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La letteratura scientifica ed ancora di più la cronaca si sono occupate di numerosi casi di gravissimi abusi sessuali collettivi a danno di minori ovvero la perpetrazione da parte di uno o più soggetti del predetto reato (nelle forme più varie) in danno di più minori contemporaneamente.

Per la particolarità del fenomeno (che vede, come detto, una pluralità di vittime abusate nei medesimi luoghi in un relativamente breve intervallo di tempo) esso si verifica (o, meglio, vi è il sospetto che si sia o si stia verificando) in quei luoghi ove i minori sono soliti passare il loro tempo al di fuori della famiglia ovvero la scuola e/o in strutture ed in momenti dedicati alla ricreazione ed allo sport (oratori, corsi estivi, colonie, palestre etc.) e, quindi, quando i bambini sono affidati alla cura, alla custodia ed alla vigilanza di adulti (evidentemente esterni alla famiglia) che ne hanno la responsabilità.
E’ un dato di fatto che quella dell’abuso collettivo è una realtà gravissima (sebbene la maggior parte dei casi di abuso sia statisticamente consumata ad opera di congiunti delle piccole vittime) che come tale viene – giustamente – percepita dai genitori che, peraltro, hanno spesso un ruolo di primo piano nella denuncia all’Autorità Giudiziaria di casi di sospetto abuso in danno dei proprio figli anche in situazioni oggettivamente ambigue riferitegli dai medesimi figli (Vedi oltre).
Il moltiplicarsi delle vicende giudiziarie in ambito di abusi sessuali collettivi perpetrati da adulti nei confronti di minori sottoposti alla loro cura ed educazione, ha portato – infatti – ad una diffidenza largamente diffusa nei confronti di coloro che per professione si prendono cura dei bambini anche in tenerissima età e non autosufficienti (si pensi agli alunni delle scuole primarie).
Proprio il ruolo dei genitori e la natura della loro interazione con i figli (in special modo, per quanto qui interessa, nel caso di bambini in età prescolare e scolare fino alle prime classi della scuola elementare) quale genesi delle accuse rivolte ad insegnanti, allenatori, educatori ed altre figure di riferimento per il minore, merita in questa sede una attenta riflessione che sarà anche l’oggetto dello stralcio qui commentato del capitolo n. 13 del trattato “Guida alla perizia in tema di abuso sessuale e alla sua criticadi G. Gulotta e I. Cutica (Collana di psicologia Giuridica e Criminale – Giuffrè Editore).
Ed invero, la comunicazione figli – genitori – genitori di altri bambini – altri bambini è molto spesso il veicolo con il quale vengono “scoperte”, elaborate, veicolate ed infine denunciate le accuse di asseriti abusi (che vedrebbero, appunto, le piccole vittime abusate da maestri, allenatori, docenti eccetera) che, in realtà, non sono mai avvenuti ma sono il frutto della paura dei genitori a fronte di un fatto ambiguo loro riferito dal bambino successivamente di nuovo “interrogato” con modalità e tempi suggestivi con il risultato di altre informazioni che verranno trasferite ad altri genitori di altri bambini che a loro volta interrogheranno in maniera inducente i figli e che poi riferiranno ad altri genitori con la realizzazione di una sorta di “telefono senza fili” e la conseguente creazione di un FATTOIDE ovvero un accadimento immaginario che si crede essersi effettivamente verificato.


Si tratta di una comunicazione contaminata studiata sotto il profilo psico-sociale che getta le sue radici nella innata (e, per certi aspetti, giustificata) paura dei genitori che i propri figli – indifesi poiché piccoli ed ingenui – siano esposti al pericolo concreto di un abuso sessuale.
Al verificarsi di un fatto ambiguo che potrebbe essere spiegato con una normale dinamica umana (il maestro che massaggia la pancia di una piccola alunna poiché dolorante o che prende la mano di un alunno con il quale è intento a leggere alla cattedra per evitare che il bambino giocherelli mentre legge, l’allenatore che ha un contatto fisico con l’allieva durante l’allenamento ….) il genitore (sentito il racconto neutro del figlio o dallo stesso rivestito per un fraintendimento con connotazioni di carattere larvatamente sessuale) è portato ad allarmarsi proprio a fronte dell’innata paura dell’abuso e, di conseguenza, a porre delle domande allarmate al figlio che il più delle volte (soprattutto se piccolo) tenderà a rispondere positivamente e ad aderire alle “aspettative” del genitore che, dal canto suo, porrà suo malgrado domande altamente suggestive (ti ha toccato anche altrove? Ti ha dato fastidio? Ti ha toccato vicino alla patatina/culetto/pisellino?) le cui risposte lo allarmeranno sempre di più.
A seguito del colloquio, il genitore contatterà un altro genitore (di un bambino che frequenta lo stesso corso, la stessa classe etc.) che a sua volta – allarmato – porrà altre domande suggestive al proprio figlio riferendo le risposte sia a colui che l’ha chiamato sia, a sua volta, ad altri genitori; e così via con un vero e proprio dilagare di comunicazioni che formeranno una realtà passata mai accaduta partendo da un fatto accaduto (il massaggio, il contatto, l’innocente carezza etc.) con la realizzazione di un “fattoide” gravissimo che diverrà accusa e poi processo.
La vulnerabilità dei bambini, la convinzione di un pericolo imminente più di quanto non lo sia, la paura dell’abuso, il desiderio di proteggere sempre e comunque i figli, portano i genitori ad indagare in maniera non corretta di tal che qualsiasi risposta dei figli – interpretata in maniera verificazionista – sembra confermare il sospetto:

se il racconto è vago, il bambino si vergogna;

se non racconta, è reticente;

se racconta, allora è accaduto;

se è impreciso, è comprensibile;

se riporta particolari inverosimili, comunque qualcosa deve essere successo.
Un fatto neutro diviene un fattoide ovvero un evento che attraverso fraintendimenti (magari degli stessi bambini che interpretano – e poi riportano ai genitori – in maniera erronea), suggestioni, costruzioni di realtà parallele assume le sembianze di un fatto realmente accaduto tramite un vero e proprio CONTAGIO CONTAMINANTE tra le dichiarazioni dei figli ai genitori e viceversa.
Si tratta di un fenomeno, come detto, studiato dalla psicologia sociale che si può riassumere con uno schema:
La paura della pedofilia fa da scenario ad un fatto potenzialmente ambiguo (ti fermo la mano mettendola sulla mia gamba, ti massaggio la pancia e/o la schiena, ti tocco mentre ti alleno etc.);
Gli alunni (preimpuberi che stanno scoprendo la sessualità e le pulsioni ad essa connesse e che cominciano a sentire le sensazioni anche di vergogna legate alle pulsioni sessuali e che non riescono a “inquadrare” correttamente il gesto) formulano anche in via superficiale e residuale una ipotesi di abuso da parte del Prof./docente/allenatore;
Questa ipotesi è comunicata alle altre professoresse e ai genitori;
Professoresse e genitori allarmati fanno domande ai bambini;
Il bambino risponde in maniera confusa e non esauriente poiché coniuga la realtà – la mano sulla gamba etc. – a come la ha percepita ovvero come un gesto con connotazioni sessuali (dove mi mette questa mano???);
Il genitore ed i professori si allarmano e fanno altre domande intrusive;
Il bambino allora arricchisce le risposte assecondando l’interrogante “dalla sua parte” con delle ammissioni pilotate proprio dalle domande dell’adulto di riferimento (genitore o insegnate);
I genitori ancora più allarmati comunicano tra di loro (oggi come oggi anche per mezzo di diverse chat!);
Gli altri genitori raggiunti dalla notizia interrogano i loro figli;
Qualsiasi siano le risposte dei bambini – dal momento che la segnalazione arriva da altri genitori e non possono che essere vere – le pressioni si fanno ancora più forti;
Compaiono altri particolari ed altre storie;
A questo punto le comunicazioni fra genitori e fra genitori e figli diventano incontrollate. Non si capisce più chi ha detto cosa e chi ha visto cosa.

IL CONTAGIO E’ COMPIUTO E CIO’ CHE SI TEME DIVIENE REALTA’ PSICOLOGICA.

Nessuno in sostanza ha visto nulla che vada oltre l’ambiguo non penalmente rilevante ma il contagio ha costruito un fattoide mascherato da realtà.

Ecco che un fatto non vero (la molestia, l’abuso) diviene vero nei suoi effetti perché il fattoide generato dalla paura, dalle suggestioni e dal fraintendimento prende il posto della realtà.
Si tratta purtroppo di meccanismi psico-sociali (che divengono anche giuridici e giurisdizionali) tutt’altro che rari generanti accuse gravissime e processo che – anche solo per la loro celebrazione al di là dell’esito – divengono e sono epr l’accusato (ed i suoi cari) una pena insopportabile.
L’accusa diviene un monolite dalle diverse facce (una per ogni dichiarazione di bambini e genitori) difficile da scalfire poiché nell’aula aleggia sempre il sospetto dell’abuso (figlio della paura dell’abuso stesso) e la certezza che è impossibile che i bambini si “inventivo” una storia così elaborata e che ogni versione (per ogni supposta vittima) sia così somigliante alle altre e con dei punti di indubbio contatto.
Ma è proprio il contagio e la contaminazione nella comunicazione genitori/figli e genitori/genitori e figli/genitori che genera le similitudini dei diversi racconti poiché sollecitati dagli adulti con domande suggestive tese a confermare una tesi (condivisa tra i genitori) piuttosto che a verificarla; domande che veicolano ai bambini suggerimenti ed informazioni (quegli aspetti comuni dei racconti dei bambini) e che i piccoli confermano poiché pressati dagli interrogativi allarmati di mamma e papà.

La materia è stata trattata dall’Avv. Giuseppe Maria de Lalla, il quale avendo seguito diversi casi, propone la lettura del capitolo “Fatti e fattoidi negli abusi sessuali collettivi su minori” pubblicato sulle pagine del volume sopra citato.

Capitolo 13
GLI ABUSI SESSUALI COLLETTIVI
di Guglielmo Gulotta
SOMMARIO: 1 Introduzione – 2 L’emblema dell’orco – 3 La perizia di abuso sessuale collettivo: i parametri distintivi.

1 Introduzione
Nella letteratura scientifica internazionale, soprattutto nord-americana, sono descritti casi – verificatisi a partire dagli anni ’80 del secolo scorso – di denunce relative a presunti abusi sessuali collettivi consumati su minori all’interno di istituti scolastici, allarmi poi rivelatisi del tutto infondati, ma propagatisi come virus in grado di gettare nello sconcerto, per lunghi periodi, intere cittadine: alcune di queste situazioni, tra cui il noto caso Mc Martins, sono state sinteticamente descritte nei capitoli 2 e 7.
Al momento della stesura della prima edizione di questo libro, in Italia il fenomeno era ancora in una fase per così dire << embrionale>>, mentre nell’arco di pochi anni si è prorogato in tutta la sua virulenza. A partire dai primi anni 2000, le denunce per questo genere di reato si sono infatti moltiplicate coinvolgendo moltissime scuole e in qualche caso addirittura intere città, infestate dal sospetto circa l’esistenza di organizzazioni pedofile radicate all’interno delle scuole d’infanzia e dedite al sistematico abuso e sfruttamento sessuale dei piccoli alunni: è proprio a partire dall’analisi di situazioni reali che mi sono avvicinato ad un argomento umanamente e scientificamente tanto complesso.
Prima ancora che come studioso mi sono infatti occupato professionalmente di alcune situazioni in qualità di avvocato difensore degli imputati , incuriosito e persuaso quasi immediatamente ad accettare l’incarico della <> dei presunti rei, una tipizzazione che mi appariva insolitamente stridente rispetto alla natura delle accuse, nonché dagli scenari – davvero anomali – che venivano delineati dalla pubblica accusa: la prima volta si trattava di due religiose molto anziane e malate – da sempre impegnate nella scuola materna dove si presumeva fossero stati consumati indicibili abusi su 8 piccoli alunni (Liberatore, 2009); vi fu poi la vicenda di una giovane novizia in grado, secondo i denuncianti, di rapire classi intere di bambini dall’asilo, sottraendosi al controllo delle altre insegnanti, per condurli in luoghi teatro di atroci abusi e sevizie; vi fu poi il caso di una maestra a fine carriera, rispettabilissima madre di famiglia, accusata di aver abusato, in un’unica occasione, di tutti i suoi 23 piccoli alunni conducendoli con un misterioso pulmino presso la sua abitazione e altri ancora …
Il comune denominatore era quindi una decennale e specchiata carriera nell’ insegnamento e nella cura dei bambini (maestre, bidelle, direttrici scolastiche, educatrici …)storie di vita apparentemente normali improvvisamente lacerate da accuse gravemente infamanti che non trovavano però alcun riscontro nelle risultanze investigative: gli esiti delle intercettazioni, delle perquisizioni, dei sequestri, degli accertamenti medico-legali sulle presunte piccole vittime erano costantemente negativi.
D’altro canto, però, vi era un altro comune denominatore, altrettanto importante: in tutte le situazioni da me incontrate, i genitori dei piccoli alunni non avevano alcuna ragione di voler accusare falsamente le insegnanti dei loro bambini; si trattava di persone realmente persuase che i loro figli avessero subìto molestie nell’ambiente scolastico e per tale ragione profondamente sconvolte e altreì decise ad ottenere <> .
Fin da subito l’impegno professionale ha quindi trasceso le esigenze difensive: l’infettività delle situazioni incontrate mi ha obbligato a interrogarmi a proposito dei meccanismi psicologici e sociali posti alla base delle vicende e il ripetersi di alcune costanti mi ha consentito di delineare alcune ipostesi atte a spiegare come possa avvenire la costruzione sociale di un’accusa così grave sebbene infondata. Con questo non intendo certo affermare che accuse del genere debbano ritenersi sempre e comunque senza alcun fondamento: ogni vicenda richiede al contrario indagini attente e puntuali. Sono però persuaso che il rischio di falsi positivi sia in questo genere di situazione estremamente alto e che l’indagine intorno a tali vicende necessiti di particolari cautele e attenzioni.
Le medesime raccomandazioni e indicazioni del resto provengono dal mondo scientifico e accademico. Il moltiplicarsi delle vicende giudiziarie ha indotto gli esperti del settore a interrogarsi e ricercare il confronto sugli aspetti più delicati di una valutazione tanto complessa, a studiarne meccanismi e peculiarità e infine a stilare – al termine del Simposio tenutosi a San Servolo dal 21 al 23 settembre 2007 – il Protocollo di Venezia (appendice C), ovvero delle linee guida – nate dal confronto e dall’apporto interdisciplinare di psicologi, avvocati, neuropsichiatri infantili, criminologi e responsabili di servizi di salute mentale e di tutela all’infanzia – per affrontare correttamente le situazioni di presunto abuso sessuale collettivo: rispetto ai casi di denunce individuali – già estremamente delicate da investigare – si registrano infatti differenze e peculiarità che necessitano, da parte dell’esperto chiamato a valutare il caso, di accorgimenti specifici. Così, il Protocollo di Venezia delinea e specifica, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, le linee guida alle quali gli esperti dovrebbero attenersi nell’affrontare casi di abuso sessuale collettivo su minore. L’assunto imprescindibile riguarda la necessaria attenzione che deve essere posta al contesto: gli abusi sessuali collettivi richiedono per le loro caratteristiche un preliminare e ineludibile intervento conoscitivo del contesto in cui si assume abbiano avuto origine gli stessi. Altro cardine della valutazione è rappresentato dalla ricostruzione della genesi del primo sospetto, delle eventuali reciproche influenze nelle dichiarazioni e delle modalità di diffusione della notizia.

Va infine sottolineato che molti dei principi affermati da tale protocollo sulla base delle risultanze scientifiche provenienti dalla letteratura internazionale sono stati ormai recepiti anche dalla nostra giurisprudenza: recenti sentenze della Corte di Cassazione (Cass. Sez. III 121/07; Cass. Sez. III 852/07; Cass. Sez. 02204/07) hanno infatti fissato dei parametri cui i giudici devono attenersi nella valutazione della testimonianza dei minori nei reati di abuso sessuale e nella valutazione dei casi di presunto abuso collettivo, dove il rischio di influenze suggestive e contagio sociale si moltiplica (Gulotta, 2007). Secondo la Cassazione <> (Cass. Sez. III 852/07).

(introduzione dell’Avv. Giuseppe Maria de Lalla e del Collaboratore di Studio Omar Raja. Ogni diritto riservato)

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