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Commentiamo in questo articolo una recente sentenza – emessa dalla Sezione VI^ della Corte di Cassazione, sentenza 26 giugno – 6 agosto 2013 n. 34089 – il cui estratto è stato pubblicato sul numero 45 del novembre 2013 del settimanale “Guida al diritto”.
Si tratta di una decisione interessante che analizza la valutazione dei cosiddetti stati emotivi e passionali nell’economia del reato e, in particolare, l’eventuale influenza degli stessi sulla capacità di intendere e volere dell’agente (ovvero sulla di lui imputabilità).
La conclusione della decisione opta necessariamente per l’irrilevanza dal punto di vista del diritto penale (e, nello specifico, in merito all’affermazione della responsabilità del soggetto agente) degli stati emotivi e passionali secondo quanto esplicitamente previsto dall’art. 90 c.p. che sancisce che “gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità” (per imputabilità si intende l’addebitabilità del fatto reato al soggetto agente).
Gli stati emotivi devono intendersi come perturbamenti improvvisi che deflagrano nella mente del reo e che hanno solitamente una durata solo transitoria (si pensi agli stati d’ira improvvisi quale risposta ad uno stimolo esterno); quelli passionali si differenziano dai primi soprattutto perché più profondi e radicati nell’essere umano e contraddistinti da una maggiore durevolezza e persistenza (tale è l’odio, ad esempio, per un vicino covato per lungo tempo).
E’ di comune esperienza come proprio gli stati emotivi e passionali – al di là del perentorio dettato dell’art. 90 c.p. – siano spesso la ragione di molte azioni umane (non necessariamente costituenti reato ma anche atti di grande coraggio ed altruismo) e che, come solitamente accade in tutti o quasi i delitti c.d. d’impeto ovvero non programmati dall’autore, le azioni dell’offender sano di mente trovino effettivamente ragione, fondamento e causa in uno stato mentale solo transeunte verificatosi quale feedback al limite dell’irrazionalità dal quale la psiche dell’agente (e, quindi, le sue azioni) rimane, dal punto di vista psicologico, effettivamente sopraffatta.
La cronaca – malauguratamente – annovera quasi quotidianamente casi di soggetti privi di patologie psichiatriche, di natura psicologica o di gravi disturbi della personalità che si rendono protagonisti di reati gravissimi dalle conseguenze devastanti in difetto di qualsivoglia pianificazione e di una volontà cosciente poiché incapaci di sopprimere l’impulso ad agire conseguente ad uno stimolo psicologico estemporaneo dalla forza quasi indomabile ma passeggera (e tipici sono i casi di delitti in ambito familiare a seguito di discussioni per futili motivi a seguito dei quali il reo si costituisce o si suicida).
Peraltro, il fatto che il Legislatore abbia ritenuto necessario codificare specificatamente l’irrilevanza degli stati emotivi e passionali in relazione all’imputabilità depone per una necessaria esclusione di una evenienza (l’influenza concreta di tale situazione psicologica sull’agire umano) tutt’altro che rara.

La necessità della disciplina in commento (che potremmo spingerci a definire di natura convenzionale), del resto, ha una insopprimibile valenza giuridica (o, meglio, di politica criminale) dal momento che sarebbe assai ostico applicare in concreto un diritto penale aperto alla valutazione di stati psicologici sostanzialmente transeunti indipendenti da infermità nosograficamente accertabili e definibili (ivi comprendendovi i gravi disturbi della personalità. Vedi oltre sul punto) in tema di imputabilità e, più in generale, di capacità di intendere e volere.

In tema di analisi e riconoscimento della malattia mentale o, più in generale, di apprezzamento del correlato biologico di una patologia mentale ricollegabile ad un agito umano, il diritto ha fatto passi da gigante e già i Giudici si sono pronunciati a seguito dell’applicazione nel processo penale delle neuroscienze con l’utilizzo di strumenti quali la TAC, la risonanza magnetica funzionale e lo studio del genoma (mi riferisco alla nota Sentenza Albertani emessa dal GUP presso il Tribunale di Como del 20 maggio 2011 e a quella della Corte di Assise di Appello di Trieste del 18 settembre 2009 per citare le più famose).

Tuttavia, ancora molto attuale è la saggezza di Nuovolone convinto che “ai giuristi è sufficiente la psicologia degli ignoranti” e in questa piccola frase è racchiusa una grande verità poiché il diritto anela (e deve tendere) a quella certezza, controllabilità e verificabilità che sono categorie assai lontane dalla psicologia (campo, appunto, proprio dell’analisi e dello studio degli stati emotivi e passionali in difetto, peraltro, di patologie mentali) ma individuabili con maggiore facilità nella medicina (anche psichiatrica).
Inoltre, se il Legislatore avesse inteso “giustificare” l’agire delittuoso dipendente dagli sconvolgimenti della parte meno razionale della (anche sana) psiche umana (e per psiche dobbiamo intendere quel coacervo di elementi anche irrazionali e profondi che costituiscono la personalità di un individuo), sarebbe stata codificata e avvallata la rinuncia per ogni cittadino a controllare, domare ed incanalare gli impulsi etero ed autodistruttivi.
Con i medesimi intenti e finalità il Legislatore ha inteso anche considerare ininfluenti sulla valutazione della capacità di intendere e di volere dell’agente (contrariamente all’effettiva fenomenologia che tutti conosciamo) gli effetti della droga e dell’alcool (anzi: uno stato di alterazione preordinato al reato è sanzionato più duramente così come un’intossicazione abituale da alcool e droga concomitante alla condotta reato).

Il diritto, peraltro, non ignora del tutto l’influsso che sull’agire umano possono avere emozioni sovrapponibili agli stati emotivi e passionali ed il codice penale riconosce – effettivamente – quali parametri per la valutazione della gravità del reato contestato anche circostanze soggettive dipendenti da moti dell’animo di natura psicologica.
L’art. 62 al n. 3 del codice penale, ad esempio considera un’attenuante (determinate una diminuzione della pena inflitta fino ad un terzo) l’aver agito per suggestione (e la suggestione E’ uno stato emotivo e passionale) di una folla in tumulto (sempre che l’assembramento non sia vietato dalla Legge e dall’Autorità) ed al n. 2 del medesimo articolo è ugualmente prevista la riduzione della pena “l’aver agito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui” (e l’ira E’ indubbiamente sussumibile tra gli stati di cui all’art. 90 del codice penale).

Dunque, un atteggiamento particolarmente cauto del Legislatore teso più che altro ad escludere – ma non del tutto – il riconoscimento giuridico del momentaneo ottundimento delle capacità di controllo dell’agente non dovuto a diagnosticabili patologie mentali o disturbi gravi della personalità.

Una parziale modifica dell’assetto codicistico in tema di capacità di intendere e di volere dell’agente (e, quindi, indirettamente ma saldamente collegata alla disciplina degli stati emotivi e passionali dell’art. 90 c.p.), è intervenuta ad opera della Corte Costituzionale nel 2005 con la Sentenza c.d. “Raso” n. 9163 (alla quale sono giustamente dedicati intero trattati e che qui possiamo solo citare per la natura meramente divulgativa di questo breve scritto) che ha introdotto nel nostro ordinamento il principio secondo il quale non solo le patologie nosograficamente (ovvero secondo i canoni della medicina) inquadrabili e diagnosticabili possono influire sulla capacità di intendere e di volere; ma anche i disturbi della personalità se gravi e persistenti.
Basti qui accennare che – a differenza della malattia mentale propriamente detta che prima della Sentenza del 2005 era la sola evenienza che per il diritto poteva incidere sulla capacità di intendere e di volere del reo annullandola o affievolendola grandemente – i disturbi della personalità sono propri di coloro che hanno condotte non in sintonia con l’ambiente esterno (ovvero disadattive) in modo perdurante e totale con una pervasività tale da coinvolgere la sfera affettiva, cognitiva e interpersonale di chi ne è affetto.

Si tratta di un abitus psicologico (…la definizione è di chi scrive e non ha nessuna velleità di precisione scientifica) meno grave di quello proprio della malattia mentale e, per questo, tendenzialmente accettato e/o sopportato dal soggetto (che potrebbe anche ignorare di esserne affetto) che solitamente tende ad adattare la realtà esterna piuttosto che il proprio approccio ad essa.
E’ di tutta evidenza che la Corte Costituzionale ha – di fatto – ampliato (e, direi, aggiornato) il novero di quegli aspetti della psiche umana che il diritto (rectius: il Giudice) deve indagare e riconoscere nella valutazione dell’imputabilità dell’accusato (non più, come visto, solo la malattia mentale ma anche i disturbi della personalità che, comunque, la Corte ha precisato che per gravità, persistenza e pervasività devono essere tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere dell’agente).

Vediamo la massima della Sentenza in commento:
“….In tema imputabilità, la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso ed educativo che, afferendosi ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano sia del senso critico che di quello autocritico, e che agiscono come modulatori dell’istintualità e dell’impulsività. Ne consegue che l’indebolimento dei freni inibitori non incide sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull’imputabilità, laddove esso non dipenda da un vero e proprio stato patologico ovvero da “disturbi della personalità” che, pur non propriamente inquadrabili nel novero delle malattie mentali, integrino comunque una situazione di “infermità”, perché idonei per consistenza, intensità e gravità, di incidere concretamente sulla capacità di intendere o volere (Sezioni Unite, 25 gennaio 2005, Raso). Ciò perché gli stati emotivi e passionali, per loro stessa natura, sono tali da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente senza che ciò, tuttavia, per espressa disposizione di legge, possa escludere o diminuire l’imputabilità, occorrendo a tal fine un quid pluris che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transeunte e non inquadrabile nell’ambito di una precisa classificazione nosografica (da queste premesse, è stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna per il reato di resistenza e lesioni aggravate in danno di pubblico ufficiale con cui si sosteneva che l’intensa situazione di “stress emotivo, agitazione e paura” in cui si sarebbe trovato l’imputato avrebbe fatto venire meno la consapevolezza della condotta aggressiva).

(articolo redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla. Ne è vietata la riproduzione e l’utilizzo).

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