudizio, disponga l’archiviazione; il provvedimento del giudice dibattimentale che disponga la restituzione degli atti al Pubblico Ministero. Per aver esercitato l’azione penale, in ordine al delitto di cui all’art. 624 bis c.p., nelle forme della citazione diretta a giudizio, senza celebrazione dell’udienza preliminare, attesa la conseguente stasi insuperabile del processo, non potendosi, da un lato, reiterare il medesimo decreto di citazione diretta a giudizio (perché già annullato) e, dall’altro, procedere con una richiesta di rinvio a giudizio, poiché non corretta avuto riguardo al titolo di reato .
Non è, invece, atto abnorme il provvedimento con il quale il Giudice per la indagini preliminari, richiesto dal pubblico ministero di emettere un provvedimento di archiviazione, abbia invece dichiarato la propria incompetenza per territorio, dal momento che un tale provvedimento è inquadrabile nello schema processuale di cui all’art. 22 c.p.p. nel quale trova disciplina la incompetenza dichiarata dal Giuidce per le indagini preliminari.

L’INAMMISSIBILITA’.
L’inammissibilità è una causa di invalidità tipica delle domande e delle istanze di parte.
Essa, infatti, impedisce al giudice di valutare nel merito la richiesta di una parte del procedimento, quando la stessa non sia dotata dei requisiti dalla legge a pena di inammissibilità. Come per le nullità, anche per le inammissibilità trova applicazione il principio di tassatività, con la conseguenza che la detta causa di invalidità può essere ritenuta solo quando l’espressa previsione o comunque la inequivoca formulazione della norma lo consentono .
L’inammissibilità consegue ad una serie di cause diverse:
– In primo luogo dal mancato rispetto del termine, previsto per legge, entro il quale un determinato atto deve essere compiuto;
– Ma anche da difetti che attengono al contenuto e/o alla forma dell’atto;
– O la legittimazione di un determinato soggetto al compimento dello stesso.
E’, ad esempio, inammissibile, l’atto di impugnazione che sia proposto da un soggetto non legittimato o privo di interesse, ovvero che sia stato proposto oltre i termini perentori prescritti dalla Legge ovvero l’atto di costituzione di parte civile che sia privo dei requisiti contenutistici previsti dall’art. 78 c.p.p.. Lo è, del pari, l’istanza di revoca o sostituzione di misure cautelari coercitive applicate all’imputato qualora quest’ultimo non abbia provveduto contestualmente a notificarle ai sensi dell’art. 299 comma 4^ bis c.p.p.. Detta inammissibilità può essere dedotta, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, dalla persona offesa, mediante ricorso per cassazione .
Dal punto di vista processuale, va, infine, evidenziato che la legge non prevede un termine entro il quale l’inammissibilità debba essere dichiara dal Giudice, il quale può rilevarla, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, fino all’intervento del giudicato, a meno che non sia espressamente previsto un termine anteriore .

LA DECADENZA.
La decadenza è la perdita del diritto di porre in essere un atto, quando sia trascorso il termine previsto dalla legge come perentorio. Si può, dunque, affermare che tale vizio non riguarda direttamente l’atto, ma, piuttosto, la posizione del soggetto legittimato al suo compimento. Nel processo penale, infatti, l’esercizio di una facoltà o l’adempimento di un onore sono sempre connessi al rispetto di un termine, con la conseguenza che un loro mancato esercizio, entro tale termine non derogabile, comporta la consunzione del potere della parte , ancorché legittimata.
A ben vedere, esiste una correlazione tra la decadenza e l’inammissabilità pocazi delineata: se la parte, infatti, pone in essere un atto, nonostante la decorrenza del termine perentorio previsto per il suo compimento, esso dovrà necessariamente essere dichiarato inammissibile. La non osservanza del termine perentorio, dunque, produce due diverse conseguenze dal punto di vista delle sanzioni processuali: da un punto di vista soggettivo, l’estinzione della facoltà della parte di compiere l’atto dunque, la decadenza; da un punto di vista oggettivo l’inammissibilità dell’atto. Anche per la decadenza, come per l’inammissibilità, vale il principio di tassatività: i termini, cioè, si considerano stabiliti a pena di decadenza, solo nei casi espressamente previsti dalla Legge (art. 173 comma 1^ c.p.p..).
Uno specifico meccanismo consente, però, in casi tassativi, il recupero di un potere che sia estinto in conseguenza dell’intervenuta decadenza: la restituzione nel termine, che integra un vero e proprio diritto delle parti e si configura come un rimedio processuale a carattere eccezionale (art. 175 c.p.p.). A tal fine è previsto che il pubblico ministero, le parti private, e i difensori siano restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza, se alleghino di non averlo potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore. La richiesta va presentata entro dieci giorni dalla cessazione della situazione di caso fortuito o forza maggiore.
Il comma II^ dell’art. 175 c.p.p. , prevede una specifica ipotesi di restituzione in termini (restituzione nel termine speciale) per il condannato con decreto penale, che non abbia avuto tempestiva effettiva conoscenza del provvedimento. Questi, su sua richiesta, è restituito nel termine per proporre opposizione avverso il decreto, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato. Al fine di accertare la non effettiva conoscenza tempestiva del decreto, da parte del condannato, il giudice non può limitarsi al mero controllo degli atti già acquisiti al processo ma deve compiere “ogni verifica necessaria”. A riguardo la legge pone a carico dell’imputato un mero onere di allegazione in ordine alle ragioni sottese alla mancata effettiva conoscenza del provvedimento. Il che significa che NON spetta all’imputato dimostrare di avere ignorato l’esistenza del provvedimento, senza sua colpa, ma è il giudice che deve accertare che l’imputato abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento e abbia volontariamente e consapevolmente rinunciato a proporre opposizione entro i termini, in questo modo decadendo dalla relativa facoltà. Ove le verifiche del giudice confermino la richiesta di parte, viene disposta la restituzione nel termine mediante ordinanza ricorribile per Cassazione.

LE PRECLUSIONI
Si parla di preclusione con riferimento alla consunzione di un potere processuale attribuito ad una parte. A differenza della decadenza, tuttavia, in cui l’estinzione del potere è sempre dovuta al trascorrere del tempo ed al mancato rispetto di un termine prescritto come perentorio, la preclusione può avere diverse cause.
In generale la preclusione sussiste quando il comportamento di una parte processuale esclude la possibilità per la stessa parte di tenere un diverso comportamento, secondo il generale principio electa una via, non datur recursus ad alteram.
A titolo esemplificativo, in tema di ne bis in idem, ove vi sia corrispondenza storico naturalistica nella configurazione del reato, non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero, di tal che nel procedimento eventualmente duplicato deve essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, deve essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità: in tal caso la non procedibilità consegue alla preclusione determinata dalla consumazione del potere già esercitato dal pubblico ministero
Il difetto di autorizzazione alla riapertura delle indagini determina l’inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione e preclude l’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto reato, oggettivamente e soggettivamente considerato, da parte del medesimo ufficio del pubblico ministero .
In tema di costituzione di parte civile, il promovimento dell’azione in sede civile, preclude alla parte la contestuale partecipazione al processo penale e comporta la revoca della costituzione ritualmente avvenuta.
Infine, in tema di misure cautelari, qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori nuovi, può scegliere se farli valere nel procedimento di impugnazione o porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude di coltivare un’altra azione cautelare .

LE NULLITA’
Il vizio delle nullità ricorre quando un atto è compiuto in difformità rispetto al suo modello legale, purchè tale conseguenza sia espressamente prevista da una norma del codice di rito. Per le nullità, infatti, vale il principio di tassatività sancito dall’art. 177 c.p.p. a mente del quale “l’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità, soltanto nei casi previsti dalla legge”. Tale principio consegue dalla consapevolezza, da parte del Legislatore del 1988, dell’impossibilità di sanzionare, mediante nullità, qualsiasi difformità dell’atto rispetto al suo modello legale e dall’esigenza, per ragioni di economia processuale, di discernere i vizi effettivamente invalidanti da quelli non influenti.
La normativa sulle nullità è prevista dagli artt. 177 – 186 c.p.p. e mira ad un contemperamento tra due opposte esigenze: da un lato quella di speditezza e di celerità del procedimento, derivante dal principio della non incidenza dei vizi meramente formali degli atti sulla validità del procedimento; dall’altro, quella di tutela e salvaguardia degli interessi vulnerati dall’atto difforme dal modello legale, la quale viene assicurata attraverso una gradazione della gravità delle nullità in relazione alla effettiva lesività dell’atto in questione.
Le nullità, infatti, possono essere suddivise in tre diverse categorie secondo una scala decrescente di gravità:
– Le nullità assolute;
– Le nullità a regime intermedio;
– Le nullità relative.
Tale disposizione opera sul piano sostanziale e si riferisce al grado di lesività del vizio rispetto all’interesse tutelato dalla norma.
Una seconda distinzione che attiene alla mera tecnica di previsione, è articolata in NULLITA’ GENERALI che sono quelle previste in via generale dall’art. 178 c.p.p. e NULLITA’ SPECIALI che, invece, sono quelle di volta in volta stabilite da disposizioni di legge.

LE NULLITA’ GENERALI
Le nullità di ordine generale sono delineate dall’art. 178 c.p.p. ai sensi del quale “è sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti:
a) Le condizioni di capacità del Giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario;
b) L’iniziativa del pubblico ministero, nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al procedimento;
c) L’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputati e delle altre parti private, nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante”
Le nullità così dette generali possono essere ASSOLUTE (art. 179 c.p.p.) o a REGIME INTERMEDIO (art. 180 c.p.p.).

LE NULLITA’ (GENERALI) ASSOLUTE
Dal combinato disposto degli artt. 178 e 179 c.p.p. si evince che costituiscono nullità assolute generali quelle concernenti:
– Le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per la costituzione dei collegi;
– Quelle attinenti all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale;
– Quelle derivanti dall’messa citazione dell’imputato o dell’assenza del difensore negli specifici casi in cui ne è prescritta l’obbligatoria presenza.
In generale tutte le nullità assolute si distinguono sia dalle nullità a regime intermedio che da quelle relative per l’attributo della INSANABILITA’. Tale caratteristica, tuttavia, NON ha carattere indefettibile: anche le nullità assolute, cioè, sono destinate a cadere di fronte alla forza propulsiva del giudicato e all’irrevocabilità della sentenza. Questo significa che la formazione del giudicato opera come sanatoria delle nullità di tipo assoluto. Vi è un unico e PECULIARE caso in cui la sanatoria opera in un momento anteriore rispetto al passaggio in giudicato della sentenza: l’art. 627 c.p.p. comma 4^ prevede, infatti, che nel giudizio di rinvio, successivo ad una pronuncia di annullamento della Corte di Cassazione non sono rilevabili le nullità assolute che si siano verificate anteriormente, sulle quali è, inevitabilmente, intervenuto il giudicato.
La seconda caratteristiche delle nullità assolute è la RILEVABILITA’ DI UFFICIO, da parte del giudice, in ogni stato e grado del procedimento. A differenza dell’insanabilita’, che è caratteristica propria delle nullità assolute, quello della rilevabilità di ufficio e connotato comune anche alle nullità a regime intermedio. Mentre, però, le nullità assolute sono deducibili dalle parti senza alcun limite temporale, le nullità intermedie e quelle relative sono deducibili entro limiti temporali ben precisi.
Le nullità assolute sono distinguibili in quattro categorie a seconda della figura processuale cui essere si riferiscono. Rilevano in tal senso le nullità riguardanti la figura del giudice. Ad esempio l’instaurazione del giudizio immediato per reati per i quali l’esercizio dell’azione penale deve avvenire con citazione diretta integra una ipotesi di nullità assoluta, in quanto, oltre a precludere all’imputato il diritto a ricevere la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis c.p.p., determina un indebito mutamento del giudice naturale all’esito del giudizio abbreviato. Vanno ricondotte a siffatto ordine di nullità anche quelle concernenti la figura del pubblico ministero, con particolare riferimento alla sua iniziativa nell’esercizio dell’azione penale. Ciò sta a significare che determinano nullità assolute quelle violazioni delle disposizioni processuali che attengono all’atto di promovimento dell’azione penale, avuto riguardo alla sua mancanza o alla sua invalidità. Ad esempio la nullità comminata espressamente dall’art. 522 c.p.p. riguardante la sentenza di condanna nella parte relativa al fatto nuovo rispetto a quello contestato, è assoluta ed insanabile e va rilevata di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, poiché concerne l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale (art. 179 primo comma c.p.p.).
La violazione delle disposizioni concernenti la modifica dell’imputazione nell’udienza preliminare o nel dibattimento sono, invece, causa di nullità intermedia ai sensi dell’art. 180 c.p.p. poiché qualificabili come attività di prosecuzione, e non di iniziativa, dell’azione penale. Ancora, in materia cautelare, è precluso al GIP di applicare una misura cautelare più grave di quella richiesta dal pubblico ministero e, ove ciò si verifichi, si configura una nullità assoluta ai sensi dell’art. 178 lettera b) c.p.p. riferita alla partecipazione del pubblico ministero a una fase del procedimento in cui il GIP non ha la cognizione esatta e piena ed interviene nei limiti devoluti dalle istanze di parte conformemente alla previsione generale dell’art. 328 comma primo c.p.p..
La terza categoria di nullità assolute riguarda la figura dell’imputato e si riferisce ad ipotesi derivanti dall’omessa o invalida citazione a dibattimento. Al riguardo si è stabilito che l’omesso avviso della data fissata per l’udienza di riesame, violando il diritto dell’indagato di partecipare al procedimento, è sanzionato con la nullità assoluta, insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, prevista dagli artt. 178 comma I^ lettera c) e 179 comma I^ c.p.p. per il caso di omessa citazione dell’imputato.
Di recente, tuttavia, la Suprema Corte nella sua più autorevole espressione ha precisato che, in tema di notificazione della citazione dell’imputato, la nullità assoluta ed insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato, mentre la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p..
Da ultimo è causa di nullità assoluta la violazione delle disposizioni concernenti la figura del difensore, ove questi sia rimasto assente nel dibattimento e in ogni altra ipotesi in cui la sua presenza sia espressamente sancita come obbligatoria dalla legge, come, ad esempio in sede di:
– udienza preliminare;
– di incidente probatorio;
– di interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare.
Ugualmente, in caso di legittimo impedimento a comparire del difensore, l’omessa valutazione dell’istanza di rinvio dell’udienza determina il difetto di assistenza dell’imputato con la conseguente nullità assoluta di cui agli artt. 178, comma primo lett. c) e 179, comma primo, c.p.p. ; parimenti, l’omesso avviso al difensore della data del conferimento di un incarico peritale disposto dal giudice integra una nullità assoluta per violazione degli artt. 178, lettera c), e 179 c.p.p. in quanto incide sul diritto delle parti al contraddittorio nell’assunzione delle prove.
Infine, è bene precisare che l’art. 179 comma II^ c.p.p., descrive come ipotesi di nullità assolute speciali quelle previste da determinate disposizioni di legge e, quindi, non riconducibili a quelle generali di cui all’art. 178 c.p.p..

LE NULLITA’ A REGIME INTERMEDIO
Per esclusione sono nullità a regime intermedio tutte quelle elencate dall’art. 178 c.p.p. non espressamente richiamate dal successivo art. 179 c.p.p., che disciplina le nullità assolute. Sono, dunque, tali quelle relative alla partecipazione del pubblico ministero al procedimento e quelle riguardanti l’intervento, l’assistenza, la rappresentanza dell’imputato (a condizione che non si tratti di omessa o invalida citazione a dibattimento ovvero di assenza del difensore , nei casi in cui ne è prevista come obbligatoria la presenza, trattandosi di ipotesi che, come visto, configurano nullità assolute) e delle altre parti private .
Dal punto di vista del regime giuridico, la tipologia di nullità in commento si trova in una posizione intermedia tra le nullità assolute e quelle relative. Come le nullità relative, infatti, anche quelle a regime intermedio sono sanabili; mentre, come le nullità assolute, sono rilevabili dal giudice di ufficio. In questo caso, tuttavia, la rilevabilità di ufficio soggiace agli stessi limiti temporali previsti per la deducibilità ad opera delle parti, non potendo, quindi, operare in ogni stato e grado del procedimento. L’art. 180 c.p.p., infatti, prescrive che, se le nullità si sono verificate prima del giudizio, esse non possono essere dedotte né rilevate dopo la deliberazione della sentenza di primo grado. Ne consegue che il termine ultimo riconosciuto alle parti per dedurre una nullità a regime intermedio coincide con la chiusura del dibattimento, mentre il giudice potrebbe rilevare la stessa nullità al momento della deliberazione della sentenza. Va, inoltre, specificato che per questo tipo di nullità vale il principio della perpetuatio nullitatis, per cui, se essa sia stata tempestivamente dedotta dalla parte ma non dichiarata dal Giudice la relativa eccezione potrà essere reiterata con i motivi di impugnazione. Se, invece, la nullità si è verificata durante il giudizio di primo grado, essa non potrà essere rilevata, né dedotta, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo.

LE NULLITA’ RELATIVE
Una categoria di nullità residuali è quella ricavabile dalla nomenclatura utilizzata dall’art. 181 c.p.p. che con esse intende far riferimento a tutte quelle diverse da quelle previste dagli artt. 178 e 179 comma II^ c.p.p..
A differenza delle nullità assolute e di quelle a regime intermedio, rilevabili d’ufficio dal giudice, le nullità relative possono essere dichiarate dal giudice solo su espressa eccezione della parte interessata, la quale dispone di termini RISTRETTISSIMI per dedurle, spirati i quali esse devono ritenersi sanate.
A tal fine è stabilito che:
a) le nullità concernenti la fase delle indagini preliminari, l’incidente probatorio e l’udienza preliminare devono essere eccepite secondo cadenze diverse a seconda che si celebri o meno l’udienza preliminare: nel primo caso esse devono essere dedotte prima della pronuncia del provvedimento conclusivo dell’udienza, ai sensi dell’art. 424 c.p.p.; nel secondo caso, subito dopo il compimento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, secondo quanto disposto dall’art. 491 comma I^ c.p.p.;
b) le nullità verificatesi in giudizio devono essere eccepite necessariamente tramite l’impugnazione della sentenza.

DEDUCIBILITA’ E SANATORIE
Gli articoli 182, 183 e 184, c.p.p. preevdono regole specifiche per la deducibilità e le sanatorie delle sole nullità intermedie e di quelle relative, posto che, quelle assolute sono insanabili fino alla formazione del giudicato e deducibili dalla parte senza alcun limite di tempo.
In particolare, l’art. 182 c.p.p. prevedendo che le nullità relative o quelle intermedie non possono essere dedotte o eccepite da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa, né da chi ha interesse all’osservanza della disposizione violata, prescrive un primo limite di carattere soggettivo alla relativa deducibilità. Un secondo limite ha invece carattere temporale. Prescrive, infatti, l’art. 182 comma II^ c.p.p. che la nullità deve essere eccepita prima del compimento dell’atto (in questo modo evitando a monte che la stessa nullità si verifichi) o immediatamente dopo (in questo modo impedendo che il vizio si ripercuota a catena si tutti gli atti successivi).
La sanatoria è un fatto successivo alla verificazione della nullità, che determina una totale equivalenza di effetti rispetto al corrispondente atto perfetto, conforme al modello legale.
Ai sensi dell’art. 183 c.p.p. le nullità – intermedie e relative sono sanate in due casi:
1) il primo presuppone la consapevolezza del vizio, in quanto esso è sanato se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirlo o ha accettato gli effetti dell’atto (cosiddetta acquiescenza).
2) Allo stesso modo le nullità si considerano sanate se la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto nullo è preordinato (cosiddetta sanatoria per raggiungimento dello scopo). In una ottica di economia e speditezza processuale, è, cioè considerato inutile consentire che la nullità continui a riverberare i propri effetti quando l’interesse perseguito dalla norma sia stato comunque realizzato.
Infine, l’art. 184 c.p.p. prevede una ipotesi di sanatoria speciale della nullità di una citazione o di un avviso. Tali atti si sanano se la parte interessata (il pubblico ministero, una delle parti private o il difensore) è comparso o ha rinunciato a comparire. Se, infatti, la parte che è stata invalidamente citata compare comunque o rinuncia espressamente a comparire, la finalità cui l’atto è preordinato – e, cioè, garantire alla parte la partecipazione al processo – può dirsi comunque realizzata. Il comma II^ del medesimo articolo precisa che, se la parte è comparsa con il solo intento di far valere la nullità, ha diritto ad un termine non inferiore a cinque giorni per la difesa.

GLI EFFETTI DELLA DICHIARZIONE DI NULLITA’
Tre sono gli effetti delineati dall’art. 185 c.p.p.:
1. In primo luogo, la nullità rende invalidi tutti gli atti successivi che dipendono da quello dichiarato nullo, il quale ne costituisce la premessa logico-giuridica (cosiddetta nullità derivata). Da ciò si desume, a contrario, che l’atto invalido non inficia gli effetti di quelli consecutivi ove questi non dipendono da esso;
2. In secondo luogo, qualora sia possibile e necessario, il giudice che dichiara la nullità ne dispone la rinnovazione, ponendo le spese a carico della parte che abbia dato causa alla nullità per dolo o colpa grave;
3. Terzo e ultimo effetto della dichiarazione di nullità sancito dal codice, è la regressione del procedimento allo stato e grado in cui è stato compiuto l’atto nullo, a meno che non sia diversamente stabilito e salvo il caso in cui la nullità concerna un atto probatorio. In quest’ultimo caso, infatti, il giudice deve provvedere alla rinnovazione, sempre che ciò sia necessario ai fini della decisione e che la prova sia in concreto ripetibile.

LE INUTILIZZABILITA’
L’inutilizzabilità è quel tipo di invalidità che concerne solo e soltanto gli atti probatori e gli atti di indagine.
Con il termine prova, nel processo penale, si intende quello strumento conoscitivo, utilizzato dal giudice, nella sua ricostruzione del fatto, al fine di verificare la verità dell’ipotesi accusatoria prospettata dal pubblico ministero.
In particolare, il giudice deve operare attraverso il cosiddetto metodo probatorio, che consiste in quel ragionamento che da un fatto noto (traccia, dichiarazione, rappresentazione) ricava l’esistenza di un fatto ignoto e avvenuto nel passato in vista di una decisione che deve valere per il futuro. Ebbene, il vizio dell’inutilizzabilità in parola, consiste nell’inidoneità di un atto ad essere usato dal giudice probatoriamente.
A tal proposito, l’art. 191 c.p.p. prescrive che le prove acquisite in violazione di divieti stabiliti dalla legge non possano essere utilizzatee, ai sensi dell’art. 191 comma II^ c.p.p., tale tipo di inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.
Il vizio dell’inutilizzabilità può essere ASSOLUTO (o patologico) o RELATIVO (o fisiologico). Si parla di inutilizzabilità patologica, quando l’atto viziato è totalmente e assolutamente inutilizzabile per fini probatori, in ogni fase e grado del procedimento; in dibattimento, come nella fase preliminare, in sede cautelare come in sede negoziale. E’ patologicamente e assolutamente inutilizzabile perché illegittimamente acquisita, ad esempio, l’intercettazione eseguita al di fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni di cui agli artt. 267 e 268 commi I e III c.p.p..
L’inutilizzabilità fisiologica, invece, è tipica dei soli atti delle indagini preliminari. Si tratta, cioè, di atti legittimamente formati, ma privi dei requisiti necessari per essere utilizzati in sede dibattimentale, nel rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova. Si parla in questo caso di inutilizzabilità SOLO RELATIVA, poiché tali atti sono utilizzabili nel corso del procedimento, tanto nella fase prettamente investigativa quanto in quella dell’udienza preliminare, ma non nel dibattimento. Sono, ad esempio, utilizzabili dal giudice delle indagini preliminari per autorizzare una intercettazione, per disporre l’applicazione di una misura cautelare e per l’adozione di ogni altra decisione, che rientri nella sua competenza funzionale, gli atti del pubblico ministero e della polizia giudiziaria compiuti al di fuori del contraddittorio. Al contrario quegli stessi atti non potrebbero essere utilizzati dal giudice del dibattimento, in quanto qualificabili come mere fonti di prova e non come prove formatesi nel contraddittorio delle aprti e quindi idonee a fondare una decisione ch possa dirsi giusta.
Per comprendere a pieno la distinzione sopra richiamata tra inutilizzabilità assolute e relative di fondamentale importanza è, poi, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni disciplinata dall’art. 63 c.p.p. che contiene e cristallizza il principio del nemo tenetur se detegere.
In particolare, la disposizione disciplina il caso in cui un soggetto, chiamato a deporre in qualità di persona informata sui fatti, renda dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico. Dispone il comma primo della disposizione menzionata che, in tale ipotesi, a tutela del fondamentale diritto al silenzio l’autorità procedente deve immediatamente interrompere l’esame avvertendo la persona che, a seguito di quelle dichiarazioni e in virtù della mutata veste processuale, potranno essere svolte indagini nei suoi confronti, invitandola a nominare un difensore di fiducia. E’ poi sancito un divieto di utilizzazione delle dichiarazioni rese prima dell’avvertimento solo nei confronti della persona che le ha rese(cosiddetta inutilizzabilità soggettivamente relativa), a tutela della generale libertà di autodeterminazione di chi, se avesse avuto consapevolezza del proprio status, avrebbe potuto esercitare il diritto al silenzio riconosciuto all’indagato.
Il comma secondo dell’art. 63, sancisce, invece, un’ipotesi di inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni auto-indizianti. Viene, difatti, delineata l’ipotesi in cui un soggetto, già sottoposto alle indagini, sia sentito fin dall’inizio in qualità di persona informata sui fatti, senza che l’autorità procedente espliciti la qualità di indagato, al solo fine di impedire che questi possa esercitare il diritto al silenzio. Ebbene, il codice sanziona il comportamento in mal fede della polizia giudiziaria e/o del pubblico ministero, sancendo una inutilizzabilità delle dichiarazioni auto-indizianti eventualmente rese, molto più ampia rispetto a quella di cui al comma 1: esse, infatti, non possono essere utilizzate, non soltanto nei confronti della persona che le ha rese, ma nei confronti di tutti.

I VIZI DEL GIUDICATO
La formazione del giudicato e l’irrevocabilità della sentenza hanno ricadute concrete anche in tema di invalidità. Il giudicato, in particolare, implica l’inamovibilità delle pronunce, al fine di garantire la certezza delle statuizioni giuridiche e di impedire una illimitata possibilità di persecuzione penale nei confronti dello stesso soggetto. La conseguenza di tale affermazione, sul piano della invalidità, è che con l’intervento del giudicato sono sanate automaticamente tutte le nullità comprese le nullità assolute. Ne consegue che poiché l’incidente di esecuzione, disciplinato dall’art. 666 c.p.p. è volto a controllare esclusivamente l’esistenza e la legittimità del titolo esecutivo , siffatto strumento non può essere utilizzato per far valere vizi afferenti al procedimento di cognizione e alla sentenza che lo ha concluso, ostandovi le regole che disciplinano la cosa giudicata. L’opponibilità della siffatta preclusione rende, pertanto, improponibile e irricevibile la deduzione di violazione di legge relativa al calcolo della pena, che, quand’anche sussistente, non sopravvive al giudicato, che opera con efficacia di sanatoria generale e, quindi, da esso rimane coperta. Considerazioni analoghe valgono anche per le deduzioni concernenti il computo dei termini prescrizionali.
Ed effettivamente, attribuire al giudice dell’esecuzione, dotato di una competenza funzionale limitata, essendo la sua giurisdizione una proiezione ridotta di quella esercitata in sede cognitiva, il potere di accertare e dichiarare vizi verificatisi in un momento processuale anteriore alla pronuncia della sentenza definitiva, equivarrebbe a riconoscergli la potestà di invalidarla, in contrasto con un sistema che, seppur contempla eccezioni al principio di intangibilità del giudicato , non consente tuttavia, che, attraverso l’intervento degli organi giurisdizionali operanti in executivis, possa essere esercitato un controllo sul procedimento di cognizione, in tutte le fasi del suo sviluppo. Ne consegue, dunque, che, una volta che con la sentenza definitiva il processo è pervenuto al suo stadio conclusivo, gli eventuali vizi di atti o decisioni assunte nel corso dello stesso, devono ritenersi superati avendo esaurito il loro potenziale dirimente.

(Introduzione ed elaborazione dell’articolo dell’Avv. Giuseppe Maria de Lalla. Ogni diritto riservato)

 

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