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Commentiamo in questa sede una importante e recente Sentenza della Corte di Cassazione – 1^ sezione penale, Sentenza del 12 marzo, 26 giugno 2014 n. 27879 – in materia di completezza del fascicolo del Pubblico Ministero e di diritto della difesa di accedere allo stesso e, di riflesso, in relazione al costituzionale principio della parità delle parti (accusa e difesa) nel processo penale.
Come è noto, nel corso delle indagini preliminari coordinate dal Pubblico Ministero, gli atti di indagine eseguiti (perquisizioni, sequestri, sommarie informazioni testimoniali, interrogatori, sopralluoghi, intercettazioni telefoniche ed ambientali, accertamenti tecnici di qualsiasi natura etc.) devono essere dettagliatamente documentati dai soggetti che materialmente li eseguono (il più delle volte la Polizia Giudiziaria).


La documentazione di tali atti costituisce gli elementi di prova (che diverranno eventualmente prove solo nel processo penale in contraddittorio tra le parti) sui quali si basa l’ipotesi accusatoria formulata ed ipotizzata dalla pubblica accusa.
Evidentemente cardine centrale dell’attività difensiva è la conoscenza da parte dell’accusato – e, naturalmente, del suo difensore – di tutto gli atti di indagine sui quali si basano le accuse che gli sono mosse: l’indagato potrà pianificare in maniera proficua la propria difesa solo e solamente conoscendo ciò su cui si basa l’incolpazione mossagli.

Il principio – oltre ad essere un assioma, direi, metagiuridico – ha una portata fondamentale nel nostro ordinamento non tanto e non solo per il singolo cittadino/accusato; ma anche e soprattutto per la corretta amministrazione della Giustizia che nel nostro sistema accusatorio si basa, come detto, sul contraddittorio ovvero la contrapposta dialettica processuale tra accusa e difesa su base partitaria da cui scaturisce la ricostruzione (anche giuridica) del fatto alla luce della quale il Giudice (in ogni stato e grado del processo penale) assumerà la sua decisione.

La mancata conoscenza da parte della difesa anche solo di un atto di indagine eseguito dal Pubblico Ministero realizza una irrimediabile patologia di quel meccanismo (il contraddittorio tra le parti processuali in posizione di parità – almeno teorica… – avanti al Giudice terzo) pensato dal nostro Legislatore per l’amministrazione pratica della Giustizia e la protezione di quei valori costituzionali fondamenta del nostro ordinamento.

Ed invero, quale proficuo contributo potrà dare la difesa al giusto processo se non è messa nelle condizioni di conoscere gli atti dell’accusa?

Alla luce di queste brevi considerazioni, si comprende l’importanza centrale nell’iter processuale della notifica all’indagato (ed al suo difensore) dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis c.p.p. a seguito del quale – nei venti giorni successivi – l’accusato può accedere al fascicolo del Pubblico Ministero (che, come detto, conterrà tutti gli atti delle indagini espletate durante le indagini preliminari) e chiedere di essere interrogato o produrre documenti e memorie.

E’ proprio l’accesso agli atti di indagine (dopo la notifica dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.) che permette all’indagato di conoscere materialmente gli elementi a suo carico (e, quindi, di difendersi sia provando una tesi alternativa che confutando la tesi accusatoria) raccolti dall’accusa magari in anni di indagine e con l’ausilio delle tecnologie più avanzate e gli uomini più preparati.

Il principio della pronta e totale discovery degli atti dell’accusa con la correlata possibilità della difesa di prenderne integrale conoscenza è talmente fondamentale nel nostro ordinamento che non è ammissibile nemmeno una disponibilità tardiva per la difesa di atti che il PM non ha prontamente inserito nel suo fascicolo dopo averli eseguiti.

Quindi, anche il ritardo di tale disponibilità – anche se ordinata dal Giudice durante il processo ex art. 507 c.p.p. ovvero in un momento successivo a quello previsto a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari sede naturale della discovery degli atti dell’accusa – rappresenta una patologia del contraddittorio processuale che il Legislatore (e la Giurisprudenza) sanziona con l’inutilizzabilità funzionale degli atti tardivamente messi a disposizione delle difesa e, quindi, di conseguenza, con l’inutilizzabilità dell’elemento di prova rappresentato dagli atti stessi.

Ed invero – come sancito dalla Sentenza di cui trattiamo – “…Nel caso di omesso deposito di un atto di indagine da parte del pubblico ministero ai sensi dell’articolo 415 bis c.p.p., la prova è da considerarsi inutilizzabile a carico dell’imputato nella fase del successivo giudizio di merito. Non è in facoltà del Giudice, ai sensi dell’articolo 507 c.p.p., integrare il quadro probatorio procedendo ex officio all’acquisizione della detta prova, poiché si è in presenza di una inutilizzabilità funzionale non suscettibile di essere in alcun modo aggirata dai poteri istruttori del giudice del dibattimento e attinente al principio costituzionale della parità delle armi tra le parti processuali…..”

(articolo redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla).

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