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Commentiamo oggi una recente Sentenza di merito – Corte di Appello di Taranto, sezione penale, sentenza 19 giugno – 18 settembre 2017 n. 546 – in tema di violenza sessuale aggravata ex art. 609 bis c.p. (aggravata ex art. 609 ter comma 5 quater: vedi oltre).
La massima racchiude alcuni elementi peculiari che caratterizzano le vicende processuali e procedurali (ovvero anche nel corso delle indagini preliminari) in tema di reati sessuali.

In tema di violenza sessuale, ai fini della sussistenza del reato, è sufficiente qualsiasi forma di costringi mento psicofisico, idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, non assumendo rilievo l’esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale tra le parti, né tantomeno la circostanza che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, subendoli, laddove risulti la prova che l’agente abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito da parte della vittima al compimento di atti sessuali, per le violenze e minacce poste in essere nei suoi confronti in un contesto di sopraffazione e umiliazione

Innanzitutto, si sottolinea l’aggravante ex art. 609 ter comma 5 quater c.p. (introdotta dalla Legge n. 119/2013) ovvero nei casi in cui l’accusato avrebbe commesso il reato nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.
La circostanza aggravante – come detto – è applicabile massimamente a quelle ipotesi criminose (come la violenza sessuale ma anche gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p.) contraddistinte solitamente da una relazione personale (per lo più sentimentale) tra asserito offender e asserita vittima.
Si deve quindi logicamente ed immediatamente dedurre che nel caso di sospetta violenza sessuale il pregresso o attuale legame sentimentale e/o matrimoniale della persona offesa con l’accusato non ridimensiona l’accusa ma, al contrario, determina un sensibile aumento della pena in caso di condanna.
La modifica del 2013 di cui trattiamo è stata introdotta dal Legislatore preso atto che molto spesso – statisticamente – il reato punito dall’art. 609 bis c.p. è denunciato proprio nel contesto di relazioni sentimentali (evidentemente problematiche) in atto o cessate (a tale proposito bisogna anche sottolineare che spesso risulta difficile provare nel corso del processo la natura del rapporto interpersonale intercorrente tra l’accusato e l’accusatrice: il fatto che facciano sesso significa che hanno una relazione sentimentale? E semmai, esiste un numero minimo di rapporti oltre il quale i due soggetti possono dirsi legati sentimentalmente? Perché l’aggravante sia fondata, occorre che i sentimenti dei due partner siano dagli stessi provati reciprocamente? Etc.).

La lettura della massima permette anche di evincere che, nel caso specifico, non esistono testimoni terzi degli accadimenti.
Gli stessi – la presunta violenza – si verificherebbero alla sola presenza della vittima e dell’accusato.
Si tratta di uno schema classico (ovvero numericamente assai frequente) nel caso dei reati sessualmente connotati: per la natura dell’incolpazione (o, meglio, del fatto storico cristallizzato nell’accusa) sono rarissimi i casi in cui altre persone assistono ad atti di violenza sessuale ovvero a condotte la cui illiceità è chiaramente immediatamente percepibile e che determinerebbe l’immediato intervento dei terzi medesimi e/o delle Forze dell’Ordine.
Il processo, quindi, in difetto di evidenze mediche oggettive (ad esempio i segni fisici di un rapporto forzato o tracce di costrizione), è connotato da una prova claustrofobica racchiusa nelle opposte versioni delle due parti: la vittima asserisce che si è trattato di un rapporto forzato (e può trattarsi di qualsiasi contatto indesiderato sessualmente connotato e, quindi, agito anche con modalità non invasive che non lasciano alcuna traccia reperibile e documentabile).
L’accusato o riferisce che il contatto non c’è mai stato oppure che lo stesso era voluto da entrambi.
Il Tribunale si trova così a dover sondare la credibilità delle due fonti di prova (le parti).
La difesa è nella scomoda e angusta posizione di dover demolire la ricostruzione della supposta vittima principale (se non unica) fonte della prova a carico.

A questo proposito si tenga presente che:
– L’apporto testimoniale della vittima è parificato in quanto a credibilità a quello di un testimone terzo (salvo un controllo, affermano alcune Sentenze, più approfondito se la persona si costituisce parte civile nel processo ovvero se chiede un risarcimento);
– La colpevolezza di un individuo (e, quindi, una Sentenza di condanna) può essere basata anche solo sulle dichiarazioni ritenute credibili della persona offesa (l’interpretazione è pluriconfermata da molteplici Sentenze della Corte di Cassazione).
Le peculiarità testé evidenziate (assenza di testimoni terzi, credibilità della persona offesa parificata a quella di un teste, unicità delle dichiarazioni della vittima quale prova per l’emanazione di una Sentenza di condanna) rendono obbiettivamente tecnicamente difficili i processi ove l’accusa è quella di violenza sessuale.
La posizione dell’accusato è delicatissima e potenzialmente foriera di conseguenze assolutamente gravi sul piano personale.
Senza contare che proprio per gli aspetti sopra evidenziati l’accusa di cui si tratta si presta a contestazioni strumentali da parte della persona offesa (come detto, legata spesso da un rapporto patologico con l’accusato) tese ad ottenere dei vantaggi indebiti (in termini risarcitori o in relazioni a cause civili pendenti soprattutto nel campo del diritto di famiglia).

La posizione dell’accusato, pertanto, risulta indubbiamente sbilanciata a sfavore tenuto anche conto di un diffuso verificazionismo degli investigatori tesi troppo spesso a raccogliere la conferma dell’accusa che elementi chiarificatori e reali della vicenda.

Verificazionismo che pare, per certi aspetti, contraddistinguere (almeno in parte) anche la massima in commento.
Ed invero, il richiamo nella stessa ad un diniego implicito ovvero non palesemente espresso da parte della vittima deve essere oggetto di alcune riflessioni.
Il dissenso della vittima – o, meglio, la consapevolezza del dissenso della vittima da parte dell’accusato – nel reato di violenza sessuale è un elemento costitutivo dello stesso e, pertanto, affinché il reato possa dirsi consumato, l’evenienza (che rientra nell’elemento soggettivo del reato ovvero nella sfera volitiva e conoscitiva dell’offender) deve essere oggetto di prova al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ciò posto, ritenere che anche un dissenso non manifestato possa implicare (senza dubbio alcuno, con certezza tranquillante anche al cospetto delle pene – giustamente – elevate previste per il reato in parola) che l’accusato abbia COMUNQUE percepito correttamente ed in maniera chiara il dissenso – non veicolatogli in quell’occasione – della persona offesa, rischia di generare il pericoloso meccanismo del “non poteva non sapere” ovvero della prova negativa quando, come noto, deve essere l’Accusa a dedurre le prove alla luce delle quali ritenere l’accusato colpevole (perché consapevole).

A ben vedere, nemmeno il contesto richiamato dalla massima (ovvero un clima in cui la persona offesa sarebbe stata vittima sistematica di sopraffazione da parte dell’agente) pare idoneo a superare la questione della prova della consapevolezza del dissenso (implicito) della vittima.
Ed invero, il processo penale ha per oggetto (rectius: dovrebbe avere per oggetto) un preciso e circoscritto fatto storico (anche nel caso di reato continuato non deve venire meno la precisione dell’indicazione dei fatti contestati); di tal che il difetto o meno dei requisiti del reato contestato deve essere verificato al momento stesso del compimento della condotta contestata nel capo di imputazione.
Utilizzare ed applicare l’assioma: “… dal momento che il più delle volte l’agente minacciava e sopraffaceva la vittima…. allora anche in quell’occasione, sebbene la persona offesa nulla osservasse, è sicuramente accaduto che la stessa sia stata costretta… “ vuol dire utilizzare una scorciatoia inferenziale omettendo di verificare l’esistenza effettiva e concreta in quel momento (nel momento dell’ipotizzato compimento della condotta di cui al capo di imputazione oggetto del giudizio) di tutti gli elementi costitutivi del reato.
Anche perché, come osservato, capita sovente che tra le due parti ci siano relazioni interpersonali, sentimentali, coniugali e sessuali di natura tale da impedire una disamina standardizzata basata, non tanto su quello che è accaduto in quella precisa situazione, bensì su quello che probabilmente alla luce dei trascorsi si sarebbe potuto verificare.

(Articolo redatto dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla. Ogni diritto riservato. Massima pubblicata su “Guida al Diritto – n. 9 del febbraio 2018).

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