Il concetto medico di capacità di intendere e di volere si discosta da quello prettamente Giuridico. La Corte di cassazione precisa le differenze tra le due interpretazioni e la necessità di una perizia anche a fronte del Giudice peritum peritorum.
Riporto con piacere qui sotto un interessante articolo pubblicato sul mensile “Polizia Moderna” del mese di dicembre del 2023 a firma della Dottoressa CHIARA GERMANI – commissario capo tecnico –
Il titolo dell’articolo “IL DNA AL SERVIZIO DELLE DONNE – COME LE TECNOLOGIE DEI LABORATORI DELLA POLIZIA SCIENTIFICA GIUNGONO A IDENTIFICARE IL PROFILO GENETICO DELL’AUTORE DI UNA VIOLENZA SESSUALE” chiarisce immediatamente l’argomento dello stesso ovvero come la corretta analisi del codice genetico del presunto sex offender possa (e di molto) aiutare gli investigatori nell’individuazione del colpevole anche e soprattutto tenendo presente la Banca dati del Dna istituita dal Legislatore nel 2009 con la Legge n. 85 (ugualmente trattata in un box compreso nell’articolo della Dottoressa Germani).
Anche i non addetti ai lavori hanno evidentemente contezza di come l’analisi del Dna individuato, isolato e repertato sulla scena del crimine (che, nel caso della violenza sessuale, è proprio il corpo della vittima) ed il confronto con quello di un possibile sospettato, sia la chiave di volta per escludere la responsabilità dell’accusato oppure, al contrario, il sigillo della sua condanna.
La cronaca degli ultimi anni ci riporta diversi famosissimi casi in cui l’esame e la comparazione del Dna è stata l’architrave del coacervo accusatorio: Bossetti è stato condannato alla luce del suo Dna trovato sulla vittima (e ancora si parla della discrepanza del Dna mitocondriale), Stasi è stato riconosciuto colpevole anche e soprattutto alla luce del Dna della vittima sui pedali della famigerata bici (gli elementi probatori in questo caso erano comunque anche altri ma il Dna ha svolto un ruolo chiave) e l’assenza dello stesso sotto le suole delle sue scarpe e su tappetini dell’auto, Sollecito è stato a lungo incarcerato e poi assolto a causa della contaminazione di una traccia di Dna sul gancetto del reggiseno della vittima, Olindo Romano (e siamo alla più stretta attualità in pendenza della richiesta di revisione) è stato ritenuto colpevole (e con lui la moglie) anche – ma non solo. Lo sappiamo – per la famosa macchia di sangue (invisibile ad occhio nudo) sul battitacco della sua auto.
E molti altri casi meno famosi e meno drammatici ci darebbero la conferma di come l’analisi del codice genetico rinvenuto sulla scena del crimine segni spesso l’individuazione del colpevole.
La fase delle indagini e quella di merito del processo si “riducono” (termine che non vuole essere riduttivo ma che indica la limitatezza dell’accertamento giudiziario della vicenda umana nel corso della quale si è consumato il reato) all’analisi delle modalità di individuazione, repertamento, rispetto della catena di custodia, amplificazione e comparazione del Dna estratto dalle tracce biologiche rinvenute sulla scena del crimine.
Ed in una percentuale altissima il Dna non mente: l’Innocence Project, negli Stati Uniti, dalla sua fondazione nel 1992 ad oggi ha letteralmente salvato dall’esecuzione capitale o dall’ergastolo oltre 160 detenuti molti dei quali proprio grazie ad un tardivo ma provvidenziale esame del Dna.
Ciò posto, riconoscendo la validità, l’elevatissima efficacia e l’insostituibile utilità dell’esame del codice genetico nel campo delle investigazioni, occorre tenere sempre ben presente (massimamente devono farlo i Pubblici Ministeri ma, ovviamente per le medesime ragioni ma di tenore opposto, anche i Difensori) alcune strutturali fragilità investigative proprie dell’analisi e della comparazione del Dna.
Invero, vi sono alcuni aspetti dell’analisi del Dna in ambito forense (e degli aspetti anche pratici ad esso collegati) che dovrebbero sempre essere tenuti ben presenti per non incorrere in errori di giudizio e di valutazione che, il più delle volte, si traducono in errori investigativi e/o giudiziari a scapito dell’accusato.
Si tratta di bias o di approcci investigativi contraddistinti da una visione a tunnel degli inquirenti causata proprio dalla diffusa impressione che proprio il Dna sia la soluzione infallibile (o quasi), relativamente veloce e non sconfessabile di indagini che, altrimenti, in difetto del supporto del codice genetico, sarebbero lunghe, dispendiose, difficili e incerte.
In verità, e con uno sguardo ed una riflessione più approfonditi al tema dell’esame del Dna e della sua comparazione in ambito investigativo e, più in generale, forense, sono plurimi gli aspetti di estrema delicatezza che rendono la prova genetica ben lontana da quella infallibilità che troppo superficialmente e troppo spesso le si attribuisce.
Vediamone alcuni:
– Innanzitutto, la prova genetica NON E’ DATABILE.
Quando viene rilevata una traccia organica (sudore, sperma, feci, sangue e ogni altro elemento biologico dal quale è possibile ricavare la mappa del Dna) soprattutto se latente e, quindi, invisibile ad occhio nudo, non è possibile individuare e stabilire il momento in cui quella traccia è stata lasciata in quel sito (luogo o distretto corporeo o oggetto che sia).
Certamente, altri elementi rinvenibili sulla scena del crimine o in sede autoptica potranno dare una indicazione del lasso di tempo in cui il supporto su cui è rinvenuta la traccia si trova in un dato luogo e quanto tempo è trascorso dalla commissione del crimine (ad esempio, nel corso dell’autopsia, esaminando le evidenze tanatologiche, il medico legale incaricato potrà individuare l’arco temporale in cui si è verificato il decesso della vittima); ma, in ogni caso, sarà impossibile specificare QUANDO quella traccia di Dna si è prodotta ed è comparsa nel luogo in cui è rinvenuta (tornando al nostro esempio, il medico legale ed i biologi forensi non potranno in alcun modo individuare la data in cui si è verificato quel preciso trasferimento del Dna repertato).
Come detto, questo aspetto dell’impossibilità della datazione del trasferimento è insuperabile quando la traccia è rilevabile solo con gli appositi strumenti (tipo luminol, luce radente, luce ultravioletta).
– Il principio di interscambio del Criminologo e Criminalista francese del ‘900 Edmond Locard per il quale: “Due soggetti che entrano in contatto lasciano sempre qualcosa di sé sull’altro e così avviene quando è commesso un crimine” ha ancora oggi dopo oltre due secoli una validità incontestabile.
E’ veramente difficile che la commissione di un crimine – in special modo quando non è premeditato e ben pianificato – non comporti che vittima ed offender reciprocamente si scambino tracce identificative: liquidi biologici, tracce di pelle, peli, capelli ed anche impronte digitali (anche se queste ultime sono molto difficili da rilevare sulla pelle umana).
A ciò si aggiunga l’inevitabile interscambio con l’ambiente circostante ovvero la scena del crimine primaria e secondaria: anche in questo caso liquidi biologici, impronte, impronte digitali e palmari solo per fare alcuni esempi.
Tuttavia, IL FATTO CHE SIA AVVENUTO UN INTERSCAMBIO – identificabile con il rilevamento e l’analisi del Dna repertato – NON IMPLICA AUTOMATICAMENTE CHE IL SOGGETTO IDENTIFICATO (o perché ha lasciato le sue tracce sulla vittima e e/o sulla scena del crimine oppure poiché su di esso vengono rinvenute tracce biologiche della vittima) SIA L’AUTORE DEL CRIMINE.
Ed invero, lo scambio può essere avvenuto, non solo in tempi diversi rispetto al crimine consumato (vedi sopra in tema di datazione), ma anche in un contesto assolutamente legittimo.
Questo vale massimamente nei casi di reati sessuali per i quali le tracce biologiche rinvenute non determinano se effettivamente vi sia stata violenza o meno.
Va da sé che, al contrario, in alcuni casi, per la natura della traccia e per il distretto corporeo in cui è rinvenuta, non è possibile dare altra spiegazione logica dell’interscambio se non quella della commissione del reato da parte del soggetto identificato tramite il Dna. Si pensi, ad esempio, a tracce di liquido seminale (la natura della traccia) repertate vicino o all’interno degli organi genitali di una minore degli anni quattordici (il distretto corporeo del repertamento).
In generale, in ogni caso, se non ci sono evidenze univoche di segno contrario, il “semplice” interscambio NON E’ INTERPRETABILE SOLOO ED UNIVOCAMENTE CON L’IDENTIFICAZIONE DEL COLPEVOLE.
– LA CONTAMINAZIONE delle tracce di Dna è un fenomeno assolutamente diffuso che ha generato anche errori giudiziari in tempi recenti come nel caso del famoso gancetto del reggiseno sul quale veniva repertato il Dna di Raffaele Sollecito poi rivelatosi (grazie al filmato dei sopralluoghi effettuati della Polizia scientifica) una contaminazione e si pensi, altresì, all’attuale caso del delitto di Erba nel quale sembrerebbe che una macchia latente di sangue rinvenuta sul battitacco anteriore dell’auto di Olindo Romano, sia una contaminazione verificatasi per disattenzione di uno degli operanti.
La catena di custodia e controllo dei reperti da analizzare è di importanza fondamentale perché non si verifichino contaminazioni e trasferimenti di molecole di Dna.
Ancor prima, è la repertazione della traccia che deve avvenire con ogni accortezza affinché non si contamini: l’operatore deve indossare guanti e sopra scarpe sterili (le conosciute tute bianche della Polizia scientifica) che vanno cambiati (almeno i guanti) ad ogni prelievo, l’oggetto – se da imbustare – deve essere maneggiato eventualmente con pinzette sterili e la busta deve essere di carta nel caso di presumibili liquidi biologici onde evitare che nella busta di plastica si sviluppi condensa. Se è possibile è sempre indicato asportare l’oggetto sul quale effettuare il prelievo (dopo aver individuato la traccia biologica con il luminol) in ambiente di laboratorio. A questo scopo è sempre indicato asportare porzioni di rivestimenti, pavimenti, tendaggi ed effettuare l’analisi in laboratorio.
Si tratta, in generale, di rispettare tutti quei protocolli riconosciuti dalla letteratura scientifica e dalla migliore prassi come necessari per evitare che si verifichi il pericolosissimo fenomeno della contaminazione e del trasferimento (che altro non è che una particolare forma di contaminazione ove, appunto, si verifica lo spostamento di materiale biologico da un sito ad un altro ove non era inizialmente presente).
In tema di contaminazione, davvero esemplare e drammaticamente significativo è quanto avveniva in Germania a far data dal 1993 anno a partire dal quale si verificavano tre omicidi ed un tentativo di omicidio inizialmente attribuiti ad una ignota donna senza volto il cui Dna veniva repertato sulla scena dei tre omicidi.
Solo nel 2009 e dopo diciotto milioni di euro investiti per le indagini, si comprese che “l’assassina senza volto” altri non era che una impiegata della ditta che fabbricava i tamponi distribuiti alle Polizie scientifiche di mezzo mondo per effettuare i prelievi.
Insomma, il Dna (o, meglio, la sua ricerca, repertazione, amplificazione, analisi e comparazione) come mezzo di ricerca della prova assolutamente fondamentale per le indagini e in special modo per l’identificazione del colpevole ed anche, evidentemente, l’esclusione del sospettato.
Ma tutto questo a patto che:
– Ogni procedura per mantenere l’integrità del reperto e della traccia sia rispettata;
– L’investigatore non si lasci tentare dall’apparente infallibilità dell’analisi della traccia biologica per l’individuazione del colpevole.
Da ultimo, un cenno alla Banca Dati Nazionale del Dna istituita con la Legge del 30 giugno 2009 n. 85 che ha lo scopo di conservare un campione di Dna dei soggetti che:
a) ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari;
b) arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto;
c) detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo;
d) nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo;
e) ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva.
f) Consanguinei di persone scomparse.
La tipizzazione del DNA dei soggetti di cui ai punti a), b), c), d), e), può essere effettuato esclusivamente se si procede nei confronti dei soggetti per delitti, non colposi, per i quali è consentito l’arresto facoltativo in flagranza.
Nel caso di arresto in flagranza di reato o di fermo di indiziato di delitto, il prelievo è effettuato dopo la convalida da parte del giudice.
La Banca Dati del Dna – come specifica anche la Dottoressa Germani nell’articolo qui sotto riportato – è sicuramente uno strumento di grandissima utilità poiché permette una comparazione sicura e veloce di tutti i soggetti il codice genetico è stato prelevato nei casi disciplinati dalla medesima Legge n. 85/2009.
Qui di seguito, l’articolo della Dottoressa Germani dal titolo “IL DNA AL SERVIZIO DELLE DONNE – COME LE TECNOLOGIE DEI LABORATORI DELLA POLIZIA SCIENTIFICA GIUNGONO A IDENTIFICARE IL PROFILO GENETICO DELL’AUTORE DI UNA VIOLENZA SESSUALE” che analizza in maniera dettagliata proprio l’analisi e la comparazione del Dna nei casi di sospetta violenza sessuale.
di
DOTT.SSA
CHIARA GERMANI
POLIZIA MODERNA – DICEMBRE 2023
I reati contro la sfera sessuale sono uno dei casi che più mette e a dura prova i “first responder” ovvero il personale sanitario e delle forze dell’ordine che si trovano di fronte a una vittima di violenza. Quando una donna denuncia un abuso, il principale obbiettivo è “metterla in sicurezza”, creando le condizioni ottimali affinché possa sentirsi accolta e protetta; contestualmente è necessario che la vittima fornisca all’operatore di polizia la collaborazione necessaria per ricostruire l’accaduto, anche in vista dell’accertamento tecnico scientifico da parte del personale della Polizia scientifica.
L’obbiettivo prioritario di chi opera è dare sicurezza, provvedendo alle necessità primarie della vittima e facendo in modo che possa ricevere le cure mediche e assistenziali. In questo momento gli operatori sono chiamati al difficile bilanciamento tra l’esigenza di evitare la cosiddetta vittimizzazione secondaria e lo svolgimento di attività investigative che non possono essere differite, come la raccolta degli indumenti, dei preservativi, il prelievo di tamponi vaginali: tutte fonti di prova che, unite tra di loro, consentiranno di comprendere la dinamica della violenza e l’identificazione dell’autore.
I laboratori di genetica forense e di esaltazione impronte latenti della polizia scientifica sono impegnati quotidianamente per l’identificazione degli autori di reati, e ciò non solo nel caso di omicidio e di altri reati gravissimi.
Mentre l’impronta digitale è formata da piccole figure geometriche (chiamate minuzie) che vengono confrontate con impronte di soggetti noti, la sequenza di DNA viene trasformata dal genetista forense in una serie di numeri sotto forma di grafico o “picchi” che identificano in modo univoco un individuo
La genetica forense è una branca relativamente giovane e deriva dalla genetica medica in quanto le tecniche utilizzate nell’ambito medico ed ospedaliero sono le stesse usate in ambito forense, solo che nel primo caso lo scopo è di tipo diagnostico o terapeutico, mentre nel secondo si mira a un’identificazione di polizia giudiziaria
Nella genetica medica le attività di estrazione e analisi del DNA trovano il loro fondamento giuridico nel “consenso informato” che il paziente sottoscrive prima di sottoporsi al prelievo.; tramite questo consenso viene dato al genetista medico la possibilità di analizzare l’intero patrimonio genetico del paziente. Per la genetica forense, invece, non esiste un “paziente” , ma esiste la traccia biologica di un “individuo ignoro”, rinvenuta sulla scena del crimine cosicché la base giuridica che permette di analizzare il DNA si trova in un provvedimento dell’autorità giudiziaria, che autorizza ad effettuare le analisi di laboratorio utili ai fini della Giustizia.
Un’altra differenza tra l’ambito forense e quello medico è nella natura stessa dell’analisi del DNA.
La genetica medica può analizzare tutto l’intero genoma della persona: dobbiamo pensare al DNA come se fosse un grande libro in cui ogni pagina descrive una nostra caratteristica fisica (il colore degli occhi, il colore dei capelli il colore della pelle, se siamo suscettibili ad un farmaco, se ci ammaleremo di una determinata malattia, e tanto altro); il genetista medico ha in mano l’intero libro e apre la pagina in cui vi è il tratto che vuole analizzare, come avviene ad esempio negli screening per alcuni tumori. Al genetista forense non è consentito, per legge, analizzare l’intero DNA, ma solo i tratti che permettono l’identificazione di un individuo; in altri termini, il genetista forense può aprire solo alcune pagine del libro, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria. I laboratori della polizia scientifica attraverso metodiche e strumentazioni molto sensibili, specifiche e innovative, effettuano le analisi di laboratorio sui reperti sequestrati su cui si va a rilevare tracce di DNA.
In caso di violenza sessuale il più delle volte questi accertamenti avvengono sugli indumenti della vittima. Dove sia presumibile rinvenire materiale biologico riconducibile all’aggressore, qualora vi fosse già un sospettato, per accertarne o meno la corrispondenza (il cosiddetto match).
Qualora non vi fosse un sospettato, al fine di cercare eventuali corrispondenze e quindi dare un nome ed un cognome alla traccia, quest’ultima sarà inserita nella banca dati nazionale del DNA dove sono conservati tutti i profili genetici provenienti da scene del crimine o da determinate categorie di soggetti, come le persone arrestate e condannate.
Bisogna precisare che il risultato genetico non è da sé indice di colpevolezza ma deve essere sempre integrato nel contesto investigativo perché potrebbe esserci una spiegazione alternativa e plausibile del perché il DNA di una persona si trovi su una determinata superficie, senza che ciò implichi di considerarla quale responsabile del reato.
Un supporto all’attività investigativa sulla violenza di genere.
In caso di violenza sessuale i laboratori di genetica forense della Polizia di Stato, utilizzando tecniche di ultima generazione, condivise con i gruppi di lavoro forensi europei ed extraeuropei, permettono di rilevare il profilo genetico del presunto aggressore da tracce – anche quantitativamente infinitesimali – in poco tempo.
Il gentista forense ha come primo compito l’identificazione della natura e della specie della sostanza biologica rinvenuta sui reperti provenienti dalla scienza del crimine.
I reperti sequestrati, da cui estrarre il DNA, possono riguardare profilattici, indumenti intimi, abiti, e ogni tipo di oggetto utilizzato per la violenza, come ad esempio un nastro adesivo utilizzato per immobilizzare la vittima. Come previsto dalle raccomandazioni per l’assistenza alla donna vittima di violenza sessuale definite dall’Aogoi (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani), i medici del pronto soccorso ginecologico effettuano anche tamponi vaginali, rettali, orali e della cervice uterina, che possono consentire al genetista forense di ottenere il profilo genetico dell’autore della violenza sessuale, isolandolo dal fluido biologico della vittima.
Tutte le tracce di presunto liquido seminale inizialmente vengono osservate attentamente con la luce ultravioletta, che permette di rendere visibili all’occhio umano le tracce sospette, Come si vede in molti fil e telefilm le tracce biologiche, le macchie di sperma, i fluidi vaginali, e la saliva se sottoposte alla luce U.V. (c.d. luci forensi) si illuminano di colore verdastro. Questo test ha però un limite, poiché esistono sostanze in natura che si illuminano allo stesso modo del liquido seminale e possono ostacolare il rilevamento delle fonti di prova (come ad esempio clorofilla, evidenziatori, batuffoli di cotone, detersivi e detergenti, cosmetici, ecc). In questi casi si parla di “falsi positivi” ed è per questo che tutte le tracce che risultano positive alle luci forensi devono essere ulteriormente indagate e confermate con dei test specifici di “diagnosi tissutale”. Queste analisi di tipo confermativo ci consentono di rilevare in maniera specifica una molecola prodotta dall’organo maschile.
Per queste analisi si utilizzano kit che funzionano come i test di gravidanza e come i test rapidi per il Covid: la positività è data dalla presenza di due strisce rosse mentre la negatività è data dalla presenza di una sola striscia su un apposito supporto contenente reagenti chimici.
Altra metodica è la ricerca degli spermatozoi con il microscopio ottico, ma si tratta di un metodo meno utilizzato in quanto è difficile trovare spermatozoi integri e ben visibili a distanza dall’evento.
Conclusa questa fase preliminare, si procede ai successivi step di laboratorio sulle tracce repertate che prevedono l’uso di strumenti, di metodiche standardizzate e certificate: estrazione, quantificazione, amplificazione ed elettroforesi capillare.
Nei casi di violenza sessuale alcuni reperti (tamponi vaginali o rettali) contengono sia i fluidi biologici della vittima che il liquido seminale dell’aggressore. In questi casi, per isolare il patrimonio genetico dell’aggressore, si utilizza una metodica di laboratorio (c.d. estrazione del DNA, la prima fase di laboratorio) che consente di separare la componente biologica maschile da quella femminile.
La seconda fase è la tecnica di 2quantificazione” che permette non solo di confermare la presenza di DNA sulle tracce, ma di sapere “quanto” di esso sia presente, ossia se sia quantitativamente utile per proseguire nelle indagini laboratoristiche.
La terza fase di “amplificazione” ha lo scopo di ottenere l’informazione genetica della traccia biologica. Per gli accertamenti di genetica forense non basta una sola molecola di DNA ma ne occorro milioni, motivo per il quale è necessario fare delle fotocopie. L’amplificazione è la nostra fotocopiatrice, che consente di moltiplicare i tratti genetici di interesse permettendo l’analisi delle caratteristiche genetiche specifiche dell’aggressore.
La quarta fase, l’ultima, è “l’elettroforesi capillare”, una tecnica che ha l’obbiettivo di rendere visibile su carta il profilo genetico ignoto ottenuto dalla traccia.
Grazie alle tecniche sopra illustrate, bisogna dare ora un nome al profilo genetico ignoto, pertanto, occorre confrontarlo con il profilo genetico di eventuali soggetti sospettati. Ciò avviene mediante l’individuazione dei “marcatori” che non sono altro che tratti genetici che vengono studiati dal genetista forense, perché presentano delle varianti (chiamate alleli) che sono le vere e proprie caratteristiche genetiche che distinguono inequivocabilmente, un individuo da un altro L’insieme di più di 10 marcatori costruisce il “profilo genetico” di un soggetto e ne consente l’identificazione. Effettuato il confronto tra il DNA rinvenuto nella traccia e quello del presunto aggressore, e verificati la loro corrispondenza, solo attraverso complessi calcoli statistici è possibile attribuire il profilo genetico della traccia al profilo genetico dell’indagato.
Laboratori di genetica forense: quale futuro.
La scienza ha fatto passi da gigante e i laboratori di genetica forense della polizia scientifica sono al passo con l’evoluzione tecnologica, mettendo al servizio della Giustizia metodiche e strumentazioni di nuova generazione nei casi di violenza di genere come per tutte le altre indagini ad essi affidate.
Tramite un moderno strumento (Rapid DNA) è oggi possibile ottenere in poche ore il profilo genetico del presunto aggressore da un tampone salivare, consentendo di effettuare velocemente la comparazione con le tracce rinvenute sulla vittima o sulla scienza del crimine.
I genetisti forensi della polizia scientifica stanno inoltre effettuando una sperimentazione con la quale anche da un quantitativo di DNA esiguo e degradato sarà possibile ottenere un profilo genetico di discreta qualità, idoneo ad essere comparato.
Inoltre, molti gruppi di lavoro e di ricerca forensi internazionali hanno intrapreso sperimentazioni con strumenti di nuova generazione (Next generation sequencing) che consentiranno, partendo da una sola traccia biologica, di descrivere la fisionomia dell’aggressore (colore degli occhi, dei capelli, della pelle, provenienza geografica etc.)
Si pensi a quanto uno strumento del genere possa rilevarsi prezioso in tutti qui casi in cui le vittime, a causa del trauma subito, non riescono a ricordare il volto dell’aggressore, potendosi così disporre di un identikit che supporterà l’attività investigativa, accelerando in questo modo i tempi della Giustizia.
LA BANCA DATI DEL DNA
La legge del 30 giugno 2009 n. 85 ha istituito la Banca Dati Nazionale del DNA (BDN Dna), un grande contenitore informatico che consente di confrontare il profilo genetico di persone ignote – tratto da una scienza del crimine – con quello di persone note contenuto in archivio. Tale Legge è nata dalla necessità di recepire il Trattato di Prum, sottoscritto da sette stati membri dell’unione Europea, che ha lo scopo di rafforzare la cooperazione internazionale in materia di lotta al terrorismo, alla criminalità transfrontaliera e all’immigrazione clandestina. I punti cardine della legge prevedono l’istituzione di due strutture separate che svolgono ruoli ben specifici:
– Il laboratorio centrale presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, che ha il compito di conservare ed analizzare il materiale biologico di soggetti noti coinvolti nei procedimenti penali soggetti sottoposti a misure detentive, provvisorie o definitive in carcere, o agli arresti domiciliari, gli arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto;
– La Banca dati nazionale del Dna presso il Dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, che raccoglie profili genetici di tracce provenienti dalla scienza del crimine (trasmessi dai laboratori delle forze dell’ordine o da laboratori specializzati pubblici o privati) e profili genetici di soggetti noti (trasmessi dal Laboratorio centrale). La Legge 85/2009 ha descritto in modo chiaro quali tratti dell’intero Dna di un individuo possano essere analizzati ed ha individuato un sistema informatico (chiamato Codis, Combined Dna Index System), fornito dal Fbi, con cui si registrano le informazioni genetiche utili per l’identificazione.
La condizione necessaria per poter inserire i profili genetici nella banca dati, è che i laboratori di genetica forense delle forze di polizia e delle istituzioni con elevata specializzazione (pubblici o privati) siano accreditati secondo la norma ISO/IEC 17025, ossia devono essere rispettati specifici requisiti tecnici e gestionali, I profili genetici restano inseriti nella BDN-Dna per non oltre quaranta anni dall’ultima circostanza che ne ha determinato l’inserimento, mentre il campione biologico è conservato per non oltre venti anni. A seguito di assoluzione con Sentenza definitiva perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, il profilo genetico viene cancellato dalla BDN-Dna.
Le potenzialità nell’uso della BDN-Dna sono innumerevoli: ausilio nelle indagini investigative, tempestività dell’azione repressiva, risparmio delle risorse umane ed economiche impiegate, e rapidità nella ricerca dell’autore del reato.
LA PRIMA VOLTA DELLA GENETICA FORENSE
La prima “caccia all’uomo” al mondo basata sul Dna ha avuto luogo tra il 1986 e il 1988 nel regno Unito, e precisamente ad Enderby nel Leicestershire, dove gli investigatori si trovarono a fronteggiare due brutali casi di violenza sessuale e omicidio, in cui le vittime erano due giovani ragazze: Linda Mann, uccisa nel 1983, e Dawn Ashworth nel 1986. Il principale sospettato era un ragazzo del luogo di nome Richard Bukland, giovane diciassettenne affetto da un ritardo mentale; grazie all’intuizione del genetista Alec Jeffreys, che lavorava presso l’università di Leicetser, è stato possibile assicurare alla Giustizia l’autore del reato. Il Dott. Jeffreys, durante i suoi esperimenti giornalieri dedicati alla genetica medica e alle malattie ereditarie familiari, aveva scoperto che era possibile isolare frammenti di Dna e attaccarli a una pellicola fotografica lasciata ina una vasca di sviluppo fotografico. Una volta estratta la pellicola dalla vasca, questa mostrava una sequenza di barre: Jeffreys si rese presto conto che ogni individuo presentava un disegno di frammenti di Dna che lo rendevano unico e pertanto e pertanto venne seguito lo stesso esperimento con il caso delle due giovani ragazze, esperimento che rivelò che il profilo genetico maschile rinvenuto sui corpi delle vittime non corrispondeva al profilo genetico dell’aggressore. Buckland venne così scagionato dalle accuse grazie all’analisi del Dna. Il genetista Jeffreys aveva dimostrato scientificamente alla polizia che, sebbene avessero avuto ragione sul fatto che un solo uomo avesse violentato ed ucciso entrambe le ragazze, non solo Buckland non aveva ucciso la Mann, ma non aveva nemmeno ucciso la Ashworth. Per identificare di chi fossero le tracce di Dna rinvenute suo corpi delle vittime furono inviate lettere ad ogni maschio nato tra il 1953 e il 1970, che avevano vissuto o lavorato a Enderby negli ultimi anni, chiedendo loro di effettuare un prelievo volontario di sangue. Dopo circa 8 mesi le analisi interessarono circa 5 mila uomini locali e consentirono di isolare il profilo genetico che corrispondeva a quello dell’assassino, Colin Pitchfork , che venne arrestato, processato e condannato all’ergastolo nel 1988 per entrambi gli omicidi .
(INTRODUZIONE DELL’AVV. GIUSEPPE DE LALLA. VIETATA LA RIPRODUZIONE)