L'utilizzo nel processo penale della Prova video. Sia in fase di indagini preliminari che nel corso del dibattimento.
Pubblichiamo in questa pagina un interessante articolo redatto da Anacleto Flori – funzionario amministrativo presso il Ministero degli Interni – pubblicato sulla rivista mensile “Polizia Moderna” del mese di marzo.
L’intervento, molto spesso di grande attualità soprattutto nella repressione del terrorismo internazionale e non certo solo nell’ambito della criminalità organizzata, riguarda le prassi operative per la protezione dei testimoni e dei c.d. collaboratori di Giustizia.
L’argomento esula dalle consuete tematiche procedurali e sostanziali affrontate nel sito (tanto più che lo Studio de Lalla NON si occupa di criminalità organizzata e di collaboratori di Giustizia); ma il tema è trattato dall’Autore in maniera talmente esaustiva, approfondita e scorrevole da risultare assolutamente interessante per coloro che si occupano di diritto.
INVISIBILI. Alla scoperta del Servizio centrale di protezione testimoni e collaboratori di giustizia. Un lavoro oscuro ma fondamentale.
Le voci metalliche, gutturali, sapientemente distorte da qualche effetto speciale e le sagome dei corpi appena visibili, schermati da separè o immersi nel buio. Così abbiamo visto, e ascoltato, per anni testimoni e collaboratori di giustizia deporre nelle aule dei tribunali contro il boss di turno.
Nessun tratto somatico deve tradire l’identità di quelle persone che per coraggio, senso della giustizia o solo per pura convenienza hanno scelto di rompere l’omertà, denunciare un colpevole, fare nomi, raccontare fatti e svelare delitti rimasti impuniti per anni. Una scelta che li ha resi per sempre, agli occhi dei mafiosi, degli “infami”. Ed ecco allora che quei testimoni e quei collaboratori devono diventare da un giorno all’altro uomini e donne senza più un volto. Devono lasciare i luoghi che li hanno visti nascere e crescere, entrare in un protettivo, ma inquietante cono d’ombra che tutto nasconde, ma soprattutto devono imparare a mimetizzarsi con l’ambiente circostante, fino a diventare invisibili, quasi incorporei. Anche le loro vere identità devono essere cancellate, cambiate, affidate all’oblio, perché i boss mafiosi difficilmente dimenticano il nome di un “infame”. Da quel momento, da quella scelta di rottura con il passato le esistenze dei testimoni, dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari sono appese a un filo. Spetta allora allo Stato, quello stesso Stato che ha avuto un aiuto prezioso nelle indagini, non voltargli le spalle e garantire loro la necessaria protezione e assistenza.
L’importanza di una legge
Il primo a capire l’importanza dei collaboratori di giustizia nella lotta alle mafie e a sollecitare una legge che favorisse il fenomeno del cosiddetto “pentitismo”, prevedendo speciali misure di protezione, è stato Giovanni Falcone.
Quando, a metà degli Anni ’80, il boss dei “due mondi” Tommaso Buscetta (…) iniziò a collaborare con i giudici impegnati nel cosiddetto “Maxiprocesso”, a Falcone si aprì un mondo fino ad allora sconosciuto fatto di legami di sangue, di riti di iniziazione, di codici d’onore e di strutture gerarchiche. Insomma, Buscetta fornì agli investigatori la chiave d’accesso per penetrare nelle stanze più segrete dei “mandamenti” e della “Cupola”. Grazie alle sue rivelazioni si squarciò quel velo di omertà che aveva reso fino ad allora impossibile comprendere cos’era e come funzionava Cosa nostra.
Nonostante le pressanti richieste di Falcone, e i successi nella lotta alla criminalità organizzata conseguiti anche grazie al crescente numero di collaboratori di giustizia, da Totuccio Contorno a Francesco Marino Mannoia, la prima legge che regolò in maniera organica la protezione dei collaboratori di giustizia, in grave pericolo per le dichiarazioni rese nel corso delle indagini, venne approvata solo all’inizio degli Anni ’90 (legge n. 82 del 15 marzo 1991). Successivamente, con la legge n. 45 del 13 febbraio 2001, vennero introdotte alcune importanti novità, tra cui la fondamentale distinzione (giuridica e di trattamento) tra la figura del collaboratore di giustizia e quella del testimone. Ma già la legge 82 del 1991 individua i tre pilastri fondamentali su cui avrebbe poggiato il sistema di protezione. Il primo è il procuratore della Repubblica (o il magistrato preposto alla Procura distrettuale antimafia), che propone le misure di protezione, il secondo è la Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione, cui spetta il compito di concedere tali misure (ma anche di revocarle) e il terzo è il Servizio centrale di protezione (Scp), struttura interforze inquadrata presso il Dipartimento della ps – Direzione centrale della polizia criminale, chiamato ad attuare le decisione prese.
Il Servizio centrale di protezione
«Se la Commissione centrale diretta dal vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico (…) può essere considerata come la mente del programma di protezione, noi siamo sicuramente il braccio esecutivo», spiega il dirigente superiore della Polizia di Stato, Andrea Caridi, attuale direttore del Servizio centrale di protezione. Quella diretta da Caridi, è una di quelle strutture che raramente salgono agli onori delle cronache, preferendo, al contrario, mantenere un low profile, al punto che pochi ne conoscano la complessità e la delicatezza dei compiti svolti. Alla necessità di lavorare a fari spenti e di garantire un altissimo livello di segretezza sull’identità dei nuclei protetti, fa però da contraltare la scelta di grande trasparenza sull’attività della Commissione centrale e del Servizio, al punto che tutte le misure adottate sono oggetto di una puntuale relazione presentata semestralmente al Parlamento. In effetti, è proprio attraverso le pagine di questo rapporto che ci si rende conto della mole di lavoro che è chiamato a svolgere il Servizio centrale di protezione. «In Italia, alla data del 30 giugno 2016 – continua Andrea Caridi – risultavano censiti 78 testimoni e 1.227 collaboratori di giustizia, di cui 515 in libertà, 478 beneficiari delle misure alternative alla detenzione e 284 ristretti in istituti penitenziari. Se a questi si aggiungono anche i rispettivi nuclei familiari, ecco che arriviamo a quota 6.525 persone da proteggere su tutto il territorio nazionale». Un bell’impegno per i circa 800 operatori provenienti da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e, in misura minore, anche dall’Amministrazione civile dell’Interno e dalla Polizia Penitenziaria. Per dare un’idea dei compiti che il personale è chiamato quotidianamente ad affrontare, è sufficiente prendere in esame uno dei tanti servizi svolti, quello di scorta e accompagnamento: dall’ultimo rapporto presentato in Parlamento emerge che nel primo semestre 2016 sono stati 163 i servizi di accompagnamento in tribunale per i testimoni e ben 4.573 per i collaboratori di giustizia.
Questo significa, se l’andamento sarà confermato anche per il secondo semestre, organizzare ogni anno più di 9mila viaggi in tutta Italia per rendere possibile il regolare svolgimento di importanti udienze processuali. E si che per ogni viaggio bisogna prevedere tutto nei minimi dettagli: gli uomini da impiegare, le auto da utilizzare, gli orari migliori in cui partire (molto spesso di notte, se gli spostamenti sono lunghi), i percorsi più sicuri, le strutture dove fermarsi per dormire, sempre tenendo d’occhio la sicurezza, ma anche le spese da sostenere.
Se buona parte degli 800 operatori è impiegato all’interno della sede centrale articolata, nel cuore del quartiere romani dell’Eur, i 4 Divisioni (Affari generali, Testimoni, Collaboratori di giustizia, Contabilità), il resto invece presta servizio presso i 19 Nuclei operativi di protezione (Nop), competenza regionale o interregionale. Sono proprio i Nop, su impulso del Servizio, ad assicurare sul territorio la diretta attuazione delle misure concesse dalla Commissione centrale. In pratica nel momento in cui la Commissione concede il programma di protezione a un testimone o un collaboratore, la complessa macchina organizzativa del Servizio si mette in moto. Trattandosi di persone che rischiano la vita, tutti sono consapevoli che non c’è tempo da perdere: a partire da quel preciso momento ogni operatore di ciascuna divisione sa perfettamente cosa fare.
Una nuova casa
«Il primo passo – continua il direttore del Servizio – è quello di allontanare le persone dal luogo di residenza e di portarle in un posto sicuro, che deve restare il più possibile segreto, al punto che neanche gli avvocati difensori devono esserne a conoscenza. Il trasferimento è obbligatorio solo per i collaboratori, mentre i testimoni se vogliono possono scegliere di continuare a vivere proprio paese o nella propria città. A rimanere sono spesso imprenditori o commercianti che, dopo aver trovato la forza di denunciare le intimidazioni o i tentativi di infiltrazione mafiosa non intendono o non possono, come nel caso dei titolari di azienda, abbandonare le proprie attività». In caso di trasferimento, spetta comunque al Nop regionale attivarsi per trovare un alloggio adeguato, che tenga conto del tenore dell’abitazione che si è stati costretti a lasciare e del numero delle persone da ospitare. Un numero che varia a seconda della regione di provenienza: i numeri più estesi sono quelli dei collaboratori di giustizia campani, legati alla Camorra e quindi strutturalmente più “aperti”, che chiedono di inserire nel programma anche parenti più o meno stretti come fratelli, sorelle e anche nipoti, mentre i collaboratori appartenenti a Cosa nostra e alla ‘Ndrangheta, storicamente più “chiusi” e ristretti, si limitano a far inserire lo stretto nucleo familiare.
In questa prima fase di intervento il Servizio è impegnato soprattutto a risolvere questioni di natura logistica: dai contatti da prendere con alberghi e residence (accuratamente inseriti in una white list) per una prima, provvisoria sistemazione, alla ricerca di appartamenti privati che rispondano ai dovuti requisiti di “anonima normalità” e di sicurezza (in questo caso non esiste una vera e propria lista perché, per non dare nell’occhio, gli appartamenti cambiano in continuazione). Ma i problemi logistici da risolvere non finiscono certo con la consegna delle chiavi di casa…
Sotto copertura
Se si cambiano paesi o città, abitudini e stili di vita, amicizie e lavori per lasciarsi alle spalle il proprio passato e iniziare una nuova vita, cosa c’è di meglio di un nome nuovo di zecca stampato sui propri documenti? Anche di questo si occupa il Servizio. «I documenti di copertura sono tra i benefici previsti per chi sottoscrive il programma di protezione – sottolinea Andrea Caridi – e spetta proprio al Servizio dare l’autorizzazione per il rilascio». In pratica si tratta di “taroccare” (attraverso una serie di contatti e di accordi che coinvolgono comuni, prefetture, l’Ufficio provinciale della motorizzazione di Roma e altri enti) quei documenti che vengono richiesti e usati nel corso della vita di tutti i giorni. «Sempre nei primi sei mesi del 2016 – continua il direttore – sono state rilasciate 45 carte di identità, 33 patenti di guida e 450 tessere sanitarie con generalità di copertura. In questa fase diventa fondamentale individuare un cosiddetto “polo residenziale fittizio” per il nucleo delle persone protette, vale a dire un indirizzo “in uso” al Servizio da riportare sui nuovo documenti che, è bene sottolinearlo, servono esclusivamente per favorire la mimetizzazione e il reinserimento sociale e, quindi, possono essere usati solo durante lo speciale programma di protezione». Sono dunque documenti che “scadono” automaticamente non appena vengano meno le esigenze di sicurezza. Nei casi di particolare gravità, e a richiesta degli interessati, la legge 82/91 prevede la concessione del cambio delle generalità: nel primo semestre 2016 sono state concesse solo quattro, a familiari di collaboratori di giustizia. Se tra i documenti di copertura rilasciati alla data del 30 giugno ci sono ben 450 tessere sanitarie, appare chiaro come quello della costante attenzione alla salute della popolazione protetta sia un’altra delle incombenze impellenti che il Servizio, attraverso il proprio Ufficio sanitario, è chiamato a risolvere. Assistenza che viene garantita sia attraverso l’intervento diretto dei medici della Polizia di Stato sia grazie alla rete dei rapporti instaurata con le strutture territoriale del Servizio sanitario nazionale. Il lavoro forse più delicato e complesso è quello di garantirla continuità delle terapie a persone affette da patologie croniche o a minori che devono periodicamente effettuare le vaccinazioni legate all’età. In questo caso la difficoltà maggiore è la cosiddetta “conversione dei documenti”: ricondurre a un’unica cartella clinica tutti gli esami, le analisi e i referti sparsi nelle strutture ospedaliere di varie città, spesso intestati a più nomi di copertura. Insomma, un bel rompicapo.
Assistenza psicologica
Se risolvere i problemi è uno dei compiti del Servizio, c’è da dire che oltre le difficoltà logistiche, spesso gli operatori sono chiamati ad affrontare anche quelle di natura economica e psicologica.
Nel caso dei collaboratori di giustizia ci si trova di fronte a persone che non sono in grado di gestire l’assegno mensile, che non si sono probabilmente mai dovute occupare di fare la spesa per la cucina o per le pulizie di casa. A un certo punto i soldi finiscono e si rivolgono al Nop regionale per averne altri. Non è mai semplice gestire situazioni come queste. «Ai nostri operatori – sottolinea infatti Andrea Caridi – viene richiesta grande preparazione professionale: bisogna infatti unire sensibilità, disponibilità, ma anche la necessaria fermezza che ci vuole quando ci si rapporta con persone che hanno comunque alle spalle un percorso criminale e che magari hanno deciso di collaborare con le forze dell’ordine non per una crisi di coscienza, ma per pura convenienza. Magari per ottenere una riduzione di pena o perché, appartenendo a un clan perdente, rischiavano di essere uccisi nel corso di qualche faida interna». Di contro anche i testimoni, privati delle proprie case e dei propri tenori di vita, avanzano una serie di richieste che ricadono puntualmente sul personale del Nop territoriale, vero e proprio avamposto delle Istituzioni. Per questo chi lavora all’interno del Servizio deve essere pronto a tutto. Non è un caso che il personale sia assegnato al Servizio preferibilmente su base volontaria e che venga adeguatamente formato attraverso specifici corsi: lavorare in queste condizioni di coinvolgimento emotivo e di richiesta continua di intervento non è facile. Sradicate dal loro ambiente, inserite di colpo in comunità con abitudini e dialetti diversi, e soprattutto lontane dalle loro case, dai loro amici, dagli affetti, le persone sotto protezione si ritrovano improvvisamente sole. Ecco allora che bisogna tirar fuori la capacità di ascoltare, di risolvere i problemi, di far sentire, insomma, la presenza rassicurante delle Istituzioni e di mostrare il volto buono dello Stato. Un volto che, proprio nei collaboratori di giustizia può far scattare la decisione di rompere davvero con il passato e di spezzare una volta per tutte i rapporti con la propria famiglia mafiosa, il proprio clan, la propria ‘ndrina e intraprendere un percorso fatto di legalità. Di iniziare, così, una nuova vita. Una strada però costellata di difficoltà: può succedere che sotto il peso delle problematiche e delle limitazioni imposte dal regime di protezione (impossibilità di lavorare, di uscire da casa o di avere rapporti con l’esterno) alcune persone si ritrovino a fare i conti con problemi di alcolismo, di tossicodipendenza o di ludopatia. Gli operatori del Servizio diventano allora il loro unico punto di riferimento, l’ancora cui aggrapparsi. Ed è proprio attraverso la segnalazione dei Nop che viene coinvolto l’Ufficio assistenza psicologica composto da tre direttori tecnici psicologi della Polizia si Stato. «Nei casi più delicati e complessi – spiega Francesco Borrelli, il decano degli psicologi, con i suoi quasi 18 anni di servizio alle spalle – interveniamo direttamente spostandoci di volta in volta a seconda delle richieste che arrivano dai Nop: nell’arco di un anno, dal 1 luglio 2015 al 30 giugno 2016 abbiamo partecipato, su tutto il territorio nazionale, a 72 missioni, nel corso delle quali io e le mie colleghe abbiamo incontrato 30 testimoni e 57 collaboratori, cui si aggiungono quasi un centinaio di familiari».
Ma le richieste di sostegno sono davvero tante e per questo l’Ufficio assistenza si avvale di una ramificata rete di strutture (ospedali, aziende sanitarie locali, centri di salute mentale, case famiglie, ecc.) che si è venuta a costruire nel corso degli anni e che ora è in grado di assicurare , attraverso la collaborazione con decine e decine di specialisti, l’avvio di trattamenti psicologici, psicoterapeutici, psichiatrici e neuropsichiatrici dell’età infantile.
La protezione dei minori
«Senza alcun dubbio la tutela della salute psicologica dei minori – continua Francesco Borrelli – , che rappresentano circa il 40% di tutta la popolazione protetta e quindi quasi 2mila ragazzi, costituisce l’aspetto più delicato dell’attività dell’Ufficio. Le dinamiche con cui vengono attuati i programmi di protezione fanno sì che a soffrire di più dell’allontanamento dai paesi di origine, siano proprio i ragazzi. Basti pensare allo shock provocato dal dover lasciare la propria casa e gli affetti, ma anche di dover abbandonare spesso a metà dell’anno scolastico, la propria classe, i propri insegnanti, i propri compagni, per ricominciare da capo in realtà nuove e soprattutto lontane. A volte anche lasciare la squadra di calcio in cui si gioca e quindi gli amici può rappresentare un piccolo trauma. Per questo, se proprio non ci sono rischi impellenti, si cerca di far coincidere i trasferimenti in località protetta con la fine delle lezioni».
L’inserimento in una nuova scuola e la continuità del percorso scolastico, nel rispetto delle esigenze di sicurezza, comportano il coinvolgimento diretto del Provveditorato agli studi, in modo che neppure gli insegnanti siano a conoscenza della nuova identità del ragazzo. Proprio il cattivo andamento scolastico o la tendenza a isolarsi possono essere la spia di un disagio latente e del bisogno di assistenza. In questi casi, nell’approccio con i minori sotto protezione che hanno bisogno di assistenza per gli psicologi del Servizio è fondamentale accertare quanto i ragazzi stessi siano a conoscenza del motivo che ha costretto il nucleo familiare a trasferirsi lontano da casa, anche perché soprattutto i collaboratori tendono a tenere i propri figli all’oscuro della situazione. «L’esperienza dimostra che informare correttamente il minore sul proprio status – spiega Borrelli – è importantissimo perché gli permette di affrontare meglio il difficile percorso di inserimento che lo attende, di non perdere la fiducia nei genitori e soprattutto di collaborare in modo più consapevole nel mantenere il necessario livello di sicurezza. Il ragazzo tenuto all’oscuro, invece, inizierà prima o poi a porsi delle domande sul perché, a differenza dei suoi coetanei, non può chattare sui social, non può usare il cellulare o dire dove abita. Scoprire in maniera accidentale la verità potrebbe avere delle ripercussioni davvero negative. Per questo sono proprio i genitori che spesso ci chiedono un aiuto quando si tratta di raccontare ai figli la situazione familiare». Situazione che può essere messa continuamente in discussione se per qualche motivo, più o meno casuale, viene scoperta la vera identità del minore. A quel punto il nucleo familiare è costretto di nuovo a trasferirsi e purtroppo bisogna ricominciare tutto da capo. In ogni caso, non c’è dubbio che il programma di protezione rappresenti una grande occasione per i ragazzi di riprendere gli studi, di laurearsi e di inserirsi nel mondo del lavoro. E se per gli adolescenti, soprattutto per quelli che provengono da ambienti e contesti degradati, si tratta di una formidabile opportunità per riprendere in mano in filo della propria esistenza, per la collettività è un investimento sulla legalità.
Opportunità e fine rapporto
Se buona parte dell’attività del Servizio è finalizzata a rimettere pazientemente assieme, in un’altra città e in un altro contesto, le tessere delle vite di testimoni e collaboratori di giustizia letteralmente andate a pezzi, appare evidente che una delle chiavi per ricomporre il puzzle sia il reinserimento nel mondo del lavoro. Un “piano di rientro” studiato ad hoc per i testimoni di giustizia è quello che prevede la possibilità di essere impiegati, attraverso corsie preferenziali, all’interno della pubblica amministrazione. Il primo ente pubblico a tracciare la strada in questo senso è stato la Regione Sicilia che, a seguito di uno specifico protocollo d’intesa con la Commissione centrale, già a fine 2015 aveva assunto per chiamata diretta 26 testimoni. Le opportunità di lavoro, però, non sono solo quelle offerte dalla Pubblica amministrazione.
«Alla scadenza del programma – sottolinea ancora il direttore del Servizio Andrea Caridi – alle persone sotto protezione viene corrisposta, in misura diversa a seconda dello status, la cosiddetta “capitalizzazione” (una sorta di buonuscita, ndr) spesso utilizzata per avviare attività commerciali. Proprio in questi giorni abbiamo ricevuto una lettera da parte di un ex collaboratore di giustizia che ci invitava all’inaugurazione, in forma strettamente privata, di un agriturismo. Per motivi di opportunità abbiamo declinato l’invito, però quella lettere è la migliore dimostrazione che l’impegno dello Stato ha dato i suoi frutti». A volte il programma di protezione non si esaurisce naturalmente, ma si interrompe in modo traumatico: ad esempio quando vengono infrante le norme di comportamento previste dal decalogo sottoscritto al momento della concessione del programma stesso. Oppure nel caso di reati più o meno gravi o comunque sintomatici di un riavvicinamento agli ambienti criminali. In tali casi il Servizio segnala le infrazioni alla Commissione centrale (nel primo semestre del 2016 sono state 29 le segnalazioni), che dopo attenta valutazione e sentiti i pareri della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo e della Procura distrettuale antimafia competente, decide sull’eventuale revoca.
Decisioni a volte drastiche, che per il Servizio hanno il sapore della sconfitta, ma che servono a ribadire che il programma di protezione non è fatto di soli diritti né tanto meno di favori concessi a testimoni e collaboratori. Piuttosto si tratta di un lungo percorso che comporta anche dei doveri.
L’obiettivo, come è scritto nelle conclusioni dell’ultimo rapporto appena consegnato al Parlamento, è quello di arrivare a “una protezione giusta, funzionale alla giustizia, coerente con la legge…capace di aiutare il reinserimento socio – lavorativo dei protetti, portatrice di legalità”. Insomma un sistema di protezione che a Giovanni Falcone sarebbe sicuramente piaciuto.
Continuiamo con l’analisi del sistema di protezione del collaboratori di giustizia attraverso un’intervista al direttore della Commissione centrale, pubblicato sempre da Anacleto Flori sulla rivista mensile “Polizia Moderna” del mese di marzo, specificatamente dedicato all’organizzazione e alle modalità di lavoro della Commissione stessa
PROTEZIONE GIUSTA.
Scopriamo come è composta e come lavora la Commissione centrale attraverso le parole del suo direttore, il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico.
Come è composta la commissione centrale da lei diretta?
Ha una composizione particolarmente solida perché è costituita da due magistrati con specifiche competenze nella lotta alla criminalità organizzata, da un ufficiale della Guardia di Finanza, un dirigente superiore della Polizia di Stato, un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri e un ufficiale della Dia. Un insieme di professionalità ed esperienze in grado di valutare attentamente i contenuti delle proposte di concessione del programma di protezione, sia per i testimoni che per i collaboratori di giustizia, che arrivano alla Procura distrettuale antimafia.
Oltre la Procura, gli altri due pilastri del sistema di protezione sono la Commissione centrale e il Servizio centrale di protezione. Possiamo dire che sono la mente e il braccio?
In realtà, c’è una relazione molto stretta tra le due strutture che si è ancor più rafforzata con la decisione di far partecipare ai lavori della Commissione anche il Servizio.
Una novità che rende possibile un maggior collegamento tra le decisioni prese dalla Commissione e le attività promosse sul territorio dal Servizio. Un continuo scambio di informazioni che ci ha permesso di cambiare progressivamente le “regole del gioco”, in modo da essere più vicini alle esigenze sia dei collaboratori di giustizia che dei testimoni. Soprattutto per quanto riguarda questi ultimi, abbiamo notato la contraddizione tra il dispendio di risorse umane e finanziarie che il sistema mette a disposizione (complessivamente circa 80 – 100 milioni annui, ndr) e la scarsa qualità percepita dai testimoni stessi.
Quali sono le difficoltà maggiori nella gestione dei testimoni?
Le problematiche derivano soprattutto dalla mancanza di chiarezza al momento dell’ingresso nel programma di protezione. I testimoni che hanno assistito a fatti penalmente rilevanti, come l’assassinio di un magistrato o di un poliziotto sono pochi. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccoli imprenditori, artigiani o più raramente liberi professionisti vittime di estorsioni o di usura, la cui attività commerciale è stata danneggiata dalle organizzazioni criminali. Una volta che i testimoni sono entrati nel sistema di protezione emergono, con il passare del tempo, le prime rivendicazioni relative alle vicende aziendali e ai debiti che si sono accumulati, per i quali si chiede l’intervento dello Stato. Una richiesta che avviene in un tempo differito in cui è ormai difficile discernere il rapporto di causa – effetto tra le estorsioni subite e le difficoltà finanziarie, rapporto che invece è espressamente previsto dalla vigente normativa. Per questo è fondamentale per i testimoni, al momento dell’inserimento nel programma di protezione, dichiarare la loro situazione economica; una sorta di fotografia dell’esistente che elimini, in futuro, il rischio di eventuali “contrattazioni”.
Nel caso in cui un imprenditore sotto protezione sia costretto a trasferirsi in una località protetta, come viene gestita la sua azienda?
È necessario sottolineare come le persone che hanno subito un’estorsione o sono vittime di racket, ma che non vengono inserite nel programma di protezione, possono rivolgersi al Commissario antiusura o antiracket (con cui viene condivisa una comune piattaforma informativa per evitare che possano verificarsi accessi ripetuti ai benefici pubblici) per chiedere di ricostituire la propria attività commerciale, ricevere il ristoro dei danni subiti e accendere dei mutui per rilanciare la propria azienda. Chi, invece, viene proposto per l’inserimento nel programma di protezione come testimone di giustizia è sottoposto, in relazione alla capacità criminale dei soggetti denunciati, ad una attenta valutazione da parte della Procura distrettuale antimafia che, se considera rischiosa la permanenza del testimone nel territorio di origine, ne propone il trasferimento in località protetta. In quel caso l’attività imprenditoriale o professionale di fatto sospesa e all’imprenditore viene garantito il mancato reddito e il livello di vita precedente.
Cosa prevede il programma per il testimone che decide di restare?
Attraverso il lavoro di un’apposita commissione di esperti e sulla base di un attento lavoro di ascolto del territorio, abbiamo riscontrato una diversità di trattamento che penalizza il testimone che decide di non trasferirsi. L’imprenditore che, infatti, sceglie di restare nel territorio d’origine diventa estraneo a un contesto socio – economico fortemente condizionato dalle organizzazioni mafiose. Una condizione, questa, che limita e danneggia pesantemente la sua attività economica. Ebbene oggi non è possibile risarcire quel danno. Paradossalmente, il testimone che rimane in sede, soluzione che noi vorremmo privilegiare per la forza del messaggio di coraggio e di “resistenza” che viene lanciato alle organizzazioni mafiose, non riceve gli aiuti previsti per chi invece si sposta in località protetta. Per questo motivo è stata già presentata alla Camera una nuova legge che ponga fine a questa ingiusta disparità. Anche perché attualmente la protezione del testimone inserito nel programma spetta al Servizio centrale, mentre se il testimone rimane in loco scattano le misure disposte dal prefetto, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica: dunque anche dal punto di vista della tutela, le situazioni sono diverse. Nel complesso la nuova legge prevede una serie di misure in grado di migliorare complessivamente il sistema, anche perché dal lavoro della commissione è emerso un altro dato interessante, quello del disagio dovuto allo shock che subiscono le vite dei testimoni. Un vero e proprio trauma personale, familiare e relazionale che richiede una specifica assistenza.
Quanto è utile in questo caso l’intervento degli psicologi del Servizio centrale di protezione?
In presenza di questo malessere, di questa sofferenza, diventa fondamentale l’assistenza degli psicologi e degli psichiatri del Servizio sanitario di polizia soprattutto per quanto riguarda i minori che, strappati dalle loro realtà relazionali, perdono le loro amicizie, i loro affetti e i loro punti di riferimento. Appare assolutamente necessario rafforzare la presenza di queste figure specialistiche, così com’è importante che gli operatori dei Nuclei operativi protezione (Nop) continuino ad essere sostenuti attraverso specifichi corsi di formazione e di aggiornamento, ma anche attraverso la previsione di un sistema di rotazione degli incarichi. Il testimone sottoposto a protezione rischia, infatti, di scaricare proprio sul personale dei Nop un forte carico di ansia e di malessere. Si tratta quindi di intervenire per tutelare il benessere psico – fisico degli operatori stessi che, oltre alle doti e alla straordinaria professionalità di poliziotti, devono spesso abbinare competenze e conoscenze da veri e propri psicologi.
Oltre ai diritti e a benefici previsti dalla legge, testimoni e collaboratori hanno anche dei doveri?
Sia gli uni che gli altri hanno dei doveri da seguire, anche se il rispetto rigoroso delle regole riguarda soprattutto i collaboratori. In particolare bisogna stare attenti a non dare spazio ai finti collaboratori e a quanti pensano di collaborare a corrente alterna, così come è necessario essere decisi nel revocare i benefici concessi a collaboratori che abbiano commesso dei nuovi reati o infranto le regole. Se una persona abbandona la località protetta o gira armata è chiaro che va estromessa dal programma. Se le infrazioni invece sono di lieve entità, la persona sottoposta a protezione viene solo richiamata: una sorta di cartellino giallo, per usare una metafora calcistica.
Nell’ultima relazione semestrale presentata al Parlamento si parla di una nuova carta dei diritti e dei doveri, ci può anticipare qualche cosa?
È una carta che riguarda in particolar modo i testimoni. Infatti, il collaboratore di giustizia in genere ha poche pretese: avendo un carico di precedenti penali consistente, se decide di collaborare è pienamente consapevole del prezzo da pagare. Abbiamo avuto collaboratori che anche nelle difficoltà hanno mantenuto un atteggiamento di assoluta correttezza, di fiducia e perfino di gratitudine nei confronti dello Stato. I testimoni, invece, hanno alle spalle esperienze e vissuti diversi e, giustamente, pretendono di più. Si tratta, infatti, di cittadini perbene la cui vita è stata in qualche modo distrutta perché la loro casa è stata bruciata, l’azienda è stata messa in gravi difficoltà finanziarie e loro sono stati costretti ad abbandonare il proprio territorio e a lasciare gli affetti. In tale condizione poco importa che lo Stato versi loro un assegno in grado di garantire un elevato livello di vita: il loro disagio, la loro rabbia è legata a tutto ciò cui hanno dovuto rinunciare: vivere nella loro casa, nel loro paese, frequentare i proprio amici. è normale che il loro atteggiamento sia diverso e si finisca per chiedere di più. Per questo dobbiamo essere in grado di elaborare una risposta adeguata a tali richieste.
A proposito di collaboratori, sono ancora importanti ai fini giudiziari per le indagini?
Sono convinto si tratti di uno strumento ancora molto valido. È cambiata la tipologia dei reati che emergono dai racconti delle persone che decidono di collaborare con la giustizia. Rispetto al passato, ora abbiamo anche stranieri che forniscono informazioni su organizzazioni criminali transnazionali, coinvolte nel traffico, nello sfruttamento e nella riduzione in schiavitù di esseri umani. Ultimamente abbiamo anche qualche collaboratore per quanto riguarda i reati di terrorismo; si tratta di poche unità, ma si inizia a muovere qualche cosa anche in questo campo. E anche loro rientrano nel sistema di protezione.
Il programma di protezione può essere esteso anche alle madri che, per salvare i propri figli da un contesto criminale, si ribellano alle leggi del clan o della ‘ndrina?
Questo è un fenomeno che, fortunatamente, sta sempre più emergendo e che riguarda soprattutto la ‘Ndrangheta, anche grazie ai provvedimenti di annullamento della patria potestà da parte del Tribunale per i minori di Reggio Calabria. Si tratta di casi in cui alcune madri – testimoni hanno raccontato fatti di cui non sono direttamente responsabili ed espresso la volontà di tirare fuori da quel contesto criminale i propri figli; in tali circostanze viene garantito un programma di protezione in località protetta. Penso, però, che la questione dell’allontanamento dei minori da ambienti degradati debba essere affrontato anche al di là dei casi di testimonianza, , ovviamente sulla scorta di una precisa valutazione della Procura distrettuale antimafia e utilizzando gli strumenti propri delle politiche sociali.
In quali circostanze la Commissione respinge la proposta di concessione dei benefici del sistema di protezione?
Spesso è accaduto che soggetti proposti come testimoni siano stati inseriti nel programma di protezione come collaboratori, perché a parere della Commissione erano emersi fattori di contiguità con contesti criminali. Poi su questo interviene la giustizia amministrativa, perché tutte le delibere sono impugnabili davanti al Tar. Anche se nella stragrande maggioranza dei casi vengono confermate può accadere che qualche delibera venga annullata; in questi casi emerge che in presenza di un giudizio delle forze di polizia e della Procura, non può essere il Tar a decidere se un individuo è in pericolo o no. Pur nel rispetto delle competenze e dell’autonomia di tutti. Per questo abbiamo previsto, nel disegno di legge presentato alla Camera, l’inserimento all’interno della Commissione di un rappresentante dell’Avvocatura generale dello Stato per rafforzare il profilo delle decisioni assunte.
Può anche accadere che il testimone o il collaboratore rivolga, attraverso il Servizio, un’istanza alla Commissione affinché una sua esigenza possa essere valutata. Inoltre alcune persone protette chiedono delle audizioni in Commissione; proprio nella riunione della scorsa settimana abbiamo ascoltato sia un testimone che un collaboratore. Un’occasione per conoscerli di persona e un importante arricchimento professionale.
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