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Pubblichiamo di seguito un ulteriore approfondimento in tema di atti persecutori (stalking) ex art. 612 bis c.p..

Il tema trattato in questa sede riguarda:

La trattazione dei temi di cui sopra prende le mosse (come gli altri articoli di questo approfondito speciale dedicato al reato di atti eprsecutori ex art. 612 bis c.p.) prende le mosse da un articolato intervento pubblicato su “Polizia Moderna” a firma di Irene Scordamaglia (Consigliere della Suprema Corte di Cassazione) e Laura Pagliuca (tirocinante presso la Suprema Corte di Cassazione).

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Atti persecutori. L’elemento soggettivo (o psicologico) dell’offender; le circostanze aggravanti

L’elemento soggettivo del reato ovvero lo stato mentale e volitivo di colui che delinque.
Ai fini della configurabilità del delitto di atti persecutori si richiede la sussistenza di un dolo generico, consistente:

a) nella coscienza e volontà di porre in essere singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che ogni nuovo comportamento si aggiunge ai precedenti, dando vita ad un vero e proprio “sistema di comportamenti assillanti e vessatori” (1);

b) nella coscienza dell’idoneità delle condotte a realizzare uno degli eventi descritti dalla norma (2).

Stante la natura di reato abituale del delitto di atti persecutori, si richiede un dolo unitario, in cui l’intenzione criminosa travalichi i singoli atti che compongono la condotta tipica; tuttavia, secondo pacifica giurisprudenza di legittimità, non si pretende la preesistenza del dolo fin dal primo degli atti posti in essere dall’autore, potendo questi atti essere, in tutto o in parte, meramente casuali e realizzati solo ove se ne presenti l’occasione (3).
Secondo la Suprema Corte (4), infatti, il dolo può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi.
Non occorre, in altri termini, una rappresentazione anticipata del risultato finale, ma, piuttosto, la costante consapevolezza, nel progressivo sviluppo della situazione, dei precedenti attacchi e dell’apporto che ciascuno di essi arreca all’interesse protetto (5).

Le circostanze aggravanti.
Il secondo e il terzo comma dell’art. 612 bis c.p. prevedono, rispettivamente, una circostanza aggravante ad effetto comune e una circostanza aggravante ad effetto speciale.
Ai sensi del secondo comma la pena, nel minimo di sei mesi e nel massimo di cinque anni, “è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva (6) alla persona offesa (7) ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. Tale disposizione è stata modificata con il dl. 14 agosto 2013, n. 93, convertito dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119, con cui il legislatore ha inteso accogliere le critiche che erano state mosse dalla dottrina alla norma nella sua originaria formulazione.
Prima del 2013, infatti, l’operatività della circostanza aggravante era limitata all’ipotesi del fatto commesso da coniuge legalmente separato (8), con conseguente irragionevole esclusione del coniuge separato solo di fatto e a quella del fatto commesso da un soggetto che solo in passato avesse avuto una relazione con la vittima, lasciando fuori l’ipotesi della relazione ancora in corso.
La seconda circostanza aggravante ad effetto speciale è prevista dal terzo comma, a mente del quale “la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata”.

Naturalmente, in questo caso, l’aggravante opererà solo ove le condizioni soggettive della vittima siano conosciute dall’agente ovvero se questi colpevolmente le ignori.
La l. n. 38 del 2009 ha anche riformulato l’aggravante del reato di omicidio doloso previsto al n. 5.1. dell’art. 576 cp, stabilendo la comminatoria dell’ergastolo nell’ipotesi in cui il delitto venga realizzato “dall’autore del delitto previsto dall’art. 612 bis c.p. nei confronti della stessa persona offesa.” (9).

Stante l’ambiguità della norma, la dottrina ha chiarito che l’aggravante opera solo se la vittima del reato di omicidio sia la stessa degli atti persecutori (10), evitando così un’interpretazione eccessivamente ampia della norma, che la renda applicabile nel caso in cui le due vittime dei reati non coincidano. Inoltre è necessaria una connessione tra i due illeciti, tale per cui l’omicidio possa essere interpretato come l’ultimo, tragico atto della serie persecutoria.
Un’ultima circostanza aggravante è prevista dall’art. 8 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni in legge 23 aprile 2009, n. 38, nel caso in cui gli atti persecutori siano stati commessi da un soggetto che fosse stato in precedenza ammonito dal questore.

Tassatività e determinatezza alla luce della sentenza n. 171/2014.
Fin dall’entrata in vigore della l. 23 aprile 2009, n. 38, l’art. 612 bis c.p. ha destato l’attenzione di dottrina e giurisprudenza sul dato della sua insoddisfacente, perché generica, formulazione letterale. Nonostante gli sforzi del legislatore, la nuova fattispecie incriminatrice si caratterizza per una molteplicità di espressioni e concetti ambigui, generici, polisenso e indeterminati.
A ben vedere, nella specifica ipotesi del delitto de quo, la oggettiva difficoltà di delineare una figura di reato pienamente rispettosa dei principi di tassatività e determinatezza, dipende dal fatto che lo stalking è un fenomeno estremamente complesso, che pone il legislatore di fronte alla difficile operazione di conciliare la realtà criminologica, spesso polimorfa e caratterizzata dalla reiterazione di singole condotte di per sé inoffensive, con l’esigenza di descrivere una norma che sia conforme ai principi di tassatività, precisione e determinatezza (11).
Proprio in considerazione delle perplessità sollevate in dottrina e in giurisprudenza, su eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Trapani (con l’ordinanza del 24 giugno 2013, n. 284), per violazione dell’art. 25, co. 2 Cost, nella specifica forma del principio di determinatezza della norma penale, la Corte Costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 172 del 2014, ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell’art. 612 bis c.p., ritenendo la norma pienamente conforme al principio di determinatezza e fornendo la chiave interpretativa della nuova disposizione.

All’uopo, il Giudice delle leggi, richiamata la sentenza n. 282 del 2010, ha suggerito l’utilizzo di un “metodo di interpretazione integrato e sistemico”, per il quale, allo scopo di verificare il rispetto del principio di determinatezza, “occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce”.

Così, l’elemento della “reiterazione” non va valutato ex se, ma con riferimento ai tre eventi tipizzati dalla norma: la condotta è reiterata – e, dunque, l’estensione temporale degli atti e il loro numero sono sufficienti ai fini della configurabilità del reato- quando il comportamento posto in essere dall’autore abbia determinato almeno uno degli eventi alternativamente previsti dalla fattispecie e la conseguente lesione del bene giuridico protetto.
A tal proposito la Consulta ha specificato che, per dirsi realizzato il reato, non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi, né basta l’astratta idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita della vittima.
Quanto alla condotta di minaccia e molestia, invece, l’interprete ha a propria disposizione la ricca e robusta tradizione interpretativa elaborata nel corso del tempo da dottrina e giurisprudenza, con riferimento ai delitti di cui agli artt. 612 e 660 cp ed è a questa che deve ricorrere nell’analisi del nuovo delitto di atti persecutori, in quanto essa costituisce la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili e riscontrati nella realtà.
Per ciò che riguarda il “perdurante e grave stato di ansia e paura” e il “fondato timore”, la Corte Costituzionale ha chiarito che, per quanto siano riferibili alla sfera psichica dell’individuo, essi non appaiono in contrasto con il principio di determinatezza, in quanto suscettibili di essere provati nella realtà e nel processo, attraverso il ricorso a massime di esperienza, nonché attraverso l’osservazione di segni ed indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente.
Secondo la lettura offerta dal Giudice delle leggi, la prova del disequilibrio psichico della vittima è ricavabile dalle dichiarazioni della vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta, dalle sue particolari condizioni soggettive, purchè note all’agente e dunque rientranti nell’oggetto del dolo. Inoltre, l’utilizzo dei termini “grave e perdurante” e “fondato” sono finalizzati a circoscrivere ulteriormente l’area del penalmente rilevante, in modo da escludere la consistenza di “ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata, sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi”.

In questo senso, nella individuazione dell’area del penalmente rilevante, la Corte utilizza il principio di offensività quale canone interpretativo indispensabile cui il giudice deve fare ricorso per circoscrivere l’area della tipicità.
Infine, il riferimento all’ “alterazione delle abitudini di vita” costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito sociale, lavorativo e familiare e che la vittima è costretta a mutare in seguito all’intrusione dello stalker, il quale, necessariamente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato il mutamento cui la persona offesa si sente costretta.

Note:

[1] In questo senso A. MAUGERI, “Lo stalking tra necessità politico-criminale”, cit., p. 171; L. PISTORELLI, “Nuovo delitto di atti persecutori”, cit., p. 168.

[2] Sez. 5, n. 18999 del 19.2.2014, Rv. 260411: “Nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice”.

[3] Sez. 5, n. 43085 del 26.10.2015, Rv. 265230.

[4] Sez. 5, n. 18999 del 19.2.2014, Rv. 260411.

[5 Sez. 5, n. 20933 del 27.11.2012, Rv. 255436.

[6] Particolarmente criticato in dottrina è stato l’utilizzo della locuzione “relazione affettiva”, in quanto eccessivamente generica e destinata a ricomprendere una serie indeterminata di ipotesi, con possibile conseguente collisione con il principio di tassatività. Si ritiene che debbano rientrarvi le relazioni di carattere sentimentale, a prescindere dal fatto che vi sia stata o meno convivenza more uxorio.

[7] La ratio di questa circostanza aggravante va senza dubbio rinvenuta nella maggiore vulnerabilità della persona offesa nel caso in cui le condotte persecutorie siano poste in essere da persone alle quali la vittima sia, o sia stata, legata da precedenti o ancora sussistenti rapporti affettivi. Cosi, G. FIANDACA, E.MUSCO, “Diritto penale, parte speciale”, cit., p. 235, i quali mettono in evidenza l’opinabilità della scelta di politica criminale, posto che, nella prospettiva dell’agente, la persecuzione finalizzata a recuperar un legame perduto potrebbe essere sintomatica di una più attenuata colpevolezza.

[8] Tale limitazione veniva giustificata dall’argomento secondo il quale il fatto commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato esprimesse un disvalore maggiore, perché manifestazione della mancata accettazione da parte dello stalker della fine del rapporto. In realtà tale argomento non convince perché, da un lato, trova ostacolo nella lettera della norma che non fa alcun riferimento ai motivi che hanno spinto l’agente ad attuare i comportamenti persecutori, bastando, al fine dell’operare dell’aggravante l’oggettiva esistenza di un pregresso rapporto finito per effetto di una pronuncia giudiziale; dall’altro lato, perché non spiega le ragioni dell’esclusione dell’ipotesi in cui la separazione sia soltanto di fatto.

[9] La S.C. ha affermato il principio secondo il quale “L’aggravante di cui all’art. 576, comma primo, n. 5.1.cp – e cioè l’aver commesso il fatto da parte di chi sia l’autore del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. nei confronti della stessa persona offesa- è configurabile nel caso di improcedibilità del reato di atti persecutori per mancanza di querela ed anche in assenza di una precedente condanna dell’imputato per detto reato.” (Sez. 1, n. 4133 del 15.12.2015, Rv. 267430)

[10] S. GIANNANGELI, “Aspetti critici e aspetti innovativi del nuovo reato”, cit.; L. PISTORELLI, “Nuovo delitto di atti persecutori”, cit.

[ 11] D’altronde tale problema è fortemente sentito anche in quegli ordinamenti-come quello tedesco- in cui si è scelto di enumerare le ipotesi di persecuzione riconducibili allo stalking attraverso un criterio casistico. Anche in questo caso, il legislatore d’oltralpe si è dovuto scontrare con il dato fattuale della pressochè impossibile anticipazione in astratto delle infinite ipotesi verificabili in concreto e ha dovuto prevedere una clausola di chiusura “ ad analogia esplicita”, che attraesse nel perimetro della rilevanza penale, oltre alle condotte tipizzate, anche ogni “altro comportamento assimilabile”.

 

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